“ViteAvventurose”. 2 “Il suo premio era vivere”, testo di Malcom Pagani in ricordo dello scrittore Gianfranco Calligarich pubblicato sullo stesso numero del settimanale “d”: Nato ad Asmara quasi per caso nel '39 e precipitato a Milano quattro anni più tardi, nelle stesse ore di settembre in cui l'esercito italiano si dissolveva, Gianfranco Calligarich (3 di maggio dell’anno 1939 – 25 di novembre 2024 n.d.r.) non ha mai avuto né patria né bandiera. Al vento, sventolava un purissimo profilo da randagio, da esule, da amico naturale dei figli dei detenuti che andavano a salutare i padri galeotti a San Vittore e di tutti gli ultimi del mondo perché Calligarich, a salire su un podio, men che mai immaginario, non ambiva. Il suo premio era vivere, sentire più intensamente di altri, soffrire al limite che è meglio, sempre meglio, di far finta che il dolore appartenga agli altri. A scuola non amava andare e così, bocciatura dopo bocciatura, aveva trovato un lavoretto di risulta in un giornale all'ombra del duomo. Il mestiere di corrispondente, ricorderà in un bel documentario realizzato da un altro anomalo di talento, Giuseppe Sansonna, consisteva nell'andare a carpire informazioni sulla programmazione Rai a Roma per poi riportarle all'origine. Roma gli faceva battere il cuore già all'altezza di Orte. Ne sentiva l'aria, il profumo, la promessa. La luce della città lo stordiva e invece di allontanarsi dal pericolo decise di non difendersi, ascoltare il canto delle sirene e insediarsi. Respirò anarchia, libertà e tolleranza. Respirò una felicità effimera. Respirò la leggerezza di un momento. Andò alla deriva, si spiaggiò, si rimise in piedi. Fu adottato da gente che restituiva senso alla parola intellettuale (Garboli, Berto, Fratini), dedicò epigrammi ilari e feroci a Geno Pampaloni "Geno/Geno/ ti manca una i/ non è per un refuso che ti chiami così", svuotò diverse bottiglie nella trattoria dei fratelli Menghi, due benemeriti, due re della mezza porzione che a pittori e scrittori facevano credito illimitato, collaborò a un paio di film, si divertì come nessuno con Giancarlo Fusco: «Era oggettivamente brutto. Un giorno, da Rosati, saluta un tipo che ricambia con freddezza. Allora mi si fa più vicino e dice: "Io non mi piaccio, ma quelli a cui non piaccio sono peggio di me"», scrisse un capolavoro dedicato all'amore, all'eccesso, al vitalismo senza orizzonte, al disincanto, all'amarezza e alle illusioni intitolato L'ultima estate in città e poi per decidersi a ripetersi, aspettò ventinove anni. L'ultima estate in città, uno dei casi editoriali del decennio appena trascorso, pubblicato ovunque in Europa con recensioni entusiastiche, fu pubblicato da Garzanti nel 1973 per esclusiva intercessione di Natalia Ginzburg e dopo aver subito il rifiuto di tutti gli editori italiani. Non avevano capito la potenza della storia raccontata da Calligarich e a ben vedere, per prima cosa, non avevano capito e non avrebbero mai capito lui. Uno che non avrebbe mai strisciato nei circoli letterari per ottenere uno strapuntino, uno che non voleva coccarde, uno che non chiedeva ad altri di pagare il conto della sua irrequietezza uno che non riconosceva dignità al riconoscimento pubblico perché l'unica finzione accettabile è quella letteraria. In un pomeriggio di quasi inverno arriva la notizia della sua scomparsa e chi ha amato Calligarich non può non pensare che fosse già successo molto tempo fa e che Roma gli avesse lasciato un suo meritato spazio a tempo debito. Al funerale di Fusco, ricordava Calligarch, degli amici di un tempo, non aveva trovato nessuno. C'era l'ex pugile poi diventato attore, Tiberio Mitri, qualche caratterista indeciso se passare la giornata a Cinecittà o al tavolo di un bar, tutti i camerieri di Rosati in livrea bianca e una corona di fiori di Sandro Pertini. I presidenti sapevano ricordarsi dei presidenti, gli scrittori non erano scrittori per caso: «Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine».
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 12 dicembre 2024
Lavitadeglialtri. 61 Vite avventurose.
