20 aprile
[...]. L'una del mattino. La signorina Koike è salita a dormire, e son rimasta sola con mio marito. Si era appisolato sin dal far della sera. Una decina di minuti dopo che l'infermiera è andata via, ho cominciato a credere che in realtà fosse sveglio. Giaceva nell'ombra, ma lo sentivo agitarsi lievemente e mormorare. L'ho guardato, di soppiatto, e ho visto che, come pensavo, giaceva lì a occhi aperti. Guardava verso di me, ma oltre di me. I lillà che aveva portato Toshiko - su quelli parevano fissi i suoi occhi. La lampada era velata in modo da illuminare solo una piccola parte della stanza: sull'orlo di quel breve cerchio di luce, appena sufficiente a leggere il giornale, spiccavano lievemente i lillà. (Tratto da “La chiave”, 1956, di Junichiro Tanizaki).
“I manicomi erano la mia vera casa”, “memoria” dello scrittore brasiliano Paulo Coelho pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di aprile 2025: «Entro in un cubicolo piastrellato. C’è un lettino coperto da un telo di gomma e, accanto, uno strano macchinario con pulsanti, manopole e tre strumenti dotati di lancette. “Allora mi farete l’elettroshock”, dico al dottor Benjamin Gaspar Gomes. “Non preoccuparti. È molto più traumatico guardare qualcuno sottoposto al trattamento piuttosto che essere l’oggetto della cura. Non è assolutamente doloroso”. Mi sdraio, e l’infermiere mi mette una specie di tubo di gomma in bocca per impedire che mi morda la lingua. Poi mi posiziona sulle tempie due elettrodi simili ai microfoni di un vecchio telefono. Guardo la pittura scrostata del soffitto, poi sento che qualcuno ruota una manopola. Un attimo dopo mi sembra che una tenda scenda sui miei occhi; la vista si riduce presto a un unico puntino. Poi diventa tutto nero. Il dottore aveva ragione: non fa assolutamente male». La scena che ho appena descritto non è (…) presa dal diario del mio secondo soggiorno in un ospedale psichiatrico. Era il 1966, l’inizio del periodo più nero della dittatura militare brasiliana (1964-1985) e, come per un riflesso naturale del meccanismo sociale, la repressione che avveniva all’esterno pian piano veniva interiorizzata. Al punto che le famiglie della classe media trovavano semplicemente inaccettabile che i loro figli o nipoti volessero essere “artisti”. In Brasile, all’epoca, la parola “artista” era sinonimo di omosessuale, comunista, tossicodipendente e fannullone. Quando avevo diciott’anni, credevo che il mio mondo e quello dei miei genitori potessero coesistere pacificamente. Mi impegnavo per ottenere buoni voti alla scuola dei gesuiti che frequentavo: studiavo tutti i pomeriggi, ma di notte volevo realizzare il sogno di diventare un artista. Non sapevo quale cammino intraprendere, e così entrai in una compagnia amatoriale di teatro. Anche se non avevo nessuna intenzione di diventare un attore, quanto meno ero tra persone con le quali avevo una certa affinità. I miei genitori, però, non condividevano la mia idea della coesistenza pacifica di due mondi così diametralmente opposti. Una notte, tornai a casa ubriaco, e la mattina seguente fui svegliato da due infermieri corpulenti. «Vieni con noi», disse uno di loro. Mia madre piangeva e mio padre si sforzava di nascondere i suoi sentimenti. «È per il tuo bene» disse. «Ti faranno solo degli esami». Così iniziò il mio viaggio in vari ospedali psichiatrici. Fui ricoverato, mi vennero somministrati medicinali di ogni tipo e subii diversi trattamenti. Durante il secondo ricovero, scappai appena mi si presentò l’occasione e girovagai finché riuscii a reggere; poi tornai a casa dai miei genitori. Con loro vissi un periodo di armonia e serenità – da luna di miele –, ma dopo un po’ ricominciai a frequentare quelle che la mia famiglia chiamava le «cattive compagnie». E gli infermieri ricomparvero. Nella vita esistono alcune battaglie che prevedono soltanto due esiti: o ci distruggono o ci rendono più forti. Per me, l’ospedale psichiatrico fu una di esse. Una notte, parlando con un altro degente, dissi: «Sai, penso che quasi tutti, a un certo punto della vita, abbiano sognato di essere il presidente della Repubblica. Ma né tu né io potremo aspirare a quella carica, perché le nostre cartelle cliniche non ce lo permetteranno». «Allora non abbiamo niente da perdere», replicò lui. «Possiamo semplicemente fare quello che vogliamo». Aveva ragione! La situazione in cui mi trovavo era così strana, così estrema, che portava con sé qualcosa che non aveva precedenti: la libertà totale. Tutti gli sforzi della mia famiglia per rendermi uguale agli altri avevano ottenuto un risultato diametralmente opposto: adesso ero diverso da tutti i giovani della mia età. La stessa notte pensai al mio futuro. Un’opzione era quella di diventare uno scrittore; un’altra, forse più attuabile, era quella di impazzire davvero. Avrei ricevuto i sussidi dello Stato, non avrei mai dovuto lavorare né assumermi alcuna responsabilità. Naturalmente sarei stato costretto a trascorrere molto tempo in istituti psichiatrici ma, per esperienza personale, sapevo che lì i pazienti non si comportano affatto come i pazzi rappresentati nei film di