"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 12 dicembre 2024

Lavitadeglialtri. 61 Vite avventurose.


ViteAvventurose”. 1“Inseguendo i sogni”, colloquio di Carlo Antonelli con Fiamma Montezemolo - autrice del libro “Hidden in plain sight”, Nero Edizioni, 306 pagine, 28 euro - pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 7 di dicembre 2024: I Montezemolo in generale sono tutti parenti, la famiglia viene dal Piemonte, io sono figlia di Aimone.  Però non ho mai vissuto con mio padre, ma con mia madre. Dall'anno zero, diciamo, e lei aveva un percorso simile come origine, ma aveva compiuto poi scelte molto diverse. Io mi sento figlia di quelle scelte. Lei ha iniziato a studiare filosofia e poi sociologia con Franco Ferrarotti, che se n'è appena andato, a 98 anni, una grande mente. Franco ha fondato la prima cattedra di sociologia in Italia, a Roma. Mia madre ha iniziato proprio a fare le ricerche sul campo con lui e questo l'ha "spostata" dal suo background, da una certa origine più aristocratica. Quando io ero piccolissima, lei mi portava con sé, quindi sono cresciuta a contatto con i fornaciari agli inizi (ero piccolissima), alla Valle dell'Inferno. Dopo si è dedicata ai primi studi sulla migrazione, al buddhismo, ai movimenti religiosi... Per esempio, ha fatto ricerche sulla comunità di Damanhur in Piemonte. Siamo andati a trovarli, siamo andati a vedere il tempio sotterraneo che avevano segretamente costruito. Ha fatto un libro su Umberto Di Grazia, che era un sensitivo. Si faceva ricerca durante il giorno, ma poi le cene erano molto animate. Tornavi a casa e c'era il liutaio che cammina sul fuoco con i pantacollant a fiori e che disquisiva con mia madre di chissà cosa... Casa nostra era una casa, diciamo, di intellettuali eclettici e impegnati, che si sporcavano le mani con la vita e non la teorizzavano solamente, come direbbe Franco. Sono stata poi al liceo, al Virgilio, ho fatto la Sapienza, ho studiato antropologia dagli inizi. Ho deciso che avrei scritto la tesi di laurea sugli zapatisti, che erano appena usciti come gruppo rivoluzionario in Messico. E mia madre invece di dirmi: "Ma che sei matta, è pericoloso", mi disse: "Benissimo, vai e impara da loro". Mi pagò il biglietto con mia nonna e andai in Chiapas, nella Selva Lacandona che non era molto accessibile, come immaginerai. Partii con Massimo, un altro antropologo. Volevo andare a intervistare il Subcomandante Marcos, ma soprattutto le donne zapatiste sulle loro specificità di genere, etniche e sull'uso intelligente che facevano della comunicazione: per difendersi dagli abusi degli eserciti, per la tutela dei loro diritti, l'affermazione radicale di una doppia appartenenza, maya e messicana. Mi interessava l'identità mobile, la moltiplicazione. Per spiegarle, se in quegli anni nascevi maya in Chiapas non eri nessuno, spesso neanche registrato all'anagrafe. Quindi se nascevi e morivi nessuno se ne accorgeva. Invece se sceglievi di entrare nell'esercito zapatista ciò si capiva dall'uso del passamontagna, una maschera sul tuo volto, ed è così che diventavi una rivoluzionaria. E il governo allora voleva sapere chi fossi. Quindi c'era questo paradosso che mettere una maschera ti dava un viso, un'identità, invece di levartela. Questo interesse me lo sono portato dietro anche nel lavoro artistico successivo: non aver paura a mutare, essere molteplici. Ma anche del magico. Mi interessava attraversare. Stare in più mondi dall'inizio, nell'antropologia e nell'arte. Portavo un cognome che mi faceva percepire in Italia relazionata a cose che non mi appartenevano. Andando in Messico ho eliminato questo problema, trasferendomi a Tijuana per sei anni. Nessuno sapeva chi fossero per dire i Cordero di Montezemolo. Tra l'altro io poi ho scelto di chiamarmi Fiamma Montezemolo. Era più comodo. Troppo lungo quel Cordero di Montezemolo. Il punto è che a me interessava forgiarmi da sola, fare le mie scelte, creare il mio cammino perché così mi aveva insegnato mia madre: guardare avanti, non indietro». «Nel libro metto questo percorso accidentato. Ho evitato di utilizzare un criterio cronologico e optato per uno più concettuale e affettivo, a volte fantastico, da qui il riferimento costante a Borges, in questo caso al testo sull'Etnografo, un lungo