“Così l’ecologia è solo un lusso per benestanti”, intervista di Serenella Iovino al professor Rob Nixon – nato in Sud Africa, docente presso l’Università americana di Princeton: (…). Professor Nixon, che cos’è la giustizia ambientale? «I suoi pilastri sono tre: protezione dai rischi e dai danni ambientali uguale per tutti, possibilità di accedere alle risorse e ai beni comuni e il diritto di esprimere queste istanze».
Ci fa degli esempi? «È provato che spesso le comunità più esposte ai rischi ambientali sono quelle più povere. È successo negli Usa con le discariche tossiche di Love Canal o in India con il disastro di Bhopal. Allo stesso modo, il fruire di acqua e aria pulite, l’accesso a terre comuni o anche a luoghi naturali dove trascorrere tempo libero – così importanti per l’equilibrio psicofisico – sono spesso un privilegio. In America l’esperienza dei “Great Outdoors”, i grandi spazi aperti, è prevalentemente bianca. È come se gli afroamericani o gli ispanici fossero “per natura” radicati in spazi urbani».
Insomma, l’ecologia è una questione etnica e di classe. E se l’ambiente è un lusso, anche l’ambientalismo rischia di essere un discorso elitario. «Sì. Bisogna reintegrare le voci dal basso. Quando si parla di difensori dell’ambiente vengono in mente le grandi Ong, dal Wwf a Greenpeace, ma spesso l’ambientalismo di cui sono interpreti non tiene conto delle fratture