“RaccontodiNatale”. “La macchia di Lutero”, racconto di Andrea Vitali edito da
“Garzanti” e pervenutomi – in omaggio - da ILLIBRAIO.IT: L’oste Perin era noto così, Oste
Perin. Per tutti, ormai, era quello il suo nome. Ne era convinto pure lui, che
rispondeva al volo quando lo chiamavano in quel modo piuttosto che Antonio,
come risultava all’anagrafe. L’Oste Perin era gestore del Circolo dei
Lavoratori, tra i vari locali del paese quello che godeva di maggior fama
quanto a degustazione a prezzo modico dei cosiddetti prodotti tipici del lago,
in realtà un’accozzaglia di cibi mutuati da questa o quella gastronomia dei
territori limitrofi: pochi i piatti davvero autoctoni, forse anzi uno soltanto,
i missoltini, che peraltro con questa storia non c’entrano niente. Classe 1903,
aveva scapolato dalle due guerre mondiali. Troppo giovane per la prima, troppo
vecchio per la seconda. Non lo si poteva accusare di vigliaccheria o di essersi
imboscato, il destino aveva voluto così. Tuttavia, aveva avuto un fratello,
ragazzo del ’99, caduto sull’Isonzo nel corso della prima, e uno zio, lo zio
Gusto, classe 1919, che era tuttora dato per disperso sul fronte russo. Forte
della sua incolpevole assenza in qualsivoglia teatro di guerra, quando nella
sua osteria il discorso verteva su quest’ultima si sentiva in diritto di dare
pareri. Sosteneva la tesi che la guerra allungava le sue zampe anche su chi non
l’aveva fatta, indebolendone lo spirito. Bastava pensare a coloro che avevano
avuto un morto, un disperso, che avevano patito la miseria e ancora la
pativano, agli orfani, alle vedove. Quelli erano i mali che la guerra, pur se
finita da tempo, s’era lasciati dietro. Mali inguaribili? chiedeva con una
certa enfasi. Certo che sì! si rispondeva. E non si poteva fare niente per
lenirli almeno un poco? Di nuovo rispondeva lui per conto dell’uditorio: Sì,
certo che si poteva! Guardare al futuro, quella la medicina, senza dimenticare
le brutture del passato. Bisognava ricostruire non solo edifici, strade e
ponti, che tuttavia in paese non avevano subito danno alcuno, ma anche le
amicizie e tutto ciò che univa le persone. Fu quindi tra i primi a lodare
l’iniziativa promossa dall’amministrazione comunale nel settembre 1948 volta a
riportare agli antichi splendori la festa che più di ogni altra rappresentava
l’anima del paese, anima sacra e pagana insieme: quella che movimentava la
notte della vigilia dell’Epifania, con la tradizionale sfilata dei Re Magi che
distribuivano doni ai bambini. Le edizioni belliche, così come quelle dei due
anni precedenti, l’avevano infiacchita. Consapevole del fatto che andando
avanti così la festa si sarebbe persa, l’allora sindaco Attilio Fumagalli, al
pari del Perin elusore suo malgrado della guerra, aveva sottoposto la questione
alla giunta e deciso infine di costituire un comitato che se ne prendesse cura. L’incarico venne affidato a: Egidio Fioravanti, merciaio, vedovo; Giambo Primo
Coiatti, calzolaio, medaglia d’argento al valore civile; Fisetta Tantini,
maestra elementare, coreografa della filodrammatica; Ebe Ebenice, amica della
Tantini, costumista della stessa filodrammatica; Orco Filarete, gestore della
latteria sociale e affabulatore di conio; Mirabello Pisticchio, ferroviere
potentino, padre di cinque figli. Oculata fu la gestione delle nomine: due
commercianti, una maestra coreografa, la costumista,il
gestore della latteria, che aveva contatti quotidiani con i frazionisti: grazie
a costoro, la voce chefosse necessario per il bene di tutti
