"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 8 dicembre 2024

Lavitadeglialtri. 60 Vanni Codeluppi: «Un gioco perverso tra soddisfazione e frustrazione. In mezzo c'è l'apparato che crea il consumo».

 
Sopra. "Comedian" di Cattelan, "opera" venduta di recente per 6.000.000 di dollari. 

8 dicembre

Vostra Grazia ha saputo che sono uscito assai presto di mattino dal recinto della vigna Muti. Era un'alba fredda e umida, e cercavo un riparo. Dalla vigna a via Margutta, la strada è lunga. Ho attraversato l'Esquilino su un carretto tirato da due cani, due dolcissimi bastardi cui non necessitava alcun incitamento per camminare. Era il carretto d'un pastore che portava il latte a piazza di Spagna. Vostra Grazia ha saputo anche questo? Non dico di essere innamorato della marchesa, per quanto provo un vivo desiderio di starle quanto mai vicino. Ma la marchesa, della cui ebbrezza libertina sarebbe sciocco tacere, non è molto disponibile a me. (Tratto da “La principessa e l'antiquario” (1980) di Enzo Siciliano).

Media&Umani”. “Si chiama IA la nebbia che ci avvolge”, testo della intervista di Antonio Gnoli a Vanni Codeluppi pubblicata sul settimanale “Robinson” del primo di dicembre 2024: (…). Non ti sembra che sia un po' questa la condizione nella quale ci troviamo a vivere? «È lo sviluppo della vecchia formula romana panem et circenses, oggi arricchita dagli ingredienti che internet e l'intelligenza artificiale offrono: immaginare di essere liberi e felici quando in realtà siamo sottoposti a regole ferree e invisibili».

E anche il principio che sovrintende al consumo. «Il consumo è il motore immobile senza il quale non capiremmo il posto che occupiamo nella realtà».

Soprattutto quale senso essa ha per noi. «Il motore è immobile ma la realtà si muove. Il motore è il desiderio, la realtà sono le risorse per realizzarlo. Ma una volta che l'hai soddisfatto, avanti il prossimo. È un gioco perverso tra soddisfazione e frustrazione. In mezzo c'è l'apparato che crea il consumo».

L'apparato sarebbe? «È tante cose, ma un passaggio fondamentale è quello che chiamo la vetrinizzazione della merce. Non è un fenomeno recente».

A quando risale? «Più o meno agli inizi del Settecento. Man mano che si procede nel tempo si vede che l'esposizione della merce parla il linguaggio della seduzione. Si crea una sorta di mondo magico per cui la merce sembra avere una proprietà sovrannaturale».

È quello che già pensava Marx. «Marx era interessato all'aspetto invisibile della merce. Chi ha cercato di approfondire l'elemento magico, rifacendosi a Marcel Mauss, è stato Jean Baudrillard quando ha parlato del "culto del cargo"».

Di che si tratta? «Una specie di culto religioso che ebbe inizio alla metà dell'Ottocento nelle isole Figi. Gli abitanti vedevano le navi scaricare beni diversi sulle loro spiagge. Non conoscendone la provenienza, immaginarono che provenissero direttamente dai loro antenati. Che ci fosse insomma un mittente divino. E un culto che con qualche variazione si è presentato in più parti del mondo. Soprattutto durante la Seconda guerra mondiale».

Baudrillard è stato anche il teorico della società dei simulacri. «Il concetto di "simulacro" ha una lunga storia che inizia con Platone. Il filosofo condanna il simulacro perché capace di ingannare lo sguardo dell'uomo. Ma è nel secolo scorso che il simulacro diviene interessante per certi teorici e scrittori di fantascienza».

Che cosa li attrae? «Direi che è proprio la parola "inganno" che considerano importante. Mentre Platone lo combatte con tutta la forza teoretica, Baudrillard e autori come Dìck e Ballard, vedono nel trionfo dell'inganno la dimostrazione che il Novecento non è più in grado di argomentare in modo convincente il principio di verità. E ne prendono atto».

