"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 1 agosto 2024

Piccolegrandistorie. 86 Massimo Giannini: «Riordinando un po' di libri, ho rispolverato un vecchio saggio di Pierre Hadot. Citando Plotino, dice che ognuno di noi dovrebbe "scolpire la propria statua"».

                        Sopra. Aggius (Sassari, 2 di luglio 2024), "manufatto litico".

LamineYamalegliAltri”. 1“La vita, a volte” di Concita de Gregorio pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 27 di luglio 2024: (…). Mi addolorano cose minime, fatta eccezione per ciò che riguarda chi amo. Per il resto poco: mi addolora ancora molto, per esempio, scrivere a una persona amica e non avere risposta. Ma mi hanno spiegato - appunto le persone che amo~ che non devo, non dovrei. Non rispondere si porta moltissimo, in questo tempo. È la modalità standard di relazione: quando non sei in grado di gestirla o non ti interessa abbastanza conservarla, allora taci. Scialla, mi hanno detto. Chiudi. È un problema loro se non ti rispondono, non è un problema tuo. Archivia e dimentica, rimuovi il file. Ok, chiudo. Faccio un po' di fatica, tuttavia. Vengo dal Novecento, le persone non mi sembrano file e resto affezionata a quelle formule tipo grazie, scusa, ora non posso, ho capito, ti richiamo. Non si usa più. Ora si fa silenzio, che significa: non mi interessa parlare con te. Va bene, imparo, archivio pezzi di vita. Ma non era di questo che volevo parlare. Era della commozione. È arrivata all'improvviso, inaspettata, mi ha trovata inerme. Una foto. Una foto del re di Spagna, Felipe, incanutito e curvo nell'abbraccio a un giocatore della nazionale spagnola che ha vinto l'europeo di calcio. Si chiama Lamine Yamal, il giocatore. Nella foto porta l'apparecchio ai denti, ha 17 anni compiuti da 48 ore. Ha la pelle scura, il re bianchissima. Ha mèches bionde nei ricci neri, il re ha la fede al dito. Ridono entrambi, il ragazzo è più basso di statura: poggia la testa alla spalla del sovrano. Alla giacca blu del sovrano. Felipe ed io abbiamo quasi la stessa età. Siamo cresciuti insieme, se posso dire. Mia nonna ci ha cresciuti insieme. Andavamo a scuola, l'Infante ed io, bambini. Lui era biondo e bellissimo, io non altrettanto ma agli occhi della nonna sì: uguali. Guarda come vi somigliate, lui è così gentile, intelligente. Poi l'università poi i primi amori, i giornali di pettegolezzi, guarda ha sposato una giornalista come te, poi lui era in procinto di diventare re di Spagna e niente: le nostre vite si sono separate. Inoltre la nonna è morta, dunque io e Felipe non abbiamo avuto più niente in comune fino all'altro giorno. Chissà come sarebbe stata felice nonna, di quell'abbraccio col ragazzo con l'apparecchio: che peccato che le cose che succedano dopo non si possano vedere. Ho ripensato a lei, alle estati in cui Felipe cresceva, e pure io. A un certo punto, nel 2007, è nato questo bambino: Yamal. Padre marocchino, madre della Guinea Equatoriale. È nato a Esplugues de Llobregat, conosco bene il barrio: lui fa 403 con le mani ogni volta che segna, sono le ultime cifre del codice postale. Un posto davvero difficile, però vicino al Camp Nou. La vita a volte. Quando Yamal era neonato Lionel Messi, per una campagna Unicef, gli ha fatto il bagnetto: il piccolo è stato estratto a sorte, per la foto. Poi ha vinto gli Europei a 16 anni, 17 compiuti per la finale. Poi ha condiviso un suo premio, una coppa, col fratello piccolissimo e sembrava la riproduzione di quella foto con Messi. Poi c'è stato l'abbraccio dell'ormai sessantenne re. Quanta storia in quella foto. Ciao nonna, ti penso.

