“
Pecore&
Pecore”
1“Il buio al contrario” di Viola Di Grado:
Non sono mai stata una turista. Il
viaggio non mi interessa come opportunità di piacere, bensì di svuotamento:
perdere quella cosa pesantissima che chiamiamo "io" e fare spazio a
qualcosa di inesplorato. Ecco perché per anni ho sognato l'Islanda, luogo che
più di tutti mi pareva incarnare un'idea surrealista di vuoto e pieno insieme,
con i suoi deserti lavici e i suoi basalti teatrali, la sua natura rada eppure
esorbitante. Ho amato questa terra per anni, prima di conoscerla davvero,
perché sentivo i suoi paesaggi inospitali molto simili alla geografia della mia
psiche. Quando ho compiuto trent'anni ho deciso che era arrivato il momento di
andarci, e scoprire se avevo ragione: se davvero l'Islanda somigliava al mio
spirito. Sarei stata diversi mesi, e avrei diviso quel tempo tra due realtà
opposte: una residenza di scrittura a Reykjavik e un isolamento monacale in una
fattoria in mezzo al nulla. Nella residenza, ovviamente, avrei scritto, e nella
fattoria in mezzo al nulla innanzitutto avrei sperimentato il nulla. Ma
soprattutto avrei lavorato: tutto ciò che andava fatto in fattoria, ovvero cose
di cui sapevo meno di zero. È stato facile trovare la residenza di scrittura e
la fattoria, meno facile convincere la mia ragazza di allora - una talentuosa
compositrice persino più solitaria di me, ma comprensibilmente restia a
trascorrere i mesi invernali in una fattoria dell'estremo Nord spalando feci di
pecore e capre in compagnia di sconosciuti - a seguirmi. Però mi amava e
l'amore, si sa, incoraggia la follia. Il periodo in città è stato sereno e
divertente. Facevamo molte escursioni nei dintorni: il luogo più bello è stato
probabilmente la spiaggia nera di Reynisfjara, nota per le forme stupefacenti
del basalto e per il gran numero di turisti morti annegati per via delle onde,
che per una specificità geologica irrompono devastanti e improvvise dal mare
calmo. Per questo, l'ingresso alla spiaggia è pieno di cartelli che un tempo,
mi spiegò uno del luogo, avvertivano soltanto di non avvicinarsi troppo, ma che
ora includono anche le foto dei suddetti malcapitati in preda all'onda, poiché,
a quanto pare, il testo da solo non sortiva effetto: in quest'epoca
ossessionata dalle immagini, solo l'evidenza fotografica funziona. Altri
momenti clou delle nostre gite furono perderci in un ghiacciaio e ammirare una
colonia di foche al chiaro di luna. E poi il mio incontro con Bjork. Con la sua
maschera rosa all'uncinetto era fiabesca e irreale, e mi ha rivolto parole
molto dolci: la nostra connessione è stata forte e immediata. Ma più di tutto,
ovviamente, a colpirmi sono stati i paesaggi che alla fine coincidevano davvero
con il modo in cui li avevo sognati: fuoco e ghiaccio e correnti bollenti dal
profondo della terra, fittissime tempeste di neve ed estati senza oscurità. Era
proprio come pensavo: l'Islanda non è un luogo, è un ribollire di stati
d'animo, una mente fatta geografia. Meno bella l'esperienza nella residenza di
scrittura, ex casa di un noto scrittore del Paese e situata sotto
l'associazione degli scrittori islandesi: a parte i grotteschi problemi idraulici
e l'assenza di garbo degli organizzatori, puntualmente qualcuno tra il pubblico
dei numerosi eventi si ubriacava e veniva a bussare molesto alla nostra porta.