“ViteAvventurose”. 1“Inseguendo i sogni”, colloquio di Carlo Antonelli con Fiamma
Montezemolo - autrice del libro “Hidden in plain sight”, Nero
Edizioni, 306 pagine, 28 euro - pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la
Repubblica” del 7 di dicembre 2024: I Montezemolo in generale sono tutti parenti,
la famiglia viene dal Piemonte, io sono figlia di Aimone. Però non ho mai vissuto con mio padre, ma con
mia madre. Dall'anno zero, diciamo, e lei aveva un percorso simile come
origine, ma aveva compiuto poi scelte molto diverse. Io mi sento figlia di
quelle scelte. Lei ha iniziato a studiare filosofia e poi sociologia con Franco
Ferrarotti, che se n'è appena andato, a 98 anni, una grande mente. Franco ha
fondato la prima cattedra di sociologia in Italia, a Roma. Mia madre ha
iniziato proprio a fare le ricerche sul campo con lui e questo l'ha
"spostata" dal suo background, da una certa origine più
aristocratica. Quando io ero piccolissima, lei mi portava con sé, quindi sono
cresciuta a contatto con i fornaciari agli inizi (ero piccolissima), alla Valle
dell'Inferno. Dopo si è dedicata ai primi studi sulla migrazione, al buddhismo,
ai movimenti religiosi... Per esempio, ha fatto ricerche sulla comunità di
Damanhur in Piemonte. Siamo andati a trovarli, siamo andati a vedere il tempio
sotterraneo che avevano segretamente costruito. Ha fatto un libro su Umberto Di
Grazia, che era un sensitivo. Si faceva ricerca durante il giorno, ma poi le
cene erano molto animate. Tornavi a casa e c'era il liutaio che cammina sul fuoco
con i pantacollant a fiori e che disquisiva con mia madre di chissà cosa...
Casa nostra era una casa, diciamo, di intellettuali eclettici e impegnati, che
si sporcavano le mani con la vita e non la teorizzavano solamente, come direbbe
Franco. Sono stata poi al liceo, al Virgilio, ho fatto la Sapienza, ho studiato
antropologia dagli inizi. Ho deciso che avrei scritto la tesi di laurea sugli
zapatisti, che erano appena usciti come gruppo rivoluzionario in Messico. E mia
madre invece di dirmi: "Ma che sei matta, è pericoloso", mi disse:
"Benissimo, vai e impara da loro". Mi pagò il biglietto con mia nonna
e andai in Chiapas, nella Selva Lacandona che non era molto accessibile, come
immaginerai. Partii con Massimo, un altro antropologo. Volevo andare a
intervistare il Subcomandante Marcos, ma soprattutto le donne zapatiste sulle
loro specificità di genere, etniche e sull'uso intelligente che facevano della
comunicazione: per difendersi dagli abusi degli eserciti, per la tutela dei
loro diritti, l'affermazione radicale di una doppia appartenenza, maya e
messicana. Mi interessava l'identità mobile, la moltiplicazione. Per spiegarle,
se in quegli anni nascevi maya in Chiapas non eri nessuno, spesso neanche
registrato all'anagrafe. Quindi se nascevi e morivi nessuno se ne accorgeva.
Invece se sceglievi di entrare nell'esercito zapatista ciò si capiva dall'uso
del passamontagna, una maschera sul tuo volto, ed è così che diventavi una
rivoluzionaria. E il governo allora voleva sapere chi fossi. Quindi c'era
questo paradosso che mettere una maschera ti dava un viso, un'identità, invece
di levartela. Questo interesse me lo sono portato dietro anche nel lavoro
artistico successivo: non aver paura a mutare, essere molteplici. Ma anche del
magico. Mi interessava attraversare. Stare in più mondi dall'inizio,
nell'antropologia e nell'arte. Portavo un cognome che mi faceva percepire in
Italia relazionata a cose che non mi appartenevano. Andando in Messico ho
eliminato questo problema, trasferendomi a Tijuana per sei anni. Nessuno sapeva
chi fossero per dire i Cordero di Montezemolo. Tra l'altro io poi ho scelto di
chiamarmi Fiamma Montezemolo. Era più comodo. Troppo lungo quel Cordero di Montezemolo.
Il punto è che a me interessava forgiarmi da sola, fare le mie scelte, creare
il mio cammino perché così mi aveva insegnato mia madre: guardare avanti, non
indietro». «Nel libro metto questo percorso accidentato. Ho evitato di utilizzare
un criterio cronologico e optato per uno più concettuale e affettivo, a volte
fantastico, da qui il riferimento costante a Borges, in questo caso al testo
sull'Etnografo, un lungo cammino che lo porta a capire che svelare il segreto
dell'altro non è importante quanto il cammino che ci porta a trovarlo. La
"magia" e il "sogno", d'altronde, mi vengono da mio padre
che mi ha insegnato a viaggiare. Non vivevamo insieme, ma viaggiavamo insieme.
