"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 15 dicembre 2024

Lastoriasiamonoi. 23 Aldo Tortorella: «Dopo il crollo dell'Unione Sovietica c'è stata la globalizzazione del capitale che si è espanso in tutto il mondo. Qualcuno a sinistra ha pensato che fosse un bene, in realtà ha prodotto diseguaglianze fortissime».


Politica&Cultura”. “Io, il partito e la solitudine di Berlinguer”, testo della intervista di Antonio Gnoli ad Aldo Tortorella – filosofo, partigiano, comunista – pubblicata in data odierna – 15 di dicembre 20024 – sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica”. (…). Tortorella, lei è stato un'importante figura del comunismo italiano che ha trovato compimento nella collaborazione con Enrico Berlinguer. Ha visto il film "La grande ambizione"? «Me lo hanno fatto vedere qui a casa, sa esco raramente».

Che ne dice? «È affettuoso. Racconta una parte della vita di Berlinguer. Quella che va dal 1973 al 1978, l'anno del rapimento e della morte di Aldo Moro».

Forse la parola "affettuoso" è la più giusta. Berlinguer era una brava persona, recitava Giorgio Gaber. «Era una brava persona, certo. Ma è stato anche qualcosa di più del rassicurante vicino della porta accanto».

Immagino pensi al leader. «Al peso che certe decisioni comportano per un leader. A Berlinguer non sono mai mancate la determinazione e la chiarezza delle scelte. Nella sua stanza c'era il ritratto di Gramsci e non di Togliatti. Era il segno di un affetto sardo, ma anche qualcosa di più emblematico, che non gli fu perdonato».

Cosa non gli fu perdonato? «Per esempio che lui avesse dimenticato Togliatti. Era in corso una battaglia culturale e politica. Berlinguer avvertì la necessità di rivolgersi a culture che non erano nate all'interno del movimento operaio».

Da quali culture sentiva di dover prendere le distanze? «Le vecchie culture sulle quali si era formato il gruppo dirigente, compresa la crociana. A cominciare dallo storicismo, inteso come materialismo storico».

Che cosa non va nello storicismo? «Ha un difetto fondamentale che nella vulgata diventa che chi vince ha sempre ragione. Si può avere ragione anche essendo dei perdenti».

A quali altre culture pensava invece Berlinguer? «All'ecologismo, al femminismo della differenza, al pacifismo e poi alla questione morale. Provare a stabilire un nuovo rapporto tra politica ed etica. Il che richiedeva una reinterpretazione di Machiavelli. Ossia la rinuncia al machiavellismo, all'idea che il fine giustifica i mezzi. Senza uno sguardo etico la politica è solo occupazione del potere. Sono queste convinzioni che hanno creato un vuoto nel partito attorno a Berlinguer. Lì dentro è come se fosse morto da solo».

In che relazione era con lui? «Entrai nel 1981 nella segreteria dell'ultimo Berlinguer».

Perché venne scelto? «Forse perché la mia formazione era molto diversa da quella degli altri componenti. Ero stato educato alla scuola di Antonio Banfi, quindi al razionalismo critico. Mentre larga parte del gruppo dirigente era, come le dicevo, storicista e togliattiano».

La sua formazione deve qualcosa alla famiglia? «Sono nato a Napoli, in realtà dopo pochi mesi con i miei ci trasferimmo a Genova, poi a Milano. Mio padre era avvocato. Ho voluto bene ai miei genitori, ma non hanno inciso sulla mia formazione. Al liceo ebbi un professore che fu importante. Si chiamava Mario De Micheli, era critico d'arte e comunista. Fu lui a favorire il mio ingresso nella Resistenza nel 1943. Proprio quell'anno mi iscrissi alla facoltà di filosofia. Ero precoce negli studi. Dopo il liceo scientifico volevo iscrivermi a biologia. Fu il professore di matematica a scoraggiarmi. Pensava fossi più adatto alle discipline umanistiche. Non aveva torto. Perciò scelsi filosofia».

