Assisi è una pietra. È un cuscino dove si poggia il capo per l'eternità. E una via che inizia da una porta, di Santa Chiara, che ora ribattezzo: della Castità, e termina in un'altra porta, di San Francesco, che chiamerò dell'Amore. Assisi è anche la giovinezza. Una volta la chiamavano Ascesi come il tirocinio spirituale e fisico che, attraverso digiuno, isolamento e preghiera, procura la perfezione interiore e il distacco dal mondo e dagli istinti (Giovanni Boine). Anche per questa ragione credo che Assisi sia un acquario. O un fiume di acqua tiepida. Ma soprattutto Assisi è Francesco. È qui che sta di casa Francesco. Questo caro amico che bacio sulle labbra. Quando si attraversa la città non è vero che si è più buoni, migliori. O forse si è buoni alla maniera dei pesci: perché si guizza nel bianco. Così nuoto senza accorgermene, con pinne invisibili, da San Damiano alla tomba di Francesco. Sguscio lentissimamente veloce. Come sott'acqua. E a differenza dei pesci di umano ho soltanto lo struggimento del rimpianto. Allora ricordo che sotto la porta della Castità ho parlato con una ragazza, tanti anni fa. Lei aveva freddo perché il cielo di Assisi è la palude di Santa Maria degli Angeli, che è sparita. E io ero troppo ubriaco per bere il cappuccino. E in quel preciso istante ero convinto che Assisi fosse solamente la porta della Castità: al cospetto di una bella giornata che non nasce mai. Poi, come accade a tutti gli uomini, sono passati gli anni ma il tempo non è bastato a cancellare la vita non vissuta, né a dimenticare Assisi e il suo Principe, allora eccomi a sognare ciò che non è stato, a toccare ciò che è. La storia della ragazza che ho incontrato quel giorno e che poi non ho più rivisto, è una storia che contempla tutte le possibili storie, come se la storia di questo fantasma fosse il racconto della vita di ogni uomo, di ogni donna, e infine fosse la vera storia della donna da me amata: e ciò mi sembra un miracolo. Il miracolo banale di tante vite che si consumano in una. Così l'energia di questo miracolo resta incisa in tracce aeree, tali e quali a quelle che lasciano i fantasmi. La ragazza quando tornò a casa raccontò i suoi sogni a un ragazzo alto e gentile e un po' tenebroso. Lei subito pensò che questo ragazzo poteva essere l'unico uomo apparso per lei sulla faccia della Terra. Il suo principe azzurro. Infatti continuò ad aspettarlo ogni secondo, minuto, ora, giorno, sempre. Lo aspettava dietro la porta. Al telefono. Ma un giorno accadde che la ragazza uscì di casa per andare a fare compere e siccome in quella mattina assolata si sentiva serena e leggera, fu anche pronta per indossare la sua gonna a fiorellini. La indossò ma quando fu sulle strisce pedonali alcuni uomini dentro un'auto in corsa l'afferrarono e la trascinarono dove non occorre dire. Lei poi riuscì una sera a tornare a casa. Ma si sentiva tutta sporca. Come se avesse lavorato in un forno per tante settimane senza potersi lavare il viso e il collo. Però lei pensava che almeno lui al telefono potesse chiamarla, cercarla, invece si ingannava. Nessuno la chiamò. Da allora passò qualche tempo. Lei andava sempre al cinema da sola. Non aveva né amiche né amici. Dunque trascorse ancora del tempo. Poi un giorno si ammalò. I medici all'ospedale gli aprirono la pancia e non trovarono niente. Così richiusero. E per diverse settimane a lei sembrò di avere la pancia di un bambolotto di pezza. Per questo motivo le veniva da piangere. Passò un anno e due e tre e quattro. Lei ormai era una donna. Le cicatrici erano scomparse. E ora, proprio ora, si sarebbe sposata addirittura con il medico che anni prima le aveva salvato la