C’è un’arma che i nemici della classe operaia, i nemici della democrazia non vogliono rassegnarsi a gettare tra i ferrivecchi della storia e della politica, ed è la secolare accusa di antipatriottismo con la quale i reazionari di tutte le risme hanno sempre tentato di screditare la classe operaia e la sua avanguardia da quando esse si sono presentate sulla scena politica e hanno iniziato la lotta per il rinnovamento della società. Non c’è da stupirsi se oggi ancora, dopo la guerra contro l’oppressione fascista, i reazionari, i conservatori non rinunciano alla speranza di poter ottenere risultati considerevoli dall’impiego di quest’arme insidiosa e pericolosa che è servita nel passato a giustificare le più odiose persecuzioni contro gli operai e in particolare contro socialisti e comunisti. «Nemici della patria», – ecco l’accusa che tutte le reazioni e specialmente la reazione fascista hanno iscritto sulla loro bandiera di lotta contro la classe operaia, contro le forze progressive e la democrazia. «Le Communisme: voilà l’ennemi» – proclamava un uomo di Stato francese mentre Hitler si preparava a conquistare il potere in Germania. «Antinazionali» così vennero definiti in Italia prima le masse operaie, i comunisti, i socialisti e poi gli antifascisti in genere dal regime che preparava la rovina della Nazione. Ognuno ricorda come questo tema sia stato sviluppato, presentato sotto mille aspetti, doviziosamente corredato di argomenti, nutrito di tutte le menzogne suggerite dalla fertile fantasia della stampa gialla (NDR - scandalistisca) internazionale. Negli anni che precedettero la guerra, lo sviluppo dello stato sovietico forniva certo una prova incontestabile dell’ardente patriottismo dei comunisti, della loro dedizione alla patria e al suo progresso, ma questa non poteva certo essere una ragione sufficiente per indurre reazionari e fascisti ad abbandonare un’arma che aveva dimostrato una così notevole forza di penetrazione e di espansione. Nella inaudita campagna condotta senza interruzione per venticinque anni contro l’unione sovietica, si trovarono anzi nuovi motivi per accusare i comunisti sovietici di aver rovinato il loro paese e i comunisti delle altre nazioni di essere asserviti a uno Stato straniero. Nelle mani del fascismo, l’accusa di antipatriottismo servì a celare le violenze inumane, le barbare persecuzioni contro le organizzazioni e dirigenti della classe operaia e soprattutto contro i comunisti. Ai complici ai servi, agli alleati del fascismo – ai fautori del non-intervento e della politica di Monaco – non parve vero di potersi servire di questa calunnia per accusare di ipocrisia, se non di tradimento, i comunisti e quei socialisti che lottavano coerentemente contro il fascismo, contro le sue aggressioni e suoi preparativi di guerra. La storia ha ora messo alla prova, il patriottismo della classe operaia, dei comunisti, dei socialisti e quello dei loro accusatori. L’aggressione hitleriana – la guerra dei fascisti per asservire alla Germania le altre nazioni – ha costretto vari strati sociali e gruppi sociali, i vari partiti politici a dare la misura del loro amor di patria. Gli impostori, gli ipocriti hanno dovuto gettare la maschera. Nel fuoco della battaglia, si sono visti i popoli difendere eroicamente la loro indipendenza nazionale e i loro oppressori tradire vilmente la patria e mettersi al servizio dell’invasore straniero. La prova del fuoco è stata decisiva. In tutti i paesi d’Europa occupati dai tedeschi, i fascisti e i più accaniti reazionari si sono dimostrati traditori della patria. Erano proprio costoro che in passato e fino all’inizio della guerra pretendevano di essere i più fieri campioni di patriottismo e accusavano i comunisti di essere antinazionalisti. I traditori dell’Italia erano feroci anti-comunisti: Mussolini e la sua cricca, i Donegani, gli Agnelli, i grandi latifondisti e i grandi agrari e la banda dei più voraci profittatori del regime. I traditori della Francia erano feroci anti-comunisti: i Laval, i Pétain e i Doriot, i plutocrati del Comité des Forges, della Schneider-Creusot e degli altri grandi complessi finanziari e industriali