“Perché non possiamo (non) dirci antifascisti”, intervista di Concetto Vecchio allo scrittore Antonio Scurati pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 25 di aprile 2025: (…). Ricorda la scintilla per M? «Lavoravo al libro su Leone Ginzburg, Il tempo migliore della nostra vita, e in un pomeriggio di pioggia mi misi a guardare uno di quei filmati di Mussolini che arringa la folla dal balcone di piazza Venezia».
Su YouTube? «Sì, e mentre lo guardavo ho avuto una piccola folgorazione, come una vertigine: “Questo non l’ha mai raccontato nessuno!”, ho pensato».
Cosa non era mai stato raccontato? «Mussolini!».
Ma esistono centomila libri su di lui! «Ma quello che si accendeva in me era lo sguardo del romanziere. Mussolini come protagonista di un romanzo. Un’idea per certi versi inaudita. Non era mai stata realizzata».
Perché secondo lei? «Perché vigeva una sorta di tabù: il fascismo andava raccontato dal punto di vista dell’antifascismo, delle vittime. Anch’io mi sono formato nel mito resistenziale, come racconto fondativo: i fascisti non mi avevano mai interessato prima di allora».
Perché lo chiama romanzo? Non sono libri di storia scritti da uno scrittore? «No. È un romanzo non fiction, io lo chiamo romanzo documentario. Nessuna invenzione, aderenza rigorosa alla documentazione storica, ma i fatti raccontati attraverso le forme del romanzo».
Ricorda il primo appunto preso? «Una frase di Ceronetti: “Sembra lontanissimo, eppure la distanza è ancora poca per pensare Mussolini senza fallire. Lasciamo venire il 1999, se verrà”. E io ho annotato sul mio taccuino: “Il tempo è arrivato”».
Che anno era? «L’appunto non è datato. Forse il 2014. O il 2013? Al governo c’era Renzi. O forse Letta. Era quindi una stagione politica molto diversa. Ma i segni di dove stavamo andando c’erano già a saperli scorgere».
Ha subito pensato a ricavarne più libri? «Ho subito immaginato una trilogia. Quando ho finito il primo volume, estate 2017, l’ho mandato ad Antonio Franchini, alla Bompiani, chiedendogli di non pubblicarlo prima di un anno. Volevo iniziare a scrivere il secondo per evitare che l’eventuale insuccesso del primo mi scoraggiasse dal proseguire».
Aveva dei modelli? «Avevo dei riferimenti. Tra questi Anatomia di un istante di Cercas e Le Benevole di Littell».
In che senso la definisce un’idea inaudita? «Quando raccontavo ai miei amici che volevo fare una trilogia romanzesca su Mussolini, mi guardavano stupiti: “Perché? Sei matto!”».
Oggi molti leader populisti sembrano guardare a Mussolini. «Me lo dicono soprattutto all’estero. L’archetipo per molti leader populisti con tendenze autoritarie è Mussolini, non certo Hitler».
Lei ha avuto un’intuizione. «Ma questo mio lavoro non sarebbe stato possibile se non fosse avvenuto un fatto: e cioè che la tradizione dell’antifascismo novecentesco stava tramontando. Andava vivificata a livello di letteratura popolare».
Ma lei racconta Mussolini, non l’antifascismo. «È proprio questa la novità, la rivoluzione dello sguardo: racconto il fascismo dal di dentro, lasciandone affiorare l’aberrazione senza filtri ideologici».
(…). Cosa ha capito di Mussolini? «Era un uomo cavo, vuoto, in cui gli italiani hanno riversato il peggio di loro stessi. Esercitava la supremazia tattica del vuoto».
Mussolini ci rappresenta? «È l’animale notturno che è in noi. Il lato oscuro degli italiani. La sua fortuna è stata la politica della paura. Il fascismo faceva paura, ma allo stesso prosperava sulla paura degli altri».
Perché funzionò? «Perché i fascismi si presentano come predatori, ma lucrano consensi sul fatto che le persone si sentono prede, vivono nel timore di essere attaccate, come ci insegna la paleoantropologia. La vita ridotta a umori neri. Soffiano su questi umori anche i populisti».
(…). Che 25 aprile è questo? «Per certi versi triste. La parola antifascismo è diventata divisiva. Mai come in questo periodo siamo lontani da un comune sentire. È assurdo: per me l’antifascismo è rappresentato da Sergio Mattarella, il custode della Costituzione, non certo da frange radicali violente».
E Giorgia Meloni? «Ho sperato che la presidente del Consiglio si elevasse da capo di fazione a statista riconoscendo almeno il valore fondamentale della lotta di Liberazione. Non accadrà mai, temo. Riguardo al passato fascista la linea è ancora quella di Almirante: “Non rinnegare non restaurare”».
Per calcolo elettorale? «Per un fatto esistenziale. Identità biografica. Chi viene da lì, non si libera di quelle radici».
I giornali della destra l’accusano di fare cassa col Duce. «È come se si accusasse un medico di fare soldi con le malattie».
Oggi che significato ha la festa della Liberazione? «Mai come adesso è una data decisiva perché ci impone di rinnovare la scelta tra democrazia liberale e derive autoritarie. Una memoria del futuro, non del passato».
(…). Non le dicono di scendere in politica? «Me lo hanno offerto molte volte. Sempre rifiutato. I giornali della destra mi trattano come se fossi un leader dell’opposizione. E molti lettori mi dicono: “Ci salvi lei!”. “Non dite cavolate”, rispondo. Salvatevi da soli. Io sono solo uno scrittore».
Bisogna coltivare un’ossessione per un’impresa letteraria? «Bisogna coltivare l’oltranza, virtù giovanile. Io, poi, da giovane ero terribilmente arrogante. Ora un po’ meno, mi auguro».
Si sente liberato? «Provo sollievo. Ma è stato un bel pezzo della mia vita che se ne va. E c’è in me una piccola malinconia anticipatoria».
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