"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 24 dicembre 2024

Strettamentepersonale. 34 “Racconto di Natale”.


RaccontodiNatale”. “La macchia di Lutero”, racconto di Andrea Vitali edito da “Garzanti” e pervenutomi – in omaggio - da ILLIBRAIO.IT: L’oste Perin era noto così, Oste Perin. Per tutti, ormai, era quello il suo nome. Ne era convinto pure lui, che rispondeva al volo quando lo chiamavano in quel modo piuttosto che Antonio, come risultava all’anagrafe. L’Oste Perin era gestore del Circolo dei Lavoratori, tra i vari locali del paese quello che godeva di maggior fama quanto a degustazione a prezzo modico dei cosiddetti prodotti tipici del lago, in realtà un’accozzaglia di cibi mutuati da questa o quella gastronomia dei territori limitrofi: pochi i piatti davvero autoctoni, forse anzi uno soltanto, i missoltini, che peraltro con questa storia non c’entrano niente. Classe 1903, aveva scapolato dalle due guerre mondiali. Troppo giovane per la prima, troppo vecchio per la seconda. Non lo si poteva accusare di vigliaccheria o di essersi imboscato, il destino aveva voluto così. Tuttavia, aveva avuto un fratello, ragazzo del ’99, caduto sull’Isonzo nel corso della prima, e uno zio, lo zio Gusto, classe 1919, che era tuttora dato per disperso sul fronte russo. Forte della sua incolpevole assenza in qualsivoglia teatro di guerra, quando nella sua osteria il discorso verteva su quest’ultima si sentiva in diritto di dare pareri. Sosteneva la tesi che la guerra allungava le sue zampe anche su chi non l’aveva fatta, indebolendone lo spirito. Bastava pensare a coloro che avevano avuto un morto, un disperso, che avevano patito la miseria e ancora la pativano, agli orfani, alle vedove. Quelli erano i mali che la guerra, pur se finita da tempo, s’era lasciati dietro. Mali inguaribili? chiedeva con una certa enfasi. Certo che sì! si rispondeva. E non si poteva fare niente per lenirli almeno un poco? Di nuovo rispondeva lui per conto dell’uditorio: Sì, certo che si poteva! Guardare al futuro, quella la medicina, senza dimenticare le brutture del passato. Bisognava ricostruire non solo edifici, strade e ponti, che tuttavia in paese non avevano subito danno alcuno, ma anche le amicizie e tutto ciò che univa le persone. Fu quindi tra i primi a lodare l’iniziativa promossa dall’amministrazione comunale nel settembre 1948 volta a riportare agli antichi splendori la festa che più di ogni altra rappresentava l’anima del paese, anima sacra e pagana insieme: quella che movimentava la notte della vigilia dell’Epifania, con la tradizionale sfilata dei Re Magi che distribuivano doni ai bambini. Le edizioni belliche, così come quelle dei due anni precedenti, l’avevano infiacchita. Consapevole del fatto che andando avanti così la festa si sarebbe persa, l’allora sindaco Attilio Fumagalli, al pari del Perin elusore suo malgrado della guerra, aveva sottoposto la questione alla giunta e deciso infine di costituire un comitato che se ne prendesse cura. L’incarico venne affidato a: Egidio Fioravanti, merciaio, vedovo; Giambo Primo Coiatti, calzolaio, medaglia d’argento al valore civile; Fisetta Tantini, maestra elementare, coreografa della filodrammatica; Ebe Ebenice, amica della Tantini, costumista della stessa filodrammatica; Orco Filarete, gestore della latteria sociale e affabulatore di conio; Mirabello Pisticchio, ferroviere potentino, padre di cinque figli. Oculata fu la gestione delle nomine: due commercianti, una maestra coreografa, la costumista,il gestore della latteria, che aveva contatti quotidiani con i frazionisti: grazie a costoro, la voce chefosse necessario per il bene di tutti ripristinare la festa si sparse in men che non si dica, riaccendendo l’entusiasmo sopito. Non si mancò di chiedere i necessari contributi in denaro, anche minimi, per finanziare l’affitto dei tre cavalli per i Re Magi, dei costumi d’epoca e di qualche elemento coreografico. Il ferroviere Mirabello Pisticchio dimostrò doppiamente la sua utilità in seno al comitato: oltre a fornire i cinque figli, ricci e scuri di pelle, quindi ideali per interpretare i moretti al seguito dei tre Re, mise a disposizione le numerose amicizie con i colleghi della linea Lecco-Sondrio, garantendo una capillare distribuzione dei manifesti, stampati a titolo gratuito dal tipografo Berebelli, che annunciavano la festa e che finirono in bella vista sui muri di quasi tutti i paesi della sponda orientale del lago. L’esito dell’iniziativa