“LetturediNatale”. 2 “Il mio Natale nel nome della rosa”: Questo è quel periodo dell’anno. Quello in cui rifaccio sempre la stessa cosa, da non so neppure più quanti anni. Non si tratta dell’albero di Natale o del presepe, cose che comunque faccio, intendiamoci. No, io rileggo. E sempre lo stesso libro. Tra qualche giorno prenderò in mano una copia vecchia e ingiallita, non poi troppo distante dalla prima edizione, de Il nome della rosa. E di nuovo, per la ventunesima – o la ventiduesima, ho un po’ perso il conto – volta, mi immergerò nelle «vicende accadute all’abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome, al finire dell’anno del Signore 1327». E così sia. Ma perché? Perché rileggere, e perché a Natale? Si parla spesso di “comfort” qualcosa: una serie tv, un videogioco o, nel mio caso, un libro. Si tratta di qualche prodotto culturale che ha questa caratteristica: un po’ ci consola. Non stiamo però parlando di letteratura “consolatoria”, quella che ci dice quel che già sappiamo, che ci conferma nella nostra visione del mondo e dunque ci rassicura, senza darci alla fine nulla, se non una consolazione effimera che dimentichiamo contestualmente alla fruizione. Per dire, io trovo cose nuove a ogni lettura de Il nome della rosa, e lo rileggo da quando a quindici anni mio padre me lo passò dicendo che era uno dei suoi libri preferiti. Sono cose sulle quali magari sto riflettendo, il cui riflesso vedo nell’attualità, o sulle quali non mi ero mai soffermata nelle venti e passa letture precedenti, che non avevo mai notato. Che poi è un po’ quel che fa la buona letteratura. No, il comfort book è un libro che sappiamo ci darà una certa gamma di emozioni, che non ci tradirà: sappiamo che ci piacerà, perché l’ha fatto in passato, e a volte è bello anche tornare semplicemente là dove siamo stati bene, come quando si visita un luogo amato, o si mangia per la centesima volta quel piatto che ci fa impazzire. La novità è una cosa bella, per carità, è probabilmente il motore del mondo, ma è anche insidiosa: non tutto ciò che è nuovo è anche bello. Ci sono novità negative, che ci stupiscono nel male invece che nel bene, e non sempre vogliamo essere stupiti tout court. A volte, semplicemente, vogliamo andare a colpo sicuro, perché è un periodaccio, o vogliamo concederci una coccola, o ci va così e basta. Siamo esseri umani anche perché a volte facciamo cose inutili, immotivate; non è un po’ quel che ci distingue dagli altri esseri viventi con cui dividiamo il pianeta? Immagino che per chi ha faticato a superare le prime cento pagine “iniziatiche” – parole di Umberto Eco – possa sembrare strano, ma per me Il nome della rosa è proprio questo: è il bosco in cui passeggio incessantemente ogni settimana, trovandolo ogni volta splendidamente uguale a se stesso e al tempo stesso leggermente mutato, di quel poco che basta a darmi la dimensione del tempo passato. Va bene, ma perché a Natale? Incidentalmente, perché è il mio periodo preferito dell’anno. Ma, anche qui, ci sono delle ragioni. Il Natale è, come buona parte delle feste, l’incarnazione di una ritualità che da secoli ci aiuta a marcare lo scorrere del tempo: tutto si ripete anno dopo anno, dal cenone all’incontro coi parenti alle decorazioni – spesso sempre le stesse – che si tirano fuori l’8 dicembre – o prima per i più impazienti. È la festa che più di altre richiama l’infanzia, col suo corteo di ricordi dolceamari. Ma è anche un momento di sospensione: per qualche giorno tutto finisce in una bolla ovattata di cibo e bevande alcoliche, mentre fuori la notte cala presto e si illumina di mille luci, un ricordo della festa del Sol Invictus, e delle mille altre che l’hanno preceduta. Perché è l’inizio della fine del buio che festeggiamo, in verità. E in questo tempo sospeso è più facile trovare un momento per sé, per quella coccola del libro amato aperto nelle lunghe sere invernali; senza contare il desiderio di staccare un po’ dai parenti e dalle abbuffate. Un libro ci dà anche questo rifugio. E poi, diciamocelo, rileggere di questi tempi è un atto rivoluzionario. La nostra vita è performance, una freccia dritta sparata che va da un passato che non vediamo l’ora di lasciarci alle spalle a un futuro che deve essere migliore, in tutto. La vita è breve, chi si ferma è perduto. Ma chi ha davvero voglia di correre sempre? Chi non vorrebbe, almeno ogni tanto, scendere dalla giostra? Rileggere forse è una perdita di tempo: quanti libri bellissimi mi perdo ogni volta che rileggo Il nome della rosa? Non lo so, e non mi interessa. Almeno una volta l’anno, ho bisogno che il piacere, gli hobby, smettano di essere una rincorsa alla performance migliore. Ed è per questo che mi fermo, una tazza di tè in mano, il tepore del caminetto – sognato da bambina e conquistato solo da una decina di anni – e il mio libro preferito tra le mani. È il mio piccolo atto di ribellione, il mio momento sospeso, il piacere del ritorno sul luogo del delitto. Tutto il resto, può attendere la fine delle feste.
N.d.r. I testi sopra riportati, pubblicati sul quotidiano “la Repubblica” di oggi 23 di dicembre 2024, sono a firma, rispettivamente, di Enzo Bianchi – fondatore della Comunità Monastica di Bose e già priore della stessa – e della scrittrice Licia Troisi.
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