francesi. I traditori della Norvegia, della Danimarca, dell’Olanda, del Belgio, della Bulgaria, della Jugoslavia, della Grecia, dell’Austria, ecc. ecc. erano feroci nemici dei comunisti, i fascisti delle varie gradazioni, gli spregevoli quisling (NDR – i politici che collaboravano con l’invasore) di tutte le razze e i banchieri e i latifondisti che li manovravano e li sorreggevano. Quando i tedeschi registravano quotidianamente successi militari, in tutti i paesi da essi occupati cresceva continuamente il numero di reazionari pronti a vendere la patria per avvantaggiare i loro interessi sordidamente egoistici. Viceversa, i comunisti dimostravano nella lotta di essere difensori indomiti e coraggiosi della libertà e dell’indipendenza del loro paese contro gli invasori tedeschi e i loro satelliti. I popoli liberati sono giustamente presi delle magnifiche battaglie combattute dai partigiani dell’Unione Sovietica, dai patrioti italiani, francesi, jugoslavi, greci, polacchi. E tutti sanno che in queste battaglie i comunisti sono stati in prima fila e che, in molti casi, sono stati gli organizzatori e i combattenti più audaci e tenaci della guerra di liberazione. Questi fatti incontrovertibili danno una così schiacciante smentita agli anti-comunisti, agli anti-socialisti e alle loro menzognere ideologie che sembrerebbe ormai inutile continuare a discutere per stabilire dove va cercato il patriottismo e dove l’antipatriottismo. Tuttavia i reazionari non vogliono confessare la loro sconfitta ideologica. Per esempio, in America, in Inghilterra e in altri paesi tra i quali è pur necessario iscrivere l’Italia, alcuni vecchi campioni dell’anticomunismo, tentano di risfoderare i loro miserabili argomenti. Alcuni ragionano, per esempio, a questo modo: «Se è vero che i partiti comunisti hanno preso una posizione patriottica nella guerra contro l’hitlerismo, è per eccezione alla regola poiché l’ideologia comunista non permette ai suoi seguaci di appoggiare tutte le guerre intraprese dalla loro nazione. Dunque in un’altra guerra, i comunisti potrebbero prendere posizioni antipatriottiche e anti-nazionali». Da una premessa esatta, si traggono conclusioni del tutto false. È certamente vero che i comunisti non sono disposti ad appoggiare qualsiasi guerra, ma soltanto le guerre giuste, le guerre di liberazione. Ma non è meno vero che soltanto queste guerre sono guerre patriottiche e che le guerre ingiuste, le guerre di aggressione – comunque mascherate e con qualunque pretesto giustificate – non hanno niente a che fare col patriottismo. Anzi, una guerra di aggressione è una sciagura non soltanto per i popoli che la subiscono ma anche per il popolo che la scatena, e se le forze reazionarie trascinano un paese in una guerra di aggressione, è dovere patriottico dei cittadini rifiutare ad essa ogni appoggio e lottare contro di essa. Lo dimostrano gli esempi dell’Italia dove i patrioti sono insorti contro le guerre fasciste, comprese quella di Etiopia e di Spagna, l’esempio della Germania che avrebbe evitato l’estrema rovina se i tedeschi fossero insorti contro la guerra di Hitler, dei paesi satelliti della Germania – Rumenia, Finlandia, Ungheria, Bulgaria – dove al governo sedevano i traditori della patria e dove i comunisti, accusati di tradimento, erano in realtà i difensori degli interessi vitali del paese. Infatti, combattere a fianco di Hitler significava, in caso di vittoria, correre a un disastro irreparabile, incomparabilmente peggiore della più dura sconfitta, correre verso la perdita definitiva dell’indipendenza nazionale. L’esperienza storica ha dunque dimostrato che la posizione dei comunisti è una posizione di chiaroveggente patriottismo. Altri nemici dei lavoratori speculano sulla confusione tra patriottismo e nazionalismo e rimproverano ai comunisti e, in generale, ai democratici sinceri e conseguenti, di non mettere la patria «al di sopra di tutto». Dietro questo rimprovero si nascondono pericolosi pregiudizi nazionalistici e – spesso – tendenze imperialistiche le quali non hanno nulla di comune col patriottismo. Nazionalisti e sciovinisti sostengono che l’amor di patria deve giustificare