LamineYamalegliAltri”. 2 “Scolpendo la nostra statua” di Massimo Giannini pubblicato sullo stesso numero editoriale del settimanale “d”: (…). A me succede spesso, ormai.  In quelle domeniche pomeriggio d'estate in cui non ti resta altro da fare, se non vagare nell'aria ferma della città che finalmente ricominci a sentire un po' tua perché l'afa ha messo in fuga tutti gli altri, e allora entri senza motivo in qualche libreria, in qualche negozio di abbigliamento, in un megastore o in un supermercato, in cerca di qualche refolo d'aria gelida sparata dai condizionatori. O fai sosta in quel solito bar, per un caffè freddo, una Schweppes al limone, uno spritz, per interrompere il tuo cammino senza meta. Oppure, verso sera, ti siedi ad aspettare un tramonto e una quattro formaggi in quella pizzeria all'aperto, dove sai che ci sono pochi turisti. E allora li vedi, questi ragazzi e queste ragazze, che mentre tu inganni il tempo col niente loro se lo sudano riempiendolo di fatica. Ogni volta li osservo mentre lavorano, e forse è un caso, forse sono fortunato io, ma mi sembrano quasi sempre così gentili, disponibili, solleciti. Li vorrei abbracciare, per questo. E quando sono molto giovani, a volte quasi mi commuovo, a immaginare che in quel preciso momento potrebbero stare in qualunque altro posto, al mare in piscina in discoteca con gli amici, e invece si stanno guadagnando da vivere rendendo un servizio a me, che mi sto godendo l'ozio. Li scruto meglio, dai loro sguardi o dalle loro movenze cerco di capire chi sono, da dove vengono, se sono felici di quel che hanno, se hanno un sogno da inseguire, se c'è una casa alla quale tornano, se c'è qualcuno che li aspetta, una madre, un padre, un compagno, una fidanzata, un cane, un gatto. Penso a quello che si dice in giro di loro. Oggi, per lo più, sdraiati e divanisti. Oppure, come qualche anno fa teorizzavano alcuni ministri, bamboccioni e schizzinosi. A me sembrano l'opposto. Ci sono anche quelli che per scelta consapevole non considerano più il lavoro una priorità della vita. Un'indagine Legacoop-Ipsos appena uscita dice che per la Generazione Z è addirittura all'ottavo posto nella scala dei valori: prima viene il benessere mentale e fisico. Io non li biasimo: li capisco. Ma amo quelli che vedo lavorare con tutta la cura e la premura di cui sono capaci. Fare le cose, farle bene. Qualunque siano, queste cose, come insegna il meraviglioso Perfect Days di Wim Wenders, dove il protagonista lustra i bagni pubblici di Tokyo come fossero la Reggia di Versailles. Ogni lavoro è dignitoso, se eseguito bene, perché sei tu che dai dignità a ciò che fai, per il modo in cui lo fai. Se poi hai una passione, non lasciare che diventi un hobby: coltivala, e qualcosa succederà. Ho visto Lamine Yamal, che nel 2007 era neonato mentre Leo Messi gli faceva il bagnetto e che due domeniche fa, a 17 anni, nella finale degli Europei ha alzato la Coppa con la nazionale spagnola. Ho letto su Libération la storia di Nina Métayer che a 35 anni, con il suo laboratorio Issy-les-Moulineaux, ha vinto il titolo di miglior pasticciera del mondo. Ha cominciato a 13 anni nei mercati, per ripagare una bolletta del telefono ai suoi genitori. Per tutta l'adolescenza ha venduto crepe e gelati nelle sagre. "A 18 anni" dice "ho scoperto di poter fare il pane, e quindi realizzare qualcosa: è stata la prima volta che mi sono sentita davvero competente, quando consegno una baguette sono molto fiera. Poi ho scoperto la pasticceria, e mi ha cambiato la vita...". Riordinando un po' di libri, ho rispolverato un vecchio saggio di Pierre Hadot. Citando Plotino, dice che ognuno di noi dovrebbe "scolpire la propria statua". Andando per sottrazione, come insegnavano i greci. Si tratta di lavorare su noi stessi, martello e scalpello, portando via il falso l'inutile il superfluo e liberando ciò che siamo davvero. Tutti possiamo riuscirci, camerieri o ingegneri, artiste o sciampiste. “Fare il proprio volo ogni giorno… Uscire dalla durata... Fuggire la maldicenza Deporre la pietà e l'odio...  Amare tutti gli uomini liberi...". Che altro?

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