cammino che lo porta a capire che svelare il segreto dell'altro non è importante quanto il cammino che ci porta a trovarlo. La "magia" e il "sogno", d'altronde, mi vengono da mio padre che mi ha insegnato a viaggiare. Non vivevamo insieme, ma viaggiavamo insieme. Pianificava tragitti complicati, fatti con la sua Land Rover ritoccata: aveva costruito dentro lavandini, letti matrimoniali, messo due tende, fornelli, di tutto, sembrava la borsa di Mary Poppins. È così che abbiamo attraversato il deserto del Sahara quando eravamo piccoli, il Mahgreb, il Kenya, l'India. Frontiere varie, in maniera sistematica e gioiosa. Quella parte dell'avventura viene da lui. La parte della ricerca da mia madre. Io andavo avanti e indietro col Messico, ma anche con il Brasile dove con l'antropologo Massimo Canevacci abbiamo studiato il rituale Xavantes, che accadeva ogni sei anni: un passaggio dall'infanzia all'età adulta. A noi interessava soprattutto l'autorappresentazione del rituale stesso che facevano attraverso la telecamera. Io volevo fare un tipo di antropologia più militante, visuale, che era nuova all'epoca. Tornata a Roma, mi sono guardata allo specchio e mi son detta: "O me ne vado ora o non me ne andrò mai più da qui", dall'accademia tradizionale. È così che ho deciso di andare a Tijuana. Dovevo rimanere sei mesi, sono rimasta sei anni a fare l'antropologa studiando la frontiera più attraversata del mondo: tra Messico e Stati Uniti. All'inizio ho fatto molta, molta ricerca. Tante storie di vita. Poi ho iniziato ad avere amici, collaborazioni, non voler più rappresentare l'altro o l'altra ma fare cose insieme. Ho collaborato a molti progetti, ma non scrivevo l'aspettata monografia. Vivevo accanto al muro di divisione tra i due Stati, dove sfocia nell'oceano, vicino al Colegio de la Frontera Norte, famoso centro interdisciplinare specializzato in studi di frontiera. Ma insegnavo anche a San Diego, dunque attraversavo la frontiera tre volte a settimana per andare al otro lado, come si dice lì. È stata una vita intensa, avevo 29 anni. Tijuana diciamo non era proprio... Stavi attento, no? Mandavi il messaggio, la sera, tornando a casa per dire "sono arrivata sana e salva". C'erano i sequestri? Sì, non era proprio l'ideale. È nel 2006 però che la guerra con i Narcos peggiora e iniziano mattanze sistematiche. Io ero rimasta incinta, avevo incontrato il mio futuro compagno e poco dopo me ne sono andata. Una storia bizzarra pure questa. Scrivo un saggio per una rivista messicana nella quale c'è nel board questo intellettuale marocchino che si occupa proprio di antropologia visuale. Il mio testo gli piace molto. Iniziamo a mandarci mail su mail. E alla fine decidiamo di vederci a Tijuana (lui stava facendo ricerca a Città del Messico). Non ci siamo più separati, con Tarek (Elhaik, nda). Ora viviamo tra Tangeri e San Francisco dove insegniamo entrambi all'università della California. E Roma, dove ho deciso in parte di rientrare dopo il Covid. Insomma, ritornando indietro mi succede che a Tijuana decido che rappresentare gli altri come gesto accademico non mi appartiene più. Si rappresentano da soli, mille volte meglio. E io delle parole mi ero stufata. E qual era il modo migliore per continuare a sognare? L'immagine. Infatti il mio lavoro più importante sulla frontiera alla fine è stato il primo lavoro artistico: Tracce. La voce del video è quella di una donna (non è la mia, ma di una donna di Tijuana trasferitasi negli Usa) che rinfaccia al muro la sua mascolina sfrontatezza. Parla a questo muro come a un macho inutile. E gli dice: puoi ricostruirti e riaffermarti quanto vuoi, ma verrai sempre corroso dalle acque uterine dell'Oceano. Il linguaggio artistico mi dava un senso di libertà. E per questo, diciamo, l'attraversamento finale è stato quello verso gli States e uno strano ritorno a una scuola d'arte. Così torno indietro a fare un master d'arte al San Francisco Art Institute. Era il 2009. Ricordo che fu l'unica volta in cui mia madre era perplessa, ma le dissi: "Abbi fiducia, è per me più importante non essere lineare, non avere solamente il lavoro sicuro, ma rischiare e seguire un cammino mio". Lei ha capito e ha appoggiato questa vocazione. È stata una sorta di chiamata. E questa chiamata non è più venuta meno». (…).