ripristinare la festa si sparse in men che non si dica, riaccendendo
l’entusiasmo sopito. Non si mancò di chiedere i necessari contributi in denaro,
anche minimi, per finanziare l’affitto dei tre cavalli per i Re Magi, dei
costumi d’epoca e di qualche elemento coreografico. Il ferroviere Mirabello
Pisticchio dimostrò doppiamente la sua utilità in seno al comitato: oltre a
fornire i cinque figli, ricci e scuri di pelle, quindi ideali per interpretare i
moretti al seguito dei tre Re, mise a disposizione le numerose amicizie con i
colleghi della linea Lecco-Sondrio, garantendo una capillare distribuzione dei
manifesti, stampati a titolo gratuito dal tipografo Berebelli, che annunciavano
la festa e che finirono in bella vista sui muri di quasi tutti i paesi della
sponda orientale del lago. L’esito dell’iniziativa andò oltre le aspettative
del comitato, dell’amministrazione comunale, dello stesso Oste Perin, che aveva
generosamente contribuito in linea con le sue convinzioni. La notizia che
quella festa, le cui radici si perdevano nella notte dei tempi, addirittura nel
Seicento, quando sul lago vigeva il dominio spagnolo, avrebbe ripreso vigore si
sparse un po’ ovunque e non mancò di giungere alle orecchie di coloro per cui
fiere, mercati o feste erano occasioni di guadagno. Nel corso del mese di
dicembre all’assessore per il commercio Giulio Imbevuti giunsero numerose
richieste di ambulanti e venditori delle più varie merci che chiedevano piazza
per disporre le proprie bancarelle a partire già dal pomeriggio del 5 gennaio. Durante un’informale riunione di giunta, l’amministrazione decise di non
ostacolare nessuno, offrì spazi a tutti, così che il lungolago, i giardini
pubblici, perfino il piazzale esterno della stazione, si sarebbero animati come
mai era accaduto prima. Tra le tante domande depositate in municipio una si
distingueva per la sua singolarità e anche per qualche scusabile errore
grammaticale. Il firmatario era infatti tale Eberhard Kanaus, svizzero tedesco,
originario del cantone Appenzell Innerrhoden. Ma a suscitare curiosità non fu
certo la sua origine bensì la specialità per cui si proponeva: illusionista.
Toccò al sindaco Fumagalli chiarire all’Imbevuti, che non aveva idea di cosa
fosse, che un illusionista era una specie di mago, un prestigiatore insomma. E
sempre il Fumagalli, di fronte alla perplessità del suo assessore, spiegò
sorridendo che nella trama della festa un soggetto simile ci stava più che
bene, anzi, benissimo. «Per una notte potrà illuderci che tutto va bene, che
non è successo niente di brutto, che la vita scorre serena. Ci farà sognare un
po’. Non è mica un male. Non crede?» Che l’Imbevuti si fosse lasciato
convincere o no anche il Kanaus ottenne il permesso di sistemare il proprio
rideau nientemeno che nell’ambitissimo Circolo dei Lavoratori, accolto con
orgoglio dall’Oste Perin. Venne il giorno tanto atteso. Fin dalle ore della
tarda mattinata le vie del paese si animarono di indigeni e foresti che
respiravano un’aria di allegria arricchendola vieppiù con la propria. Un’aria
che però si andava via via saturando di un altro sentore, molto più corposo e
penetrante: quello della trippa, o busecca, nel vernacolo locale, il piatto
principe della serata. Piatto di tradizione, di cucina povera, ma arricchito
nel tempo dalla fantasia di questo o quel cuoco. Piatto che per l’occasione
nessun ristorante, dal nobile Cavallo Bianco all’altrettanto esclusivo Hotel