Hollywood. A parte alcuni casi patologici di catatonia o schizofrenia, tutti gli altri malati erano perfettamente in grado di parlare della vita, e spesso avevano idee davvero originali sull’argomento. Talvolta soffrivano di attacchi di panico, di crisi depressive o manifestazioni di aggressività, ma erano episodi limitati anche nel tempo. Il rischio più grande che ho corso in un ospedale psichiatrico non è stato quello di perdere ogni speranza di diventare presidente della Repubblica, né di sentirmi emarginato o trattato ingiustamente dalla mia famiglia, perché – in cuor mio – sapevo che la decisione di farmi ricoverare in un manicomio rappresentava un disperato atto d’amore e di protezione da parte dei miei genitori. Il pericolo più grande che ho dovuto affrontare è stato quello di finire per considerare assolutamente normale la mia situazione. Quando uscii dall’ospedale per la terza volta, dopo il solito ciclo di fuga dal manicomio/viaggi senza meta/rientro a casa/luna di miele con la famiglia/ritorno alle cattive compagnie/riammissione in ospedale, avevo quasi vent’anni e mi ero abituato a quel ritmo di eventi. Allora, però, qualcosa era cambiato. Sebbene fossi di nuovo tornato alle «cattive compagnie», i miei genitori erano sempre più riluttanti a farmi ricoverare. Erano ormai convinti che fossi un caso senza speranza e preferivano tenermi vicino per accudirmi e sostenermi. Il mio comportamento peggiorò, diventai più aggressivo, tuttavia nessuno menzionava più un internamento in manicomio. Trascorsi un periodo di grande felicità mentre cercavo di esercitare la mia cosiddetta libertà, vivendo finalmente una “vita da artista”. Lasciai il lavoro che i miei genitori mi avevano procurato, smisi di studiare e mi dedicai esclusivamente al teatro – e alla frequentazione dei bar preferiti dagli intellettuali. Per un lungo anno, feci esattamente ciò che mi piaceva, fino a quando il mio gruppo teatrale venne sciolto dalla polizia politica: i locali “alternativi” si riempivano di spie, i miei racconti erano rifiutati da tutti gli editori e nessuna delle ragazze del “giro” voleva uscire con me – ero un tipo senza avvenire, senza una carriera futura, inoltre non avevo neppure intenzione di laurearmi. Fu così che, un giorno, decisi di distruggere la mia camera da letto. Era un modo per comunicare senza parole: «Vedete, non posso vivere nel mondo reale. Non riesco ad accettare un lavoro, non posso realizzare il mio sogno. Avete perfettamente ragione: sono un pazzo e voglio tornare all’ospedale psichiatrico!». Talvolta il destino è ironico. Dopo avere distrutto la stanza, mi sentii sollevato allorché vidi che i miei genitori stavano chiamando l’ospedale. Ma il mio medico curante era in vacanza. Arrivarono gli infermieri, seguiti da un giovane dottore. Quando entrò nella mia camera, mi vide circondato di libri distrutti, dischi rotti e tende strappate, e chiese ai miei genitori e agli infermieri di uscire. «Che succede?» domandò. Non risposi. Un pazzo dovrebbe sempre comportarsi come un individuo che non appartiene a questo pianeta. «Smettila di fare l’imbecille,” disse. “Ho letto la tua cartella clinica. Non sei affatto pazzo e io non ho alcuna intenzione di farti ricoverare». Lasciò la mia camera, compilò una ricetta per una confezione di tranquillanti e – così scoprii in seguito – disse ai miei genitori che soffrivo di “sindrome da ricovero”. Le persone normali che, a un certo punto, si trovano in una situazione anomala – stati d’ansia, depressione, attacchi di panico ecc. –, talvolta usano la malattia come alternativa alla vita. Ovvero, scelgono di ammalarsi, perché essere “normali” richiede troppa fatica. I miei genitori ascoltarono il parere del medico e non mi fecero ricoverare mai più in un istituto psichiatrico. Da quel momento, non ho più potuto cercare un rifugio nella follia. Ho imparato a leccarmi le ferite, a perdere alcune battaglie e vincerne altre, e spesso ho dovuto abbandonare i miei sogni impossibili e lavorare in un ufficio, finché, un giorno, ho rinunciato a tutto per l’ennesima volta e ho deciso di andare in pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Lì ho capito che non potevo continuare a rifiutarmi di affrontare il destino di “essere un artista”, che nel mio caso significava fare lo scrittore. Così, a trentotto anni, ho deciso di scrivere il mio primo vero libro e di combattere una battaglia che inconsciamente avevo sempre temuto: la battaglia per un sogno. (…). Veronika decide di morire (…) è uscito in Brasile nell’agosto 1998. A settembre, avevo ricevuto più di mille lettere e biglietti che raccontavano esperienze simili. A ottobre, alcuni dei temi toccati nel libro – depressione, attacchi di panico, suicidio – sono stati discussi in un seminario che ha avuto ripercussioni a livello nazionale. Il 22 gennaio 1999 il senatore Eduardo Suplicy ha letto alcuni passi di Veronika ai colleghi ed è riuscito a ottenere l’approvazione di una legge bloccata al Congresso brasiliano da dieci anni, una legge che proibiva i ricoveri coatti negli istituti psichiatrici.
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