La società dei simulacri in fondo non è altro che la società dell'inganno. Ma che cos'è un simulacro? «È la perdita dell'originale. Baudrillard lo ha detto con chiarezza: la società contemporanea è caratterizzata da un processo di moltiplicazione dei simulacri intesi come copie di copie che rinviano ad altre copie delle quali non esistono più gli originali».

Viene in mente "Comedian" di Cattelan, un'opera venduta per più di sei milioni di dollari. «Quella banana attaccata alla parete con un nastro è solo un gesto. Un simulacro appunto».

Viene meno il principio della rappresentazione della realtà. «Il simulacro non ha nessuna base solida tranne il suo moltiplicarsi. Oggi poi, a causa della crescita dei processi digitali, si sta andando nella direzione dei simulacri integrali».

Ossia? «È il simulacro stesso che crea il proprio originale. Lo si nota ad esempio nel fenomeno delle opere d'arte prodotte in digitale con tanto di autenticità originale certificata, ma lo si vede soprattutto nella creazione del bitcoin, il primo modello di criptovaluta con numerose imitazioni».

È una moneta digitale. «Il punto è proprio questo: non ha più niente di fisico. Vive, si rigenera e si autentica, in piena autonomia, grazie alla tecnologia blockchain. Non è un caso che ad acquistare Comedian sia stato Justin Sun, considerato il re delle criptovalute! Assistiamo al tramonto della realtà».

Su questo qualche anno fa hai scritto un libro. «Allora riflettevo sul fatto che il sistema dei media aveva letteralmente divorato la realtà sostituendola con l'iperrealtà. Questo processo comunicativo è stato portato a compimento con il digitale, per cui il vero non ha più bisogno di prove per essere tale. È sufficiente il fatto di essere comunicato perché acquisisca lo statuto della certezza».

È un po' come quando si diceva "lo ha detto la televisione". «Il primo a capire la potenzialità del mezzo fu Orson Welles con il suo racconto radiofonico sulla terra invasa dai marziani. Era il 1938 e quella resta la più geniale beffa mediatica che io ricordi. Da allora si è percorsa molta strada e la beffa è diventata il nuovo codice dì accesso al mondo delle immagini che sempre meno hanno bisogno di spiegazioni. Dalla verità dei fatti si è passati alla post-verità delle opinioni. Una situazione che mio padre, pur avendo molto a che fare con le immagini, mai avrebbe potuto prevedere».

So che vieni da una famiglia di fotografi. «Sono cresciuto in una famiglia di fotografi. Mio padre e due suoi fratelli avevano un negozio di fotografia a Reggio Emilia, città dove sono nato. Attraverso l'apprendistato giovanile cominciai ad apprezzare il linguaggio visivo. Ricordo con curiosità mio zio che nella camera scura ritoccava le foto modificando l'immagine».

Non hai mai pensato di continuare il loro lavoro? «Non ho mai avuto dubbi sul fatto che volessi studiare. Ho fatto l'università a Modena e ho avuto la fortuna di incontrare Giuliano Piazzi. È stato un sociologo che ha insegnato a Urbino, poi a Bologna e infine a Modena. Era esperto di Niklas Luhmann. A lui devo la conoscenza di Baudrillard su cui tenne un corso bellissimo che mi dischiuse un mondo che non conoscevo».

Per tornare alla fotografia, ti sei occupato di Luigi Ghirri. «Ghirri è stato un grande personaggio emiliano, come lo fu Gianni Celati. I due avevano molto in comune. E mi è accaduto di raccontare il loro rapporto con il paesaggio, soprattutto nei mesi in cui scendeva la nebbia. Ghirri la considerava una parte ineliminabile del paesaggio dell'Emilia».

L'hai conosciuto personalmente? «Una volta che andai a trovarlo mi fece capire che la fotografia è soprattutto pensiero. Fino ad allora avevo creduto che il paesaggio - sul modello del fotoamatore - dovesse essere bello. Ghirri invece mi parlò del concetto, della costruzione, che per quanto rarefatta, doveva esprimere l'idea dello spirito del tempo. Era stato folgorato dalla lettura di Baudrillard. Poi i due finirono col conoscersi e immaginarono di realizzare una mostra assieme. Alla fine non ne fecero niente. La cosa importante è che Ghirri condivise il punto di vista di Baudrillard sulla fotografia».