Tommaso Grossi, si rifiutava di cucinare, sebbene fosse il pezzo forte delle varie
trattorie, dalla Pradegiana all’Osteria del Ponte fino al Trani della Lena, e
naturalmente del Circolo dei Lavoratori, che la forniva anche da asporto,
anticipando una modalità che avrebbe impiegato ancora anni prima di divenire
pratica abituale. Non tutti la gradivano. Certi palati aristocratici la
rifuggivano altezzosi. Ma pur schifandola, anche costoro non potevano negare
che quel profumo che impregnava l’aria, oltre a far miagolare i gatti,
segnalava il ritorno di una festa che ridava anima al paese. L’illusionista
Eberhard Kanaus del cantone Appenzell Innerrhoden non conosceva la busecca. Mai
sentita nemmeno nominare. Ne annusò l’esistenza, e non avrebbe potuto evitarlo,
quando fece il suo ingresso nei locali del Circolo dove il lavoro preparatorio
aveva preso il via già dal giorno precedente. Non fu per nulla sconcertato da
quell’odore in cui si inseriva una traccia che definire d’animale non è
esagerato. Anzi, vuoi per la curiosità, vuoi per la fame, all’Oste Perin, che
intanto gli mostrava a gesti dove avrebbe potuto piazzarsi godendo così della
maggior visibilità, chiese in un faticoso italiano infarcito di tedesco cosa
bollisse in pentola da impregnare l’aria in quel modo. «È la busecca», rispose
l’Oste Perin d’istinto. E, «trippen», disse poi pensando di farsi capire
meglio. Fu così che, nonostante la perplessità linguistica, il Kanaus conobbe
la trippa. «Kutteln!» esclamò quando infine capì di cosa si trattava. In verità
non solo la conobbe ma l’apprezzò sin dal primo assaggio. Dopo una mezza scodella
di prova, infatti, ne chiese subito un’altra però ben piena per tacitare la
fame. E, sedata l’urgenza, una terza che, come disse, gli avrebbe permesso di
gustarne ogni… ogni… E, la bocca aperta
a cercare la parola, sfregò le dita in aria per far intendere che si riferiva
alle sfumature. L’Oste Perin gongolò per la soddisfazione. Eh be’, bisogna
capirlo: un ospite straniero che si beava della sua cucina era pur sempre un
bel riconoscimento, un vanto che non avrebbe dimenticato di dichiarare davanti
alla sua clientela abituale. Poi, notando come il viso del Kanaus, la pancia
piena, avesse assunto un roseo colorito, sorridendo e con in mano la scodella
vuota commentò che, pur felice di averlo soddisfatto, pregava il cielo di aver
calcolato in modo corretto la quantità di trippa e verdure, perché se tutti i
suoi clienti si fossero presentati armati di un tale appetito in quattro e
quattr’otto sarebbe rimasto a secco, col rischio certo di creare più di un
malumore e guadagnare una cattiva fama alla sua gestione del Circolo. Il
Kanaus, non disdegnando l’offerta di un grappino, sorrise a sua volta e levò
l’indice verso l’alto, richiamando l’attenzione dell’Oste Perin. «Foi ancora
credete che ogni coza di qvesto mondo finirà», disse. Perché? Non è forse così?,
chiese la muta espressione dell’Oste Perin. «Nein, nein. Absolut», dichiarò
l’illusionista agitando il capo. «Non è possibile», affermò deciso l’Oste
Perin, forte dell’esperienza e con il pensiero rivolto al pentolone dove la
trippa continuava a borbottare. «Per un illuzionizta infece ja!» asserì il
Kanaus. L’Oste Perin, che pensava di potersi permettere qualche confidenza con
il suo ospite, dondolò la testa. «Mi state prendendo in giro?» chiese con
cautela. «Io non permettere mai», ribatté l’illusionista. E per dimostrargli
che non si stava burlando di lui disse che glielo avrebbe spiegato meglio.