qualunque azione di brigantaggio, qualunque guerra di rapina, qualunque delitto contro il diritto e la libertà delle altre nazioni. È questa una spudorata falsificazione del patriottismo, ed essa non ha nessuna giustificazione storica né politica. Nella storia, nessun movimento patriottico ha mai avuto per scopo attentare alla libertà e ai diritti di altri popoli. Tutti i grandi movimenti patriottici del XVIII e del XIX secolo miravano invece alla liberazione dall’oppressione o dall’intervento straniero. Lottare per la libertà della propria nazione è una cosa; lottare per togliere la libertà agli altri è una cosa del tutto diversa. Per esempio, il possesso delle colonie e il loro sfruttamento non possono essere motivati onestamente con considerazioni patriottiche tanto più che essi non corrispondono agli interessi generali della nazione dominante ma agli interessi particolari di certi gruppi che ritraggono dalle colonie i mezzi per consolidare il loro dominio nel loro paese e per rafforzare le tendenze aggressive della loro politica internazionale, preparando così disastri e sciagure per i popoli. Assai spesso, i nemici dei lavoratori tentano di contestare il patriottismo dei comunisti e dei socialisti, invocando il loro internazionalismo e presentandolo come una manifestazione di cosmopolitismo, di indifferenza e di disprezzo per la patria. Anche questa è una calunnia. Il comunismo non ha nulla di comune col cosmopolitismo. Lottando sotto la bandiera della solidarietà internazionale dei lavoratori, i comunisti di ogni singolo paese, nella loro qualità di avanguardia delle masse lavoratrici, stanno solidamente sul terreno nazionale. Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l’internazionalismo proletario poiché l’uno e l’altro si fondano sul rispetto dei diritti, delle libertà, dell’indipendenza dei singoli popoli. È ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è un’ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trusts internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono, ma si vendono volentieri al migliore offerente tra gli imperialisti stranieri. Molti di questi eroi della finanza cosmopolita, in Francia come in Italia, come nei paesi anglofoni (per non parlare dei paesi neutrali) si sono dimostrati pronti a rendere qualsiasi servizio agli aggressori hitleriani, a rafforzare la potenza militare di Hitler, a rallentare la produzione bellica nelle Nazioni Unite. Negli Stati Uniti, l’attività antipatriottica di parecchi grandi trust legati coi tedeschi, è stata smascherata, a suo tempo, da una commissione presieduta da Truman. Il cosmopolitismo dei finanzieri internazionali è dunque connesso con la politica antidemocratica del fascismo e porta da sé il pericolo di nuove guerre devastatrici. A questa politica brigantesca, i lavoratori contrappongono una politica di energia e di unione internazionale. Forse questa politica non coincide in pieno con le aspirazioni patriottiche di ogni popolo? Forse le decisioni della recente conferenza sindacale internazionale non corrispondono agli interessi nazionali, dei popoli di tutti i paesi democratici? Forse il libero sviluppo e la prosperità dei singoli popoli democratici non sono assicurati nel miglior modo possibile da una salda collaborazione tra i paesi democratici per la completa liquidazione del fascismo e per la difesa della pace e della sicurezza? E non è questa la politica al tempo stesso patriottica e di solidarietà internazionale propugnata dai comunisti, oppure dalle classi operaie, dagli intellettuali e dai contadini d’avanguardia? Si tenta infine di gettare il sospetto sul nostro patriottismo affermando che non si può considerare patriota solo chi è amico dell’Unione Sovietica e si sente solidale con essa, – cioè con uno stato straniero. Ma questa solidarietà non si accorda forse con la posizione dei migliori patrioti di tutti i paesi? Si tratta dell’amicizia e della solidarietà con uno Stato socialista dove il patriottismo ha raggiunto le vette più alte e che, per sua stessa natura, è libero da ogni tendenza imperialista, rispetta e applica il principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodecisione delle nazioni ed è il difensore e il baluardo della pace. Tutti gli Stati della coalizione anti-hitleriana si pronunciano per una durevole collaborazione con l’U.R.S.S. ai fini della difesa della pace e della sicurezza. C’è dunque da meravigliarsi se i patrioti di ogni nazione sono fermamente convinti di che la collaborazione con l’U.R.S.S. è il modo migliore di difendere la sicurezza e assicurare lo sviluppo delle loro patrie rispettive? D’altra parte, le tendenze anti-sovietiche non si accordano col patriottismo come ha ripetutamente dimostrato la storia di quest’ultimo quarto di secolo. Invano, per esempio, i satelliti della Germania hanno tentato di dare una maschera patriottica alla loro guerra antisovietica. La maschera è da lungo tempo caduta. Non maggior fortuna ha avuto il pseudo patriottismo dei «monarchici» francesi e inglesi i quali, malgrado gli interessi nazionali dei rispettivi paesi, sabotarono il fronte di resistenza contro gli aggressori tedeschi e tentarono di isolare l’Unione Sovietica additandola come obbiettivo alle mire espansionistiche di Hitler. Si potrebbe forse stendere un velo di pietoso silenzio su queste cose se non si tentasse di screditare il patriottismo dei comunisti rammentando demagogicamente il loro atteggiamento nei primi mesi di guerra. «Nel 1939 e nel 1940 – si dice – i comunisti non erano molto propensi ad appoggiare la guerra …» Ma perché non aggiungere che nei primi otto mesi di guerra, i governi francese e inglese non svilupparono le operazioni militari contro la Germania e non lavoravano seriamente neppure a rafforzare il potenziale difensivo del loro paese? Il governo francese si preoccupava invece di perseguitare i comunisti (compresi i comunisti italiani e tedeschi che lottavano con tutte le loro forze contro gli aggressori hitleriani e fascisti) e di accordarsi col governo di Chamberlain per rifornire di armi i reazionari finlandesi in guerra contro l’Unione Sovietica (della qual cosa si occupava attivamente anche il governo Mussolini). E alla riunione del consiglio di guerra anglo-francese del 6 febbraio 1940 Daladier comunicava a Chamberlain che una divisione francese e una polacca erano pronte a partire per la Finlandia. È chiaro che in quel periodo i governi francese e inglese non sapevano ancora contro chi avrebbero fatto principalmente la guerra. È evidente che in Francia e in Inghilterra i patrioti non potevano entusiasmarsi per una simile guerra. Ma quando la Francia fu invasa, i patrioti francesi – e i comunisti in prima linea – non capitolarono e iniziarono la loro lotta gloriosa contro gli invasori tedeschi. Così l’Inghilterra quando Churchill prese la direzione del governo e diede prova di voler effettivamente combattere contro l’hitlerismo, la solidarietà con l’Unione Sovietica non solo non ha ostacolato, ma ha favorito lo sviluppo del patriottismo fra le grandi masse dei lavoratori. Si può anzi affermare che lo sviluppo del patriottismo nelle file dei lavoratori coscienti in tutti i paesi, ebbe inizio con la nascita del patriottismo sovietico. Gli operai coscienti di tutti i paesi sentirono allora una forte attrazione verso l’Unione Sovietica e la chiamarono «patria di tutto il mondo». Nello stesso tempo cominciarono a crescere nel loro petto l’amore per la loro patria, per la terra dove il loro popolo avrebbe potuto conquistarsi un domani migliore. Questo patriottismo ha dimostrato tutta la sua forza nella gloriosa lotta dei partigiani contro gli invasori tedeschi. Negli anni della seconda guerra mondiale abbiamo dunque assistito in tutti i paesi a una formidabile rinascita del patriottismo. Questo patriottismo non ha certo cessato di esistere dopo la vittoria sull’hitlerismo, ma continuerà a svilupparsi anche nell’avvenire. Il movimento patriottico che aveva avuto la sua origine storica nella rivoluzione della giovane borghesia, si era andato trasformando, nella seconda metà del secolo XIX, nella maggior parte dei paesi capitalistici, in una specie di feticcio, utilizzato dalle classi dirigenti per ingannare le masse. Oggi la rinascita del patriottismo delle masse popolari, rinnova le