Banfi quando comparve? «Seppi di lui credo attraverso De Micheli. Banfi insegnò Estetica e Storia della filosofia prima a Genova e poi a Milano, ed era comunista. Mi piaceva l'idea di mettere assieme l'impegno politico con quello culturale. Nel 1944, a causa di un delatore, venni arrestato dai fascisti. Mi ammalai e dal carcere comune fui mandato nel reparto carcerario dell'Ospedale Maggiore. Riuscii ad evadere grazie al primario che era in contatto con il Cln»,

Immagino che entrò in clandestinità. «Interruppi l'università ed Eugenio Curiel, brillante studioso di fisica e capo del Fronte della Gioventù, che sarà assassinato dai fascisti, mi spedì a Genova per tentare di riorganizzare il Fronte che nel frattempo - tra arresti e deportazioni - aveva subito molte perdite nel gruppo dirigente. Alla vigilia della Liberazione il partito mi mandò a lavorare all'Unità».

Aveva già esperienza giornalistica? «No, ma nel partito erano in pochi con un curriculum scolastico adeguato. La gran parte degli iscritti era di estrazione operaia e aveva formato la propria cultura dentro il partito. Lasciai Genova con la carica di caporedattore per assumere la direzione dell'Unità nell'edizione milanese. Ripresi anche a frequentare l'università e a seguire le lezioni di Banfì, con cui mi laureai nel 1956».

Con quale tesi? «L'argomento era la libertà in Spinoza. La tesi è che senza libertà non c'è eguaglianza, ma non è vero il contrario. Ci può essere eguaglianza senza libertà».

Che cosa le piaceva di Banfi? «Lo sguardo internazionale, la capacità di affrontare la filosofia fuori dall'idealismo allora imperante. Ricordo la centralità che assegnava, oltre a Marx, anche a Edmund Husserl e alla sociologia tedesca. Se ne giovò la sua scuola».

Chi la componeva? «Enzo Paci e la sua fenomenologia provenivano da Banfi, come pure il pragmatismo di Giulio Preti. Anche l'estetica di Luciano Anceschi, che avrebbe ispirato il Gruppo '63, era di derivazione banfiana. Come quella di Dino Formaggio. Perfino un cattolico come Giovanni Maria Bertin si ispirò al maestro. Banfi aprì un orizzonte ampio sul passato e la sua fu una scuola di libertà del pensiero».

Come conciliava tutto questo con il comunismo dell'epoca? «Era un rapporto problematico. Oltretutto, Emilio Sereni, che fu a capo della commissione culturale del partito, da buon storicista e togliattiano ortodosso cercò di tenerlo ai margini».

Banfi non aveva l'autorità per parlare direttamente con Togliatti? «Certo che l'aveva, era membro della direzione del partito. Banfi mi raccontò di un loro incontro. Allora Togliatti si stava occupando di Labriola e Banfi gli disse che era tempo perso, che era un autore datato».

In quanto storicista immagino. «In quanto storicista certo».

Fu Banfi a fondare nel 1946 la Casa della Cultura a Milano. «Il progetto era di costituire un fronte della cultura che raccogliesse i nuovi fermenti intellettuali e che non avesse nessun pregiudizio rigidamente partitico. Sereni aveva partecipato al progetto ma non era per niente favorevole all'idea che l'intellettuale fosse una figura che non rispondesse alle direttive del partito».

Banfi fu anche tra gli ideatori del "Politecnico", la rivista diretta da Vittorini. «Rispondeva al bisogno di rinnovamento culturale».

Anche la rivista "Studi filosofici" ideata e diretta da Banfi doveva assolvere a questo compito. «Sì, un rinnovamento che Togliatti stoppò. Chiuse Il Politecnico e Studi filosofici».

La stessa Casa della Cultura, a un certo punto, dovette sospendere la sua attività. «La Casa della Cultura chiuse nel 1949 per poi riaprire nel 1951, dopo un ripensamento di Togliatti ma anche grazie a Rossana Rossanda che l'avrebbe in seguito diretta».