andò oltre le aspettative del comitato, dell’amministrazione comunale, dello stesso Oste Perin, che aveva generosamente contribuito in linea con le sue convinzioni. La notizia che quella festa, le cui radici si perdevano nella notte dei tempi, addirittura nel Seicento, quando sul lago vigeva il dominio spagnolo, avrebbe ripreso vigore si sparse un po’ ovunque e non mancò di giungere alle orecchie di coloro per cui fiere, mercati o feste erano occasioni di guadagno. Nel corso del mese di dicembre all’assessore per il commercio Giulio Imbevuti giunsero numerose richieste di ambulanti e venditori delle più varie merci che chiedevano piazza per disporre le proprie bancarelle a partire già dal pomeriggio del 5 gennaio. Durante un’informale riunione di giunta, l’amministrazione decise di non ostacolare nessuno, offrì spazi a tutti, così che il lungolago, i giardini pubblici, perfino il piazzale esterno della stazione, si sarebbero animati come mai era accaduto prima. Tra le tante domande depositate in municipio una si distingueva per la sua singolarità e anche per qualche scusabile errore grammaticale. Il firmatario era infatti tale Eberhard Kanaus, svizzero tedesco, originario del cantone Appenzell Innerrhoden. Ma a suscitare curiosità non fu certo la sua origine bensì la specialità per cui si proponeva: illusionista. Toccò al sindaco Fumagalli chiarire all’Imbevuti, che non aveva idea di cosa fosse, che un illusionista era una specie di mago, un prestigiatore insomma. E sempre il Fumagalli, di fronte alla perplessità del suo assessore, spiegò sorridendo che nella trama della festa un soggetto simile ci stava più che bene, anzi, benissimo. «Per una notte potrà illuderci che tutto va bene, che non è successo niente di brutto, che la vita scorre serena. Ci farà sognare un po’. Non è mica un male. Non crede?» Che l’Imbevuti si fosse lasciato convincere o no anche il Kanaus ottenne il permesso di sistemare il proprio rideau nientemeno che nell’ambitissimo Circolo dei Lavoratori, accolto con orgoglio dall’Oste Perin. Venne il giorno tanto atteso. Fin dalle ore della tarda mattinata le vie del paese si animarono di indigeni e foresti che respiravano un’aria di allegria arricchendola vieppiù con la propria. Un’aria che però si andava via via saturando di un altro sentore, molto più corposo e penetrante: quello della trippa, o busecca, nel vernacolo locale, il piatto principe della serata. Piatto di tradizione, di cucina povera, ma arricchito nel tempo dalla fantasia di questo o quel cuoco. Piatto che per l’occasione nessun ristorante, dal nobile Cavallo Bianco all’altrettanto esclusivo Hotel Tommaso Grossi, si rifiutava di cucinare, sebbene fosse il pezzo forte delle varie trattorie, dalla Pradegiana all’Osteria del Ponte fino al Trani della Lena, e naturalmente del Circolo dei Lavoratori, che la forniva anche da asporto, anticipando una modalità che avrebbe impiegato ancora anni prima di divenire pratica abituale. Non tutti la gradivano. Certi palati aristocratici la rifuggivano altezzosi. Ma pur schifandola, anche costoro non potevano negare che quel profumo che impregnava l’aria, oltre a far miagolare i gatti, segnalava il ritorno di una festa che ridava anima al paese. L’illusionista Eberhard Kanaus del cantone Appenzell Innerrhoden non conosceva la busecca. Mai sentita nemmeno nominare. Ne annusò l’esistenza, e non avrebbe potuto evitarlo, quando fece il suo ingresso nei locali del Circolo dove il lavoro preparatorio aveva preso il via già dal giorno precedente. Non fu per nulla sconcertato da quell’odore in cui si inseriva una traccia che definire d’animale non è esagerato. Anzi, vuoi per la curiosità, vuoi per la fame, all’Oste Perin, che intanto gli mostrava a gesti dove avrebbe potuto piazzarsi godendo così della maggior visibilità, chiese in un faticoso italiano infarcito di tedesco cosa bollisse in pentola da impregnare l’aria in quel modo. «È la busecca», rispose l’Oste Perin d’istinto. E, «trippen», disse poi pensando di farsi capire meglio. Fu così che, nonostante la perplessità linguistica, il Kanaus conobbe la trippa. «Kutteln!» esclamò quando infine capì di cosa si trattava. In verità non solo la conobbe ma l’apprezzò sin dal primo assaggio. Dopo una mezza scodella di prova, infatti, ne chiese subito un’altra però ben piena per tacitare la fame. E, sedata l’urgenza, una terza che, come disse, gli avrebbe permesso di gustarne ogni… ogni…  E, la bocca aperta a cercare la