Quale? «Quello per cui il fotografo spogliandosi dei propri pregiudizi, accetta di essere guardato dal paesaggio e dagli oggetti che lo compongono. Che è la cosa che nota Baudrillard: "È l'oggetto che ci vede, è l'oggetto che ci sogna"».      ·

In fondo l'affermazione di Baudrillard richiama un po' quella "nebbia" che nasconde le cose. «Le nasconde ma non le nega. Esse ci sono ed effettivamente è come se ci guardassero. La nebbia tende a cancellare i confini abituali tra la realtà e la fantasia, costringendo, in un certo senso, gli abitanti della pianura a sviluppare le capacità immaginative della mente. È un fenomeno molto emiliano. Per me è stato molto importante formarmi, negli anni Settanta, in quel mondo concreto e impalpabile. Avvertivo la presenza di un'energia particolare trasformarsi in una specie di creatività diffusa».

Che cosa ti affascinava? «Il modo felice in cui tante persone, delle più diverse estrazioni sociali, sentissero il bisogno di narrare, di lasciarsi andare a viaggi fantastici e a voli dell'immaginazione. La ragione di tutto questo credo risieda nel desiderio di riempire la sensazione di vuoto che la nebbia o l'orizzonte senza fine della pianura provocano. Da Ariosto in poi la scrittura e poi la musica sono stati il mezzo per dare corpo alla fantasia e al divertimento».

Il ruolo della nebbia che nasconde la realtà oggi è stato soppiantato dai media. «La nebbia, di cui parli, e che ci avvolge, equivale per me all'eterno presente nel quale siamo immersi e che allontana o nasconde in maniera irrimediabile passato e futuro. Si tratta di una nuova patologia: l"'oblio digitale"».         

Spiegati meglio. «La nostra memoria biologica è stata sostituita progressivamente dalla memoria digitale. Il potenziamento degli strumenti elettronici ha consentito la creazione di archivi che contengono una quantità mostruosa di dati e di informazioni. Ma nel momento in cui la memoria è estratta dal corpo biologico e messa in un cloud o in una banca dati, il nostro controllo non è più lo stesso. Non dipendiamo più dal nostro cervello ma da un'entità estranea».

È un processo iniziato con la memoria del computer? «È stato il primo passo. Ma l'esternizzazione sempre più diffusa ha indebolito le nostre capacità di esprimerci con originalità».

Attribuiamo questa "originalità" solo alla figura del capo o del divo. «Il fenomeno del divo o del capo è tutt'altro che recente. Mi sono a lungo occupato del divismo. Nasce con il teatro e si afferma con il cinema, soprattutto hollywoodiano. Si conferma nel canto per poi estendersi alla televisione, alla moda, all'arte, alla d cucina e soprattutto allo sport».

C'è stato un cambio qualitativo? «Il divo classico era un individuo irraggiungibile. Figure come Humphrey Bogart o Greta Garbo si potevano ammirare solo sullo schermo. Gli attori vivevano in ville isolate e protette. Oggi il mondo del divo si sta sempre più mescolando con il mondo quotidiano. È stata la televisione a creare il divo "normale". Quando Umberto Eco descrisse il successo di Mike Bongiomo, immaginava il divo della porta accanto. Il Grande Fratello ha accentuato tutto questo, per cui divo è uno di noi. Nell'era del selfie, il massimo desiderio di un fan è di fotografarsi accanto al proprio eroe».

Infine c'è il web. «Il web moltiplica il divo. Tutti in qualche modo possono aspirare ad esserlo, non si richiedono particolari talenti. I nuovi divi non hanno meriti, spesso si limitano a raccontare quello che fanno nel corso della giornata, ma è sufficiente per avere milioni di follower. Stanno nella loro "vetrina digitale", esponendo la sola merce che posseggono: il proprio corpo».

Ti spieghi il loro successo? «Non sanno fare nulla, ma lo sanno fare bene. E in chi li guarda si apre la speranza: se ce l'hanno fatta loro che erano delle nullità posso farcela anch'io».

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