vita. Questi per lei furono anni sereni se non proprio felici. Ebbe due figli. Uno tardò a parlare: Si chiamava anche lui Francesco. Era piccolo come Francesco. Poi fortunatamente parlò e non ci fu bisogno del logopedista. L'altro figlio era una femmina, la prima. Era bionda come il suo papà. Per lei furono anni normali, buoni. Sembrava che tutto andasse per il verso giusto. I giorni sfilavano frettolosi, a modo loro. E poi accadde un giorno, un giorno qualsiasi che nessuno si aspettava, perché era uno dei tanti giorni. Lei cominciò a provare un fastidio dentro di sé, una strana agitazione. Si irritava per ogni cosa. Anche con se stessa. Piangeva senza motivo. Voleva andare via. Fuggire lontano. Il marito fece di tutto per trattenerla, ma lei non lo ascoltava. Così andò via. Ancora oggi non si sa dov'è. Prima di raggiungere San Damiano, che è al di là del parcheggio, con il fantasma di donna che è sempre accanto a me, mi stacco di dosso le levità e vado a cercarmi un paio di jeans. La proprietaria del negozio è una vecchia megera aristocratica, una tenutaria degli anni Trenta. Saprebbe vendere ogni cosa, e al prezzo più basso la sua pelle. Comunque i pantaloni non li voglio neri, dunque non li compro. Allora entro in un negozio di pietre e oggetti di pietra. Scopro un pesciolino di opale. Lo prendo e me lo metto in tasca. Le pietre sono preziose. Danno il coraggio per diventare assassini o la quiete per trastullarsi come sceicchi. Assisi, costruita con tante pietruzze, è una stella giudaica. E in questa stella c'è il verde della malachite, il marrone bruciato del diaspro, il celestino del calcedonio labradorite, il rosa macchiato di bianco, e l'occhio di tigre che è a strisce nere e gialle. Liz Taylor, ai tempi del suo amore con Richard Burton, qui ad Assisi comprò un cavallo di opale da duecentoventi milioni. Comunque il mio pesce è meraviglioso. Gli brilla un occhio. San Damiano appare come un cascinaletto spolverato, con l'aia invasa da una nidiata di suore spagnole e stortignacchere. Una è zoppa; un'altra ha un braccio corto; una ha le gambe concave; sua sorella le ha convesse. Le suorine sorridono. E parlano tutte insieme. A San Damiano ci sono soltanto loro, io, il mio fantasma che non parla mai ma che osserva tutto. Il coro di Chiara è una stalletta pulitissima, una specie di otre di cavallina. Potrebbero entrarci non più di sette sorelline alte un metro e cinquanta, un metro e cinquantotto. Ora, in assenza delle sorelle, è pieno zeppo di spiritelli femminili che emanano un odore di polvere smorzata dall'acqua. Il coretto vero e proprio, di castagno, ha tutte le assi inchiodate. È un coro fragile, per spiritelli femminili. Sembra appena trattenuto da un chiodo. Intanto le suorette stortignacchere fanno un bel vociare. Ma certamente non sono cattive. Sono soltanto un po' cavallette. Ma non mi arrabbio con loro. Anche se vorrei imbavagliarle e nasconderle o murarle da qualche parte. Nel dormitorio Chiara morì l'll agosto del 1253. Queste furono le sue ultime parole: «Va' sicura e in pace, anima mia benedetta! Colui che t'ha creato e santificato, ti ha amato sempre teneramente come la madre il suo figliolo piccolino. E tu, Signore, sii benedetto perché mi hai creato!» Ho toccato la croce a capo della sua testa morta. Oltre, verso destra, sulla parete, c'è un cristo di legno, grosso e patriarca, sembra che stia qui appeso per proteggere la casa. San Damiano è proprio un'isola gentile con un piccolo mare calmo. E pure il refettorio è un corpo delicato e fragile, come quello che fu di Chiara, come quello delle sorelline che non ci sono più, come in fondo quello di queste povere