parola, sfregò le dita in aria per far intendere che si riferiva alle sfumature. L’Oste Perin gongolò per la soddisfazione. Eh be’, bisogna capirlo: un ospite straniero che si beava della sua cucina era pur sempre un bel riconoscimento, un vanto che non avrebbe dimenticato di dichiarare davanti alla sua clientela abituale. Poi, notando come il viso del Kanaus, la pancia piena, avesse assunto un roseo colorito, sorridendo e con in mano la scodella vuota commentò che, pur felice di averlo soddisfatto, pregava il cielo di aver calcolato in modo corretto la quantità di trippa e verdure, perché se tutti i suoi clienti si fossero presentati armati di un tale appetito in quattro e quattr’otto sarebbe rimasto a secco, col rischio certo di creare più di un malumore e guadagnare una cattiva fama alla sua gestione del Circolo. Il Kanaus, non disdegnando l’offerta di un grappino, sorrise a sua volta e levò l’indice verso l’alto, richiamando l’attenzione dell’Oste Perin. «Foi ancora credete che ogni coza di qvesto mondo finirà», disse. Perché? Non è forse così?, chiese la muta espressione dell’Oste Perin. «Nein, nein. Absolut», dichiarò l’illusionista agitando il capo. «Non è possibile», affermò deciso l’Oste Perin, forte dell’esperienza e con il pensiero rivolto al pentolone dove la trippa continuava a borbottare. «Per un illuzionizta infece ja!» asserì il Kanaus. L’Oste Perin, che pensava di potersi permettere qualche confidenza con il suo ospite, dondolò la testa. «Mi state prendendo in giro?» chiese con cautela. «Io non permettere mai», ribatté l’illusionista. E per dimostrargli che non si stava burlando di lui disse che glielo avrebbe spiegato meglio. «Azcoltate!» L’Oste Perin sapeva qualcosa della macchia di Lutero? «Lutero?» sorse sulle labbra dell’oste. Il nome… quel nome l’aveva sentito a proposito di una storia, verità o leggenda che fosse, secondo la quale un tale che si chiamava così aveva rischiato la pelle in quel di Menaggio. «Ai tempi di carlocodega, eh!» precisò l’Oste Perin. Ma chi fosse, cosa facesse e soprattutto perché, sempre che fosse vero, avesse rischiato di finire male in quel paese, lo ignorava del tutto. «Era un teologo di Germania», spiegò il Kanaus, vissuto parecchi secoli prima, e portatore di idee religiose non molto ortodosse. Ma ciò che più contava adesso, proseguì, era sapere che la vita errabonda dell’illusionista cui lui era costretto gli aveva fatto fare incontri a volte di estremo interesse, grazie ai quali aveva molto imparato sull’umanità e sulle sue stranezze. Cosa che avevano arricchito assai la sua arte. Un insegnamento sopra tutti gli altri era stato di estrema utilità: è facile illudere chi abbia voglia di farsi illudere. L’Oste Perin fece un cenno del capo come a voler far capire di avere compreso, nonostante la fatica di intendersi col suo ospite. In realtà non aveva capito un accidente. Non aveva parlato di una macchia poco prima? Che fine aveva fatto? «Uno zolo momento», fece l’illusionista quasi gli avesse letto nel pensiero. Perché una cosa molto simile era accaduta con la macchia di Lutero, della cui esistenza era venuto a conoscenza durante un giro di spettacoli in Turingia, passando nei pressi di Eisenach, apprendendo che nel castello di Wartburg quel tal Lutero… «Martin Luther», precisò il Kanaus. …già condannato per le sue idee teologiche ma vivo grazie a un falso rapimento organizzato dal principe Federico il Saggio, aveva trascorso una decina di mesi iniziando a tradurre in tedesco la Bibbia, in particolare il Nuovo Testamento nella versione latina di Erasmo da Rotterdam… L’Oste Perin contrasse il viso in una maschera interrogativa e guardò l’illusionista sbattendo le palpebre, come chi, davanti a più strade, non sia in grado di scegliere quella giusta. «Ma tutto qvesto non è importante», spazzò via con un gesto della mano il Kanaus mandando l’oste ancora più in confusione: perché diavolo glielo aveva raccontato, allora? «Eigen, esatto, il diafolo!» esultò l’illusionista meravigliato dall’acume dell’oste. Il punto era proprio quello. L’Oste Perin si massaggiò il mento mormorando parole tra sé. Cosa c’entrava il diavolo, adesso? C’entrava eccome! Perché, a quanto si narrava, durante l’impegnativo lavoro di traduzione, Mefistofele, Belzebù o qualche altro diavolaccio dell’inferno era andato a trovare più volte Lutero per distrarlo dal suo impegno. E lui, travolto dall’ira, desideroso di restare solo e proseguire, al fine di allontanarlo