Il cuore pulsante del viaggio, quello di cui l'esperienza nella capitale è
stata solo una periferia e un'introduzione, è stata la permanenza nella
fattoria. Si trovava a diversi chilometri dal villaggio più vicino, in una
distesa di bianco: neve bianca, cielo bianco che nelle poche ore di luce era
tinto di rosa e viola. L'esperienza di non vedere all'orizzonte nient'altro che
bianco chiazzato di rosa e viola è potentissima. È un buio al contrario, un non
essere rivoltato ed esposto. È quello che più si avvicina alla mia idea di
viaggio svuotante. Oltre le distese di neve c'erano le crepe azzurre dei laghi
ghiacciati e splendidi cavalli bassi e pelosi. La coppia era sui quarantacinque
anni. Lui aveva l'aspetto stereotipico del vichingo, lei aveva un'espressione
intensamente infelice. Avevano due gemelle deliziose di dieci, che facevano
calze all'uncinetto e portavano il caffè alla madre studentessa universitaria,
e al nostro arrivo ci fecero trovare una torta a forma di Barbie. Poi un
ragazzino di dodici anni che non parlava mai, e un altro di sedici che viveva
da solo, che vedemmo solo una volta, quando i suoi ci costrinsero ad andare a
vedere il suo musical scolastico a tema mafia. Il nostro lavoro era duro:
spalare escrementi, rifare tutta la pavimentazione della stalla, inchiodando
travi immerse nell'odore nauseabondo. Però io ero felice, perché in un certo
senso non ero io, il che era ciò che volevo. La sera, sfinite, ci sfilavamo
l'armatura, che consisteva in una serie di strati di cui il più esterno era una
salopet impermeabile e il più interno una maglia termica doppio strato,
passando per biancheria full body in lana merino. I pasti erano molto frugali,
composti soprattutto da palline di pesce e pane imburrato, così a volte la
notte ci avventuravamo affamate in cucina a bere bicchieroni di squisito latte
munto dalle mucche della fattoria accanto (accanto per modo di dire: ovviamente
era a diversi chilometri). Ogni tanto apparivano un paio di foglie di lattuga,
sistemate al centro del tavolo come fiori esotici, rese preziose dal fatto che
in Islanda non cresce nulla, e dunque si trattava di costose importa-zioni.
Siccome il governo non fornisce l'elettricità a luoghi così remoti, la famiglia
aveva installato una personale centralina. Il lato negativo di ciò lo
sperimentammo molto presto: a fine novembre arrivarono le tempeste di neve e
l'elettricità andò in tilt. Ci ritrovammo segregate in casa, con la neve che
murava le finestre e nessun riscaldamento. Facevamo docce fredde e parlavamo
poco. Quello fu per me un periodo bellissimo, perché, come i monaci irlandesi
che venivano mandati a trascorrere l'inverno in Islanda per temprare lo
spirito, in quell'assenza di agio mi sentivo più vicina all'osso di me stessa,
e infatti in pochi giorni scrissi duecento pagine di diario. Meno felice era la
mia ex, che benché componesse anche lei sotto le coperte, da sempre soffre
molto il freddo, e inoltre, comprensibilmente, sviluppò un'ostilità per il
vichingo, soprattutto da quando un giorno, strafatto di coca, ci inseguì con il
suo trattore ridendo a crepapelle. Il momento clou, quello divisivo che portò
la mia ex a fare le valige (si fa per dire: in realtà le valige non furono mai
disfatte, perché la famiglia non svuotò per noi l'armadio della stanzetta) fu
quando ci venne chiesto di partecipare a un rituale antico ancorché decisamente
pragmatico, chiamato smala. "Oggi si fa smala, signorine!", aveva
annunciato il vichingo alle 11:30, ora in cui facevamo colazione tutti insieme
con skyr e frutta (il sole sorgeva a quell'ora, e i corpi vi si abituavano
presto). Quando chiesi cos'è lo smala, il figlio, che non aveva mai aperto
bocca, poggiò il cucchiaio e disse con voce solenne: "Smala è sinonimo di
sofferenza". Siccome non ci furono date ulteriori informazioni, eravamo
parecchio ansiose. E infatti scoprimmo che il ragazzino aveva ragione: smala
era l'atto di riportare le pecore nell'ovile durante una tempesta di neve, e fu
un incubo. Nel mezzo di una tormenta, scoprii uscendo dalla porta, è molto
difficile respirare: i nostri cuori pomparono ossigeno furiosamente fino a
spaccare i capillari e inondarci le bocche di sangue. Anche la vista era
compromessa - la neve in volo, aguzza come lame, colpisce gli occhi - e tutto
ciò che vedevamo era appunto il bianco brutale che ferisce e cancella ogni
orientamento. Ma noi dovevamo portare le pecore all'ovile. Come, esattamente,
non ci era chiaro. Eppure, mentre le pecore si sparpagliavano, il vichingo ci
urlava di iniziare, alternando alle urla risate di scherno: davvero non
sapevamo gestire le pecore in una tormenta? All'improvviso lei sparì. Sentivo
solo le sue urla in mezzo al bianco. Era caduta in un buco, nella neve.