stortignacchere, e come le mura dello stesso convento e come il chiostro. Invece ciò che resta del cadavere di Chiara non è a San Damiano, è nella cripta della basilica che porta il suo nome. Chiara, dietro il cristallo, è lunga un metro e cinquantotto, infatti non mi sbagliavo. Però, ora, è una mummia. È vestita come una suora: l'abito marrone, il velo nero, il sottovelo bianco che le incornicia il viso. Ai piedi non ha le scarpe. Mentre il suo capo lo ha cinto da una coroncina di margheritine. Il suo volto è privo di lineamenti, dunque irriconoscibile, perché di cera. Di sopra ci sono le clarisse. Appaiono nere come ombre da dietro una grata. Parlano con una vocina. Hanno nude soltanto le mani. Sembrano gli spiriti del coretto che si sono qui incarnati. Ora ne è sbucata una. E risponde deliziosamente a questa orda di carnivori che la interrogano anche su come dovrebbero pisciare e non pisciano. Il loro è un pasto orribile. Gli strapperei il cuore dal petto. Sono gelosissimo della clarissa. La vorrei tutta per me, pronta a sussurrarmi all'orecchio. Alle sue spalle si intravede la veste di Francesco; ci sono i capelli di Chiara; le scarpe che Chiara ha cucito a Francesco; c'è il filo di Chiara; la corda di Chiara. Di fronte è appeso il Cristo che a San Damiano parlò a Francesco. È un mingherlino dotato di una stupefacente aureola. Finalmente i divoratori si sono allontanati. Allora posso poggiare una mano sulla grata. Posso dirle: «Come si chiama?», Lei mi risponde: «Chiara Veronica». E con la scusa (che poi è anche un desiderio), di ricevere il santino che ha tra le mani, le sfioro volutamente le dita. Mi sembra di toccare le piume di un uccelletto. Ho sulle mie dita la sensazione del petto caldo di un uccello. E di Chiara Veronica non vorrei avere altro. Prima di raggiungere Francesco osservo la crocefissione delle ombre di Cimabue e rivedo il film di Giotto nella Basilica superiore. Il montaggio è quello perfetto di una vita semplice. Terribilmente complessa. I suoi colori sono ancora nella luce italiana. Poi scendo le scale. La tomba di Francesco è un elmo rotto. È un rudere di corona. È la stessa corona che ha indossato il suo Principe. Ora che la guardo mi torna alla mente la tomba di Federico II di Svevia. Ricordo che le infilarono dentro delle orribili sonde. Rivedo quei bracci computerizzati che mischiano il tempo, che rivoltano le interiora della cenere. Bastardi sacrileghi avreste meritato la morte. Con Francesco questo non accadrà mai perché la sua tomba è un trono e lui è seduto come un uomo nudo accanto al fuoco. Intoccabile. I suoi amici gli stanno accostati. Li ha intorno come i cavalieri della tavola rotonda. Gli amici di Francesco sono i petali di una rosa. La tomba di Francesco è anche un camino. Quando l'hanno aperta, nel 1818, dentro vi era una pietra. Era il cuscino di Francesco. Allora perché gliel'hanno sottratto?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 6 dicembre 2024
Lavitadeglialtri. 59 “Chiara e Francesco. Il cantico di Assisi”.
“Leggere”. “I fantasmi di Chiara, Francesco e il mio”, “cantico” di Aurelio
Picca pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del
primo di dicembre 2024: Su Francesco avrei voluto scrivere dopo la
mia morte. In un giorno qualsiasi. Allora sì che avrei avuto la concentrazione
giusta: né pesante né leggera, come un corpo giovane e innamorato. Invece ne scrivo ora, proprio quando mi manca
la grazia anche per spegnere la luce e mettermi finalmente a dormire. Vorrei
però che almeno lui sapesse che il mio è un gesto d'amicizia. E l'amicizia vale
molto più della guerra.
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