non aveva trovato di meglio che scagliargli contro la boccetta d’inchiostro in cui intingeva la penna. «E… e lui?» chiese l’Oste Perin a mezza voce perché non era sicuro di aver inteso. «Lui chi?» ribatté il Kanaus. «Il demonio, no?» fece l’Oste Perin. «Ah, certo, certo! der Teufel!» Insomma, il maligno probabilmente lo lasciò in pace a un certo punto, proseguì il Kanaus, stufo di subire quegli attacchi. Il viso dell’Oste Perin assunse una maschera di delusione, avendo forse sperato in chissà quale tragedia, densa di colpi di scena. E poi c’era la faccenda della macchia! Che fine aveva fatto? Boh! Sembrava essersi persa nella narrazione dell’illusionista. Ma quello, come se avesse intuito un’altra volta dubbi e domande: «Fengo al punto», disse. Il risultato di questa battaglia era facile da immaginare: schizzi d’inchiostro dappertutto, sui muri della stanza, sul pavimento, sul tavolo di lavoro. Macchie che poi qualcuno avrà lavato via, mentre la storia di quei duelli, invece… «Nachtaktiv», precisò il Kanaus. «Come?» fece l’Oste Perin. «Ti puio», cercò di spiegare il Kanaus. «Notturni», accorse il Perin. «Ja», approvò l’illusionista. …la storia di quei duelli, riprese, tra il teologo e il maligno si andava gonfiando passando di bocca in bocca, acquisendo via via i contorni della verità e attraversando i secoli. Ora, in tempi più moderni, più razionali forse, passate in giudicato le diatribe eretiche e le apparizioni infernali, il castello di Wartburg è diventato meta turistica proprio per via di quella lotta, spiegò l’illusionista. «E la macchia?» chiese l’Oste Perin, soddisfatto, a un cenno del Kanaus, di aver compreso. «Ezatto!» I turisti perlopiù ignoravano le vicende umane e intellettuali di Lutero, ma erano avvinti dalla faccenda misteriosa dell’apparizione di un diavolaccio, ed erano perciò curiosi di poter ammirare alcune macchie di quell’inchiostro, segno e prova inconfutabile del combattimento. Una macchia soprattutto aveva resistito al tempo e ai lavaggi, ma aveva rischiato anche lei di scomparire, cosa che avrebbe sottratto al castello il suo richiamo più attraente, provocando un danno economico di non poco conto visto che l’ingresso era consentito solo con l’acquisto di un biglietto. A quel punto il Kanaus fece una pausa a effetto. «Foi cosa afreste fatto?» chiese poi all’Oste Perin. «Be’…» borbottò questi, «ci dovrei pensare… mi farei venire un’idea…». «Appunto», confermò l’illusionista. Ci voleva un’idea, un colpo di genio. E così fu, ma non grazie alla mente di qualche scienziato, sottolineò il Kanaus. Piuttosto quella pragmatica di uno dei custodi del castello che, senza dir niente a nessuno, di tanto in tanto rinfrescava quel segno così ambito dalla curiosità dei visitatori con una passatina di volgare inchiostro di tipografia. «Capito?» chiese il Kanaus. In quel modo la macchia non sarebbe mai svanita, soddisfacendo per sempre la curiosità di chi passa dal castello per vedere il punto esatto in cui quel frate eretico lottò col diavolo. Lui pure, proseguì l’illusionista, davanti alla macchia era rimasto avvinto per qualche istante dal mistero di ciò che poteva essere accaduto in quella stanza, subendone la suggestione.  Quando poi si fece conoscere dal custode dichiarandogli la sua professione, quello si ritenne quasi in dovere svelargli l’arcano, forse perché si sentiva fra colleghi. E risero insieme poi, proprio con quella macchia sotto gli occhi, perché in fondo altro non era che un gioco di prestigio, un’illusione. «Ora è più chiaro?» chiese ancora il Kanaus. «In verità…» principiò a rispondere l’Oste Perin fermandosi subito, perché gli sfuggiva il nesso con la sua trippa. «Zemplice», gli venne in aiuto l’Illusionista. Temeva che in quella sera di festa la sua trippa avrebbe potuto non accontentare tutti i clienti, l’aveva detto, no? «Ja!… cioè, sì» confermò l’Oste Perin. Ecco, avrebbe potuto imitare il custode del castello di Wartburg, aiutare la trippa a non finire mai, concedere a tutti di gustarne un piatto o una scodella ben colmi usando, anziché inchiostro, acqua per allungare il brodo. Un espediente che, volendo, poteva essere applicato a qualunque tipo di minestra. «Acqua», compitò l’Oste Perin come se pronunciasse una parola mai sentita prima. «Acqva», confermò il Kanaus con un sorriso.  Semplicissima acqua. Un elemento di cui, aggiunse, non gli pareva che da quelle parti ci fosse carenza.

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