migliori tradizioni democratiche e progressive dei grandi movimenti patriottici del secolo scorso. Il patriottismo torna a riunire in sé la volontà di lotta contro l’oppressore straniero, la profonda aspirazione democratica e progressiva dei popoli, la protesta contro la soggezione delle masse popolari, contro l’oppressione di classe e contro lo sfruttamento dei lavoratori da parte degli elementi parassitari della società. Ai nostri giorni non può esservi effettivo patriottismo che non abbia un netto carattere antifascista e anti-imperialista, e non persegua la distruzione delle ultime vestigie del fascismo e del nazismo. Il patriottismo dei nostri giorni è una dura lotta per il libero e felice avvenire del proprio popolo. Numerosi paesi hanno offerto, durante l’occupazione tedesca grandi esempi di eroismo civile, di nobile fierezza sia da parte degli operai, che da parte degli intellettuali e dei contadini. È naturale che i comunisti, animati da un ideale di liberazione nazionale e sociale abbiano preso il loro posto nella prime file di questo movimento patriottico. Ed è naturale che le masse popolari diano ai partiti comunisti, in Francia come in Italia, in Jugoslavia come in Romania, in Polonia come in Finlandia o in Bulgaria, un così vasto e fiducioso appoggio nella lotta per la democrazia, per la pacifica collaborazione fra i popoli, per l’indipendenza nazionale di tutti i paesi e per assicurare al popolo che lavora una vita migliore. (Da “Il patriottismo dei Comunisti” di Palmiro Togliatti, pubblicato sul mensile “Rinascita” - anno II, Luglio/Agosto, numeri 7/8 – dell’anno 1945).
Il 21 di agosto dell’anno 1964 – anno della morte di Palmiro Togliatti – avevo appena compiuto i miei indimenticabili 18 anni. La notizia di quella perdita attanagliò d’improvviso il mio spirito giovanile. Allora non si disponeva dei media di oggi, la televisione era ancora ben poca cosa. Non trovai di meglio, per marcare la mia partecipazione a quel lutto collettivo, che scrivere all’amico e “compagno” di classe Pietro Gregorace - di Guardavalle Centrale (CZ) – poiché Pietro era riconosciuto da tutti noi della classe come il “Comunista”. E Pietro non mi deluse, poiché fece seguito alla mia con una sua affettuosissima lettera. Dopo gli esami di diploma non ho più incontrato l’amico carissimo Pietro.
“Sull’Urss Togliatti piegò la testa ma in Italia scelse la via democratica”, testo della intervista di Stefano Cappellini ad Aldo Tortorella pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, martedì 20 di agosto 2024: (…): «Fu nel 1945. Mi ero spostato a fare la Resistenza a Genova ed ero diventato responsabile dell’edizione cittadina dell’Unità. A guerra finita, Togliatti fece un giro delle città per conoscere i giovani del partito. Mi chiese molti dettagli tecnici sul nostro lavoro».
Che cosa chiedeva al giornale di partito? «Voleva che fosse completo, che avesse lo sport, la cronaca, i fatti locali. Diceva: dobbiamo essere il Corriere della sera della sinistra».
Perché Togliatti divenne il Migliore, com’era soprannominato, cioè il leader indiscusso dei comunisti italiani per due decenni? «Perché aveva capacità intellettuali e culturali superiori. Quando negli anni Trenta i sovietici chiesero a Longo di assumere il ruolo di segretario, fu Longo stesso a dire: spetta a Togliatti».
Togliatti tornò in Italia a guerra in corso dopo molti anni trascorsi in Unione sovietica, compresi quelli delle purghe staliniane. «Ricordo una sua espressione inusuale e sofferta che mi colpì. A Pajetta e Amendola, che chiedevano altre spiegazioni dopo le rivelazioni di Krusciov su Stalin, disse: “Voi non sapete cos’era l’Hotel Lux”».
L’hotel dove alloggiavano quasi tutti i dirigenti dei partiti comunisti ospiti di Mosca, molti epurati o assassinati. «Un covo di spie e doppiogiochisti. Togliatti, che era un sostenitore di Bucharin, rischiò di fare la stessa fine».
Per salvare la pelle fu costretto a tacere sui crimini di Stalin che pure aveva visto con i propri occhi. «Vero, dovette piegare la testa, dopo aver detto ai sovietici: voi potete proibirci di dire quello che pensiamo, ma non potete proibirci di pensarlo».