«Azcoltate!» L’Oste Perin sapeva qualcosa della macchia di Lutero? «Lutero?»
sorse sulle labbra dell’oste. Il nome… quel nome l’aveva sentito a proposito di
una storia, verità o leggenda che fosse, secondo la quale un tale che si
chiamava così aveva rischiato la pelle in quel di Menaggio. «Ai tempi di
carlocodega, eh!» precisò l’Oste Perin. Ma chi fosse, cosa facesse e
soprattutto perché, sempre che fosse vero, avesse rischiato di finire male in
quel paese, lo ignorava del tutto. «Era un teologo di Germania», spiegò il
Kanaus, vissuto parecchi secoli prima, e portatore di idee religiose non molto
ortodosse. Ma ciò che più contava adesso, proseguì, era sapere che la vita
errabonda dell’illusionista cui lui era costretto gli aveva fatto fare incontri
a volte di estremo interesse, grazie ai quali aveva molto imparato sull’umanità
e sulle sue stranezze. Cosa che avevano arricchito assai la sua arte. Un
insegnamento sopra tutti gli altri era stato di estrema utilità: è facile
illudere chi abbia voglia di farsi illudere. L’Oste Perin fece un cenno del
capo come a voler far capire di avere compreso, nonostante la fatica di
intendersi col suo ospite. In realtà non aveva capito un accidente. Non aveva
parlato di una macchia poco prima? Che fine aveva fatto? «Uno zolo momento»,
fece l’illusionista quasi gli avesse letto nel pensiero. Perché una cosa molto
simile era accaduta con la macchia di Lutero, della cui esistenza era venuto a
conoscenza durante un giro di spettacoli in Turingia, passando nei pressi di
Eisenach, apprendendo che nel castello di Wartburg quel tal Lutero… «Martin
Luther», precisò il Kanaus. …già condannato per le sue idee teologiche ma vivo
grazie a un falso rapimento organizzato dal principe Federico il Saggio, aveva
trascorso una decina di mesi iniziando a tradurre in tedesco la Bibbia, in
particolare il Nuovo Testamento nella versione latina di Erasmo da Rotterdam…
L’Oste Perin contrasse il viso in una maschera interrogativa e guardò
l’illusionista sbattendo le palpebre, come chi, davanti a più strade, non sia
in grado di scegliere quella giusta. «Ma tutto qvesto non è importante», spazzò
via con un gesto della mano il Kanaus mandando l’oste ancora più in confusione:
perché diavolo glielo aveva raccontato, allora? «Eigen, esatto, il diafolo!»
esultò l’illusionista meravigliato dall’acume dell’oste. Il punto era proprio
quello. L’Oste Perin si massaggiò il mento mormorando parole tra sé. Cosa
c’entrava il diavolo, adesso? C’entrava eccome! Perché, a quanto si narrava,
durante l’impegnativo lavoro di traduzione, Mefistofele, Belzebù o qualche
altro diavolaccio dell’inferno era andato a trovare più volte Lutero per
distrarlo dal suo impegno. E lui, travolto dall’ira, desideroso di restare solo
e proseguire, al fine di allontanarlo non aveva trovato di meglio che
scagliargli contro la boccetta d’inchiostro in cui intingeva la penna. «E… e
lui?» chiese l’Oste Perin a mezza voce perché non era sicuro di aver inteso.