Pianificava tragitti complicati, fatti con la sua Land Rover ritoccata: aveva
costruito dentro lavandini, letti matrimoniali, messo due tende, fornelli, di
tutto, sembrava la borsa di Mary Poppins. È così che abbiamo attraversato il
deserto del Sahara quando eravamo piccoli, il Mahgreb, il Kenya, l'India.
Frontiere varie, in maniera sistematica e gioiosa. Quella parte dell'avventura
viene da lui. La parte della ricerca da mia madre. Io andavo avanti e indietro
col Messico, ma anche con il Brasile dove con l'antropologo Massimo Canevacci
abbiamo studiato il rituale Xavantes, che accadeva ogni sei anni: un passaggio
dall'infanzia all'età adulta. A noi interessava soprattutto
l'autorappresentazione del rituale stesso che facevano attraverso la
telecamera. Io volevo fare un tipo di antropologia più militante, visuale, che
era nuova all'epoca. Tornata a Roma, mi sono guardata allo specchio e mi son
detta: "O me ne vado ora o non me ne andrò mai più da qui",
dall'accademia tradizionale. È così che ho deciso di andare a Tijuana. Dovevo
rimanere sei mesi, sono rimasta sei anni a fare l'antropologa studiando la
frontiera più attraversata del mondo: tra Messico e Stati Uniti. All'inizio ho
fatto molta, molta ricerca. Tante storie di vita. Poi ho iniziato ad avere
amici, collaborazioni, non voler più rappresentare l'altro o l'altra ma fare cose
insieme. Ho collaborato a molti progetti, ma non scrivevo l'aspettata
monografia. Vivevo accanto al muro di divisione tra i due Stati, dove sfocia
nell'oceano, vicino al Colegio de la Frontera Norte, famoso centro interdisciplinare
specializzato in studi di frontiera. Ma insegnavo anche a San Diego, dunque attraversavo
la frontiera tre volte a settimana per andare al otro lado, come si dice lì. È stata
una vita intensa, avevo 29 anni. Tijuana diciamo non era proprio... Stavi
attento, no? Mandavi il messaggio, la sera, tornando a casa per dire "sono
arrivata sana e salva". C'erano i sequestri? Sì, non era proprio l'ideale.
È nel 2006 però che la guerra con i Narcos peggiora e iniziano mattanze
sistematiche. Io ero rimasta incinta, avevo incontrato il mio futuro compagno e
poco dopo me ne sono andata. Una storia bizzarra pure questa. Scrivo un saggio
per una rivista messicana nella quale c'è nel board questo intellettuale
marocchino che si occupa proprio di antropologia visuale. Il mio testo gli
piace molto. Iniziamo a mandarci mail su mail. E alla fine decidiamo di vederci
a Tijuana (lui stava facendo ricerca a Città del Messico). Non ci siamo più
separati, con Tarek (Elhaik, nda). Ora viviamo tra Tangeri e San Francisco dove
insegniamo entrambi all'università della California. E Roma, dove ho deciso in
parte di rientrare dopo il Covid. Insomma, ritornando indietro mi succede che a
Tijuana decido che rappresentare gli altri come gesto accademico non mi
appartiene più. Si rappresentano da soli, mille volte meglio. E io delle parole
mi ero stufata. E qual era il modo migliore per continuare a sognare? L'immagine.
Infatti il mio lavoro più importante sulla frontiera alla fine è stato il primo
lavoro artistico: Tracce. La voce del video è quella di una donna (non è la
mia, ma di una donna di Tijuana trasferitasi negli Usa) che rinfaccia al muro
la sua mascolina sfrontatezza. Parla a questo muro come a un macho inutile. E
gli dice: puoi ricostruirti e riaffermarti quanto vuoi, ma verrai sempre
corroso dalle acque uterine dell'Oceano. Il linguaggio artistico mi dava un
senso di libertà. E per questo, diciamo, l'attraversamento finale è stato quello
verso gli States e uno strano ritorno a una scuola d'arte. Così torno indietro
a fare un master d'arte al San Francisco Art Institute. Era il 2009. Ricordo
che fu l'unica volta in cui mia madre era perplessa, ma le dissi: "Abbi
fiducia, è per me più importante non essere lineare, non avere solamente il
lavoro sicuro, ma rischiare e seguire un cammino mio". Lei ha capito e ha
appoggiato questa vocazione. È stata una sorta di chiamata. E questa chiamata
non è più venuta meno». (…).
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