ViteAvventurose”. 2 “Il suo premio era vivere”, testo di Malcom Pagani in ricordo dello scrittore Gianfranco Calligarich pubblicato sullo stesso numero del settimanale “d”: Nato ad Asmara quasi per caso nel '39 e precipitato a Milano quattro anni più tardi, nelle stesse ore di settembre in cui l'esercito italiano si dissolveva, Gianfranco Calligarich (3 di maggio dell’anno 1939 – 25 di novembre 2024 n.d.r.) non ha mai avuto né patria né bandiera. Al vento, sventolava un purissimo profilo da randagio, da esule, da amico naturale dei figli dei detenuti che andavano a salutare i padri galeotti a San Vittore e di tutti gli ultimi del mondo perché Calligarich, a salire su un podio, men che mai immaginario, non ambiva. Il suo premio era vivere, sentire più intensamente di altri, soffrire al limite che è meglio, sempre meglio, di far finta che il dolore appartenga agli altri. A scuola non amava andare e così, bocciatura dopo bocciatura, aveva trovato un lavoretto di risulta in un giornale all'ombra del duomo. Il mestiere di corrispondente, ricorderà in un bel documentario realizzato da un altro anomalo di talento, Giuseppe Sansonna, consisteva nell'andare a carpire informazioni sulla programmazione Rai a Roma per poi riportarle all'origine. Roma gli faceva battere il cuore già all'altezza di Orte. Ne sentiva l'aria, il profumo, la promessa. La luce della città lo stordiva e invece di allontanarsi dal pericolo decise di non difendersi, ascoltare il canto delle sirene e insediarsi. Respirò anarchia, libertà e tolleranza. Respirò una felicità effimera. Respirò la leggerezza di un momento. Andò alla deriva, si spiaggiò, si rimise in piedi. Fu adottato da gente che restituiva senso alla parola intellettuale (Garboli, Berto, Fratini), dedicò epigrammi ilari e feroci a Geno Pampaloni "Geno/Geno/ ti manca una i/ non è per un refuso che ti chiami così", svuotò diverse bottiglie nella trattoria dei fratelli Menghi, due benemeriti, due re della mezza porzione che a pittori e scrittori facevano credito illimitato, collaborò a un paio di film, si divertì come nessuno con Giancarlo Fusco: «Era oggettivamente brutto. Un giorno, da Rosati, saluta un tipo che ricambia con freddezza. Allora mi si fa più vicino e dice: "Io non mi piaccio, ma quelli a cui non piaccio sono peggio di me"», scrisse un capolavoro dedicato all'amore, all'eccesso, al vitalismo senza orizzonte, al disincanto, all'amarezza e alle illusioni intitolato L'ultima estate in città e poi per decidersi a ripetersi, aspettò ventinove anni. L'ultima estate in città, uno dei casi editoriali del decennio appena trascorso, pubblicato ovunque in Europa con recensioni entusiastiche, fu pubblicato da Garzanti nel 1973 per esclusiva intercessione di Natalia Ginzburg e dopo aver subito il rifiuto di tutti gli editori italiani. Non avevano capito la potenza della storia raccontata da Calligarich e a ben vedere, per prima cosa, non avevano capito e non avrebbero mai capito lui. Uno che non avrebbe mai strisciato nei circoli letterari per ottenere uno strapuntino, uno che non voleva coccarde, uno che non chiedeva ad altri di pagare il conto della sua irrequietezza uno che non riconosceva dignità al riconoscimento pubblico perché l'unica finzione accettabile è quella letteraria. In un pomeriggio di quasi inverno arriva la notizia della sua scomparsa e chi ha amato Calligarich non può non pensare che fosse già successo molto tempo fa e che Roma gli avesse lasciato un suo meritato spazio a tempo debito. Al funerale di Fusco, ricordava Calligarch, degli amici di un tempo, non aveva trovato nessuno. C'era l'ex pugile poi diventato attore, Tiberio Mitri, qualche caratterista indeciso se passare la giornata a Cinecittà o al tavolo di un bar, tutti i camerieri di Rosati in livrea bianca e una corona di fiori di Sandro Pertini. I presidenti sapevano ricordarsi dei presidenti, gli scrittori non erano scrittori per caso: «Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine».

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