Lei dice che l'attività di Banfi ebbe Sereni come ostacolo. In realtà la figura che meglio interpretò l'opposizione a Banfi fu quella di Concetto Marchesi. «Marchesi era considerato il depositario della cultura umanistica. Banfi, in un certo senso, io era di una cultura sì umanistica ma altresì scientifica. Lo storicismo prevalse».

Con il 1956 giunsero altri drammi, provocati dall'invasione sovietica di Budapest. Lei decise di restare nel partito. Perché? «Ero intenzionato ad andarmene. Ma poi rimasi perché Banfi restò, come restò Ingrao, e guardi non ero ingraiano. Volevo ritornare agli studi, tra l'altro mi ero appena laureato. Mi confidai con Banfì. E lui mi disse: senta - ci si dava del lei - se andiamo via anche noi cosa rimane del partito?».

Banfi morì l'anno successivo. Ritiene che ci sia una qualche relazione con quello che stava vivendo? Dopotutto, molti suoi allievi scelsero la condanna chiara dell'Unione Sovietica. «Sinceramente non lo so».         

In fondo restò solo, come Berlinguer. «Uno la solitudine la visse sul piano culturale. L'altro su quello politico».

Lei è stato responsabile culturale del Pci. C'è una storia che mi incuriosisce. «Quale?».

La vicenda che riguardò le opere di Nietzsche. Sappiamo del modo in cui Einaudi rinunciò alla pubblicazione. Che ruolo ebbe in questa scelta il Pci? «Ricordo che ne discutemmo in direzione, cosa mai accaduta fino ad allora per un autore considerato di destra. Amendola e Pajetta mi criticarono in direzione perché la cultura del partito reagiva tiepidamente o non reagiva affatto alle ondate nicciane degli anni Settanta. Per fortuna la direzione di Torino aveva pubblicato le memorie di Elvira Pajetta, la mamma di Gian Carlo, una comunista strepitosa e brillante. E in quelle memorie c'era scritto che la sua trasformazione culturale era dovuta a Nietzsche che l'aveva liberata da tanti luoghi comuni. Dissi a Pajetta: perfino tua madre ha letto Nietzsche!».

C'erano motivi ideologici. «Certo! Ma voleva pur dire qualcosa che il massimo traduttore ed esperto di Nietzsche fosse comunista».

Si riferisce a Mazzino Montinari. «Al lavoro critico che ha svolto insieme a Giorgio Colli. Da parte mia non ci fu mai una censura nei riguardi di Nietzsche. Ecco perché la scuola di Banfi era così attraente, insegnava a capire».

Oggi c'è ancora questa volontà di capire? «A chi pensa?»

Innanzitutto alla sinistra. «Dopo il crollo dell'Unione Sovietica c'è stata la globalizzazione del capitale che si è espanso in tutto il mondo. Qualcuno a sinistra ha pensato che fosse un bene, in realtà ha prodotto diseguaglianze fortissime. Ma se la sinistra rimuove le sue idealità credibili, se dimentica di battersi per le classi subalterne e precarie allora prevarranno i sentimenti ancestrali. Quelli su cui in questi anni ha fatto leva la destra, e non solo in Italia».

Tra un po' sfiorerà il secolo. Quanta amarezza ha pensando al suo passato? «Non ho amarezze. Se non quelle di un vecchio quasi centenario e di una moglie malata. Il partito comunista è stato una grande comunità. Ma non c'è più».

Sono stati più i fallimenti o i successi? «I successi sono stati storici e penso alla Costituzione, l'unica che contiene il principio dell'eguaglianza sostanziale. Ma quella generazione di fondatori, anche la mia intendiamoci, ha vissuto nell'errore che il socialismo fosse nato nell'Unione Sovietica. Era considerato una verità, non più un'ipotesi. Questo sostenne Togliatti in un dibattito con Bobbio nel 1954. Ma ammesso che fosse un fatto non era di per sé giusto. Lei ricorda il giuramento di Stalin nel 1924 alla morte di Lenin? Da quel discorso allucinante si ricava il lato mistico e dogmatico sulla fondazione dell'uomo nuovo e sui principi del socialismo. L'abbaglio cominciò lì».

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