Chiamava aiuto, e lui rideva. Mi precipitai lì e la aiutai a uscire. Andammo
via pochi giorni dopo, nella data che in realtà era quella prevista. Lei
furiosa, io invece non scambierei con nulla questa esperienza mistica che non
rifarò mai più.
“Pecore&Pecore” 2 “Sono ciò che ho perso” di
Donatella Di Pietrantonio – vincitrice del Premio Strega 2024 - : Odiavo
le pecore. Difficile crederlo, con quelle facce mansuete, l'indifferenza
gentile dello sguardo. A volte accennano
perfino brevi sorrisi, le labbra appena rosate sui denti squadrati da erbivori.
Ma io le conoscevo, maledette. Le pecore sono false, infide. Fanno credere di
essere remissive, di andare dietro alle altre, ma l'unica altra a cui vanno
dietro è quella più ribelle, quella che sconfina, che salta lo steccato e
pascola la verdissima erba del vicino. Anche loro mi odiavano. Non avevo la
fermezza del vero pastore, mio nonno. Ero solo una supplente che lo sostituiva
fin troppo spesso, nei periodi del raccolto, o quando andava in paese a rifornirsi
di cartine e trinciato forte. Tra me e il gregge mancava l'empatia: non
riuscivo a fargli capire dove volevo che andasse, mi scappava sulle altrui
proprietà o addirittura guadava il fiume e si pasceva beato di là, dove non
potevo arrivare a pungolarlo. Le pecore avevano fame, però, e su quel punto
trovavamo sempre un accordo. Di colpo la smettevano con i capricci, la
formazione si apriva a ventaglio e cominciavano a brucare. E lì ferme, per
mezza giornata avanzavano con una lentezza esasperante, scandita solo dalla
disponibilità di cibo. E io, la pastora? Tutte quelle ore di noia, a chiedere
al nulla quale fosse il senso della mia vita In mano un libro, se lo avevo, o
la radiolina a transistor che non captava bene il segnale e sfrigolava. Quella solitudine
senza riparo, accanto alle quadrupedi così unite. Nelle stesse ore le mie
compagne di scuola si ritrovavano in piazza, poi camminavano compatte verso la
gelateria Regina dove avrebbero scelto cono o cornetto, misto creme o misto
frutti. Credo che le pecore mi abbiano provocato un periodo di depressione
giovanile. Che poi mi domandavo anche, e ancora me lo domando: ma perché io ci
metto venti minuti al massimo a mangiare e loro tutto quel tempo? Me ne volevo
andare da lì. L'unico viaggio che contava davvero era: lontano dalle pecore.
Volevo vedere una città grande e complicata, con tanti quartieri. Non
sopportavo più il verde che quasi inghiottiva le case. Così mi sono distratta
in una domenica mattina di giugno, sognando la fuga, o pensando alle amiche in
gelateria. Le pecore erano a digiuno, si sono volentieri addentrate in un campo
di erba medica novella. Quando le ho viste a terra con le pance gonfie, che a
mala pena respiravano, ero già perduta. Da casa sono accorsi alle mie grida,
mia madre ha portato le pasticcone di Timpanina e gliele abbiamo ficcate nelle
bocche rantolanti. Ne sono morte solo due e non ce le potevamo nemmeno
mangiare. La carne ormai era intossicata, guasto il sangue: niente arrosticini.
Che hai fatto disgraziata, ha detto mio nonno. Non sei buona a niente, manco a
pascere le pecore. Lo vedevo tutto appannato attraverso le lacrime. Quante
volte me l'aveva ripetuto che l'erba tenera provocava gravi indigestioni,
soprattutto se coperta di rugiada come quella mattina. "Gli animali soffrono
di disturbi digestivi a causa dell'erba bagnata. Il cibo si gonfia nel rumine,
il primo dei quattro stomaci. Gas e schiuma bloccheranno l'eruttazione".
Questo leggo in rete sull'argomento. E più avanti: "Senza eruttare, il
cibo vaga a lungo nello stomaco, provocando gonfiore e mancanza di respiro. In
uno stato di abbandono, gli animali muoiono per soffocamento". Ecco cosa
avevo fatto, le avevo abbandonate. Le due più deboli - o più ingorde - erano
morte soffocate per colpa mia. La Timpanina, un semplice tensioattivo, non era
riuscita nel miracolo. Ma pure loro: dovevano saperlo che in quelle condizioni
l'erba gli faceva male, no? Perché brucarla? Io mica mangiavo più i carciofi,
dopo che avevo avuto il torcibudella. Ho sognato tutta la vita le due poverette
stese in mezzo al campo, così gonfie d'aria da prendere il volo e sparire nel
cielo sopra la montagna. Con loro era morta la mia innocenza, semmai fosse
esistita. Mio nonno non mi ha parlato per giorni. Non appena mi vedeva si
girava di tre quarti, mostrandomi solo un pezzo di quella piega amara della
bocca che significava delusione, disprezzo. A volte anche i nonni ne sono
capaci e il mio non era come nelle favole. Mi sono allontanata dalla campagna
solo da adulta e sempre per poco. Roma non era più quella della prima volta,
durante il Giubileo del 1975, con le folle di pellegrini e la Scala Santa da
salire in ginocchio e in contrizione. Allora ogni monumento mi sembrava fuori
misura, non so se per la sua grandiosità o la mia piccolezza. Tutto mi sovrastava,
ero accolta e respinta nello stesso tempo. In fondo non è proprio diverso oggi,
nelle pieghe dell'età matura resta quel senso irriducibile dello stare fuori
posto. Mi fermo un attimo davanti ai tornelli della metro, io sono quella che
forse non passerà. Addosso ho l'odore eterno delle pecore che nessuna Eau de
lierre potrà mai neutralizzare davvero. Nelle stanze degli alberghi la
solitudine morde, ma si è un po' addomesticata. Prende sonno accanto a me nei
letti troppo grandi, mi lascia dormire. Porto via il saponcino come se a casa
non ce ne fossero, di saponi e bagnoschiuma. La povertà non era solo materiale,
era uno stato della mente che non ho mai del tutto superato. Al ristorante
pulisco sempre il piatto, perché sto per pagarlo. E se non sarò io a pagare lo
pulisco lo stesso, proprio perché è offerto e non mi costa niente. Resta come
una tara e un riflesso, un modo di stare al mondo. Il viaggio è avvenuto, non
posso negarlo, mi ha portata lontano e dove non mi aspettavo, eppure è stato
solo apparente. Un cerchio che sempre torna a chiuder· si su se stesso e a
digerirsi. Le città mi piacciono, ma poi voglio andarmene. Ho ancora paura di
perdermi. Amo Roma, però mi puzza e mi sporca i capelli, mi fagocita e mi sputa
sui marciapiedi del piscio. Torno indietro al silenzio, agli odori di cucina
del paese, che cambiano di portone in portone. E a volte mi spingo oltre, con
l'incursione della memoria: alle pecore odiate che non mi ubbidivano. La
nostalgia di loro è solo un attimo. Lo saprei ancora fare quel poco che sapevo
fare? Quante cose ho imparato dopo, ma quanto ho disimparato nel tempo. Quanto
l'allontanarmi da lì mi ha dato, e quanto mi ha tolto. Io sono anche tutto ciò
che ho perso.
N. d. r. I testi sopra riportati sono stati
pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di agosto
2024.
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