"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 23 agosto 2024

Piccolegrandistorie. 93 Alla cara memoria di Roberto Herlitzka.


(…). Ho riflettuto tanto, in queste settimane, su cosa significhi vincere in gara e cosa vincere nella vita, sull'eloquenza delle sconfitte, su quale sia la posta in palio. In definitiva, la domanda è sempre: vincere cosa. È un argomento che, nella vita quotidiana e privata, conosciamo tutti: convivere con la sconfitta senza smettere di credere nella vittoria. O quantomeno, in un pareggio, in un equilibrio fra dare e avere. Una restituzione. Ho ricevuto moltissime lettere. Ce n'è una che vorrei almeno in parte condividere qui. È di Angelo Monoriti, avvocato e docente universitario. La sua materia di studio e di lavoro è la negoziazione. Sostiene, in premessa, che sia questo - vincere come, perdere cosa - il tema da cui dipendono la crescita e il vero cambiamento del Paese. "Bisognerebbe smetterla di formare le nostre ragazze e i nostri ragazzi a confrontarsi con la vita secondo la "misura di se stessi" (credi solo in te stessa/o, diventa migliore degli altri, ecc). Perché la vita non è un gioco "finito" come le Olimpiadi, ma un gioco "infinito". Nella vita non si vince e non si perde. Nella vita non si compete da soli contro gli altri ma si coopera e si cresce con gli altri e per gli altri. Giocando ciascun gioco si può vincere o perdere, ma allo stesso tempo occorre "continuare a giocare". La teoria finito/infinito è illuminante. Si basa su alcuni principi, che riassumo. Esistono giochi "finiti" e giochi "infiniti". All'interno di un gioco "infinito" ci sono tanti giochi "finiti". In ogni gioco "finito" l'obiettivo è vincere. In un "gioco infinito" l'obiettivo è continuare a giocare. Durante un gioco "finito" le regole non possono cambiare (perché occorre stabilire chi vince e chi perde). Durante un "gioco infinito" le regole possono cambiare. Tomo alla lettera: "Basterebbe questo semplice principio per comprendere meglio che "perdere" una gara secondo le regole di un gioco finito (le Olimpiadi), può significare crescere e provare a "cambiare le regole" del gioco infinito (la vita). Nella vita si continua a giocare insieme, per un gruppo e per una comunità (come nel caso della velocista afghana, Kimia Yousofi, o nel caso della sciabolatrice egiziana, Nada Hafez). Entrambe hanno fatto la loro partita in due giochi contemporaneamente: alle Olimpiadi (in cui hanno perso) e nella vita (in cui stanno continuando a giocare insieme a tutti noi per cambiarne le regole)". C'è sempre un gioco più grande da giocare.
(Tratto da “La posta in palio” di Concita De Gregorio pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di agosto 2024).

“Un cuore esperto”, testo di Elena Stancanelli pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di agosto ultimo: (…). Abbiamo scelto come obiettivo quello di eliminare il più possibile le differenze tra le età della vita. Piano piano ci riusciremo, sempre che il mondo non finisca domani e tutto le nostre ambizioni vengano azzerate dalla bomba, come certi giorni sembra quasi probabile. Dunque noi che forse saremo tra le ultime generazioni a invecchiare davvero, che cosa dovremmo farne di quest'età uggiosa, che ci infiacchisce e rende brutti? Dobbiamo prenderci cura degli anni passati, facendoli diventare utili e non solo una iattura. Trasformare l'anzianità in un tempo fertile, potente. Qualcuno ce la fa, e noi guardiamo a loro con ammirazione. Penso al coraggio e all'ostinazione della senatrice Liliana Segre, alla pacata generosità del presidente Mattarella, alla malinconia balzana di Omelia Vanoni... Ci sono esempi a cui guardare: guardiamoli. Io per esempio avrei voluto scriverla prima questa pagina, prima che qualche settimana fa Roberto Herlitzka (31 di luglio ultimo n.d.r.) se ne andasse, seguendo di pochi giorni l'amatissima moglie. Roberto Herlitzka era un attore, nato nel 1937, a Torino - il padre era un ebreo ceco, la madre una traduttrice - aveva studiato lettere classiche a Torino e poi si era trasferito a Roma per l'Accademia d'arte Drammatica. A scuola conosce il maestro Orazio Costa, che lo sceglie, lo fa lavorare subito. È molto bravo, presto se lo contenderanno tutti quei registi che in quegli anni pensano a un "teatro di parola": Luca Ronconi, Antonio Calenda, Luigi Squarzina, Mario Missiroli... Già, la parola. Era un uomo colto Herlitzka, aveva tradotto i versi del De rerum natura di Lucrezio (li ha pubblicati La nave di Teseo) e aveva messo in scena una sua peculiare versione di Amleto, Ex Amleto. È il 1973 quando Lina Wertmiiller lo chiama a fare il cinema, Film d'amore e d'anarchia. Con quel volto scavato, lo sguardo ironico (come dimenticare il suo ruolo nella seria Boris, in cui è l'attore troppo bravo che viene invitato dal regista Ferretti a farla più a "cazzo di cane" per non far sfigurare gli altri, mentre lui cerca invano di scoprire dalla sceneggiatura perché abbia un anello in tasca) una voce mai tuonante ma sempre calda, Herlitzka diventa il caratterista perfetto, ma un protagonista troppo raffinato per quasi tutto. Fin quando arriva Marco Bellocchio, regista di genio, unico nella sua capacità di continuare a diventare sempre più speciale, magnifico, coraggioso col passare del tempo. Uno che a 26 anni gira I pugni in tasca e a quasi ottant'anni Rapito, due film magnifici. E quando nel 2003 decide di raccontare il rapimento Moro chiama un attore altrettanto speciale, Roberto Herlitzka, che conosce bene. Lo chiude dentro la prigione, in balla dei terroristi che nell'altra stanza precipitano giorno dopo giorno nell'insensatezza, prigionieri a loro volta della loro inutile intransigenza. E al colmo della claustrofobia Marco Bellocchio fa, finalmente, quel gesto che ognuno di noi avrebbe voluto fare: apre la porta, libera Aldo Moro. E lo segue mentre cammina con la schiena leggermente piegata per le strade di Roma, all'alba. A cosa serve diventare vecchi? Ad avere un cuore abbastanza esperto da sapere che non serve ribaltare tutto per cambiare il mondo, basta aprire una porta. A poter camminare senza dire una parola esprimendo tutto quello che c'è da dire, tutto quello che avremmo dovuto dire se avessimo avuto, allora, un cuore abbastanza esperto.

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