La famosa, o famigerata, doppiezza togliattiana. «Sì, in questo caso era reale e teorizzata. Ma in Italia Togliatti non praticò la doppiezza. Fu un sincero democratico, che aveva scelto la via della democrazia progressiva anziché la dittatura del proletariato, cosa che Mosca non gli perdonava. Quando De Gasperi cacciò i comunisti dal governo, Togliatti non reagì come gli chiedevano i sovietici e una parte del Pci, perché aveva scelto di accettare le regole della democrazia».
Però non ruppe mai con l’Urss. «Faceva parte di una generazione che aveva visto nell’Urss la realizzazione della rivoluzione socialista. Ma arrivò a dire su Nuovi argomenti che il problema delle degenerazioni staliniane non poteva riguardare un uomo solo ma un difetto del sistema».
Nel 1956 il Pci di Togliatti difese l’invasione sovietica dell’Ungheria. «Ero in Polonia per il giornale quando scoppiò la rivolta ungherese. Mi fu chiesto di spostarmi a Budapest e parlare con i dirigenti. C’erano ancora i morti per strada. Gli ultimi a resistere erano stati gli operai. La linea del Pci era che non si trattasse di una vera insurrezione popolare. Io telefonai a Roma e rinunciai all’incarico. Non c’era da parlare con quei dirigenti. Era stata una rivolta popolare».
(…). Com’era Togliatti in privato? «Un uomo molto affettuoso con i suoi cari. Una estate lo raggiunsi in villeggiatura in Valtellina, su quello che i locali chiamano il Monte Disgrazia. C’era già la Iotti con lui».
Un caso che creò scandalo nel Pci. Togliatti lasciò la moglie Rita Montagnana, militante, per mettersi con la futura presidente della Camera, molto più giovane di lui. «C’era una componente bigotta nel Pci. Vabbè, magari bigotta non lo scriva. Va tenuto in conto che alle origini il Pci non era un partito per la classe operaia bensì della classe operaia. E tra gli operai vi erano forme di ostilità per quelli che erano considerati costumi borghesi».
Si poteva dissentire nel Pci? «Eccome. Lo stesso Togliatti fu molto osteggiato, all’inizio e non solo. Nella Direzione del partito si svolgevano confronti assai espliciti che poi spesso, ma non sempre, venivano diplomatizzati in Comitato centrale. Era il centralismo democratico, che oggi alcuni rivalutano».
Il suo partito ideale funzionerebbe ancora così? «Non ho più l’età per accettare una disciplina di partito, ma un partito senza forme di disciplina interna, che razza di partito è?».
Differenze tra Togliatti e Berlinguer? «Berlinguer seguì con capacità la stessa linea interna fino al compromesso storico. Ma non sui rapporti internazionali. La sua rottura con l’Urss fu reale, tanto che in Bulgaria fu vittima di un attentato».
Chi rappresenta oggi gli interessi dei più deboli? «Vi è una debolezza grave. Come disse qualche anno fa Warren Buffett: certo che la lotta di classe esiste, solo che l’abbiamo vinta noi. In questo capitalismo selvaggio, incarnato da personaggi come Elon Musk, alcuni poteri economici non hanno argini».
La soluzione non è il comunismo. «Ancora fino all’epoca di Blair nello Statuto del Labour c’era come finalità la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e scambio. La ricetta era economicista e trascurava la complessità della vita individuale e sociale, ma non penso che non abbia ancora delle ragioni».
Per Meloni il comunismo va equiparato agli altri totalitarismi. «L’Urss fu certamente un regime tirannico, ma questa resta una sciocchezza. I principi che ispirarono il movimento socialista sono libertari, alla base del fascismo c’è la dottrina del capo, che non a caso fa capolino anche dalla cosiddetta riforma del premierato».
Meloni e il fascismo, la sua idea? «Fa una fatica bestiale a prendere le distanze, mi pare ferma alla lezione di Almirante: non rinnegare e non restaurare».
E la sua lezione sul comunismo? «Il comunismo non è un orizzonte, è un punto di vista».
Nessun commento:
Posta un commento