«Lui chi?» ribatté il Kanaus. «Il demonio, no?» fece l’Oste Perin. «Ah, certo,
certo! der Teufel!» Insomma, il maligno probabilmente lo lasciò in pace a un
certo punto, proseguì il Kanaus, stufo di subire quegli attacchi. Il viso
dell’Oste Perin assunse una maschera di delusione, avendo forse sperato in
chissà quale tragedia, densa di colpi di scena. E poi c’era la faccenda della
macchia! Che fine aveva fatto? Boh! Sembrava essersi persa nella narrazione
dell’illusionista. Ma quello, come se avesse intuito un’altra volta dubbi e
domande: «Fengo al punto», disse. Il risultato di questa battaglia era facile
da immaginare: schizzi d’inchiostro dappertutto, sui muri della stanza, sul
pavimento, sul tavolo di lavoro. Macchie che poi qualcuno avrà lavato via, mentre
la storia di quei duelli, invece… «Nachtaktiv», precisò il Kanaus. «Come?» fece
l’Oste Perin. «Ti puio», cercò di spiegare il Kanaus. «Notturni», accorse il
Perin. «Ja», approvò l’illusionista. …la storia di quei duelli, riprese, tra il
teologo e il maligno si andava gonfiando passando di bocca in bocca, acquisendo
via via i contorni della verità e attraversando i secoli. Ora, in tempi più
moderni, più razionali forse, passate in giudicato le diatribe eretiche e le
apparizioni infernali, il castello di Wartburg è diventato meta turistica
proprio per via di quella lotta, spiegò l’illusionista. «E la macchia?» chiese
l’Oste Perin, soddisfatto, a un cenno del Kanaus, di aver compreso. «Ezatto!» I
turisti perlopiù ignoravano le vicende umane e intellettuali di Lutero, ma
erano avvinti dalla faccenda misteriosa dell’apparizione di un diavolaccio, ed
erano perciò curiosi di poter ammirare alcune macchie di quell’inchiostro,
segno e prova inconfutabile del combattimento. Una macchia soprattutto aveva
resistito al tempo e ai lavaggi, ma aveva rischiato anche lei di scomparire,
cosa che avrebbe sottratto al castello il suo richiamo più attraente,
provocando un danno economico di non poco conto visto che l’ingresso era
consentito solo con l’acquisto di un biglietto. A quel punto il Kanaus fece una
pausa a effetto. «Foi cosa afreste fatto?» chiese poi all’Oste Perin. «Be’…»
borbottò questi, «ci dovrei pensare… mi farei venire un’idea…». «Appunto»,
confermò l’illusionista. Ci voleva un’idea, un colpo di genio. E così fu, ma
non grazie alla mente di qualche scienziato, sottolineò il Kanaus. Piuttosto
quella pragmatica di uno dei custodi del castello che, senza dir niente a
nessuno, di tanto in tanto rinfrescava quel segno così ambito dalla curiosità
dei visitatori con una passatina di volgare inchiostro di tipografia. «Capito?»
chiese il Kanaus. In quel modo la macchia non sarebbe mai svanita,
soddisfacendo per sempre la curiosità di chi passa dal castello per vedere il
punto esatto in cui quel frate eretico lottò col diavolo. Lui pure, proseguì
l’illusionista, davanti alla macchia era rimasto avvinto per qualche istante
dal mistero di ciò che poteva essere accaduto in quella stanza, subendone la
suggestione. Quando poi si fece conoscere
dal custode dichiarandogli la sua professione, quello si ritenne quasi in
dovere svelargli l’arcano, forse perché si sentiva fra colleghi. E risero
insieme poi, proprio con quella macchia sotto gli occhi, perché in fondo altro
non era che un gioco di prestigio, un’illusione. «Ora è più chiaro?» chiese
ancora il Kanaus. «In verità…» principiò a rispondere l’Oste Perin fermandosi
subito, perché gli sfuggiva il nesso con la sua trippa. «Zemplice», gli venne
in aiuto l’Illusionista. Temeva che in quella sera di festa la sua trippa
avrebbe potuto non accontentare tutti i clienti, l’aveva detto, no? «Ja!… cioè,
sì» confermò l’Oste Perin. Ecco, avrebbe potuto imitare il custode del castello
di Wartburg, aiutare la trippa a non finire mai, concedere a tutti di gustarne
un piatto o una scodella ben colmi usando, anziché inchiostro, acqua per
allungare il brodo. Un espediente che, volendo, poteva essere applicato a
qualunque tipo di minestra. «Acqua», compitò l’Oste Perin come se pronunciasse
una parola mai sentita prima. «Acqva», confermò il Kanaus con un sorriso. Semplicissima acqua. Un elemento di cui,
aggiunse, non gli pareva che da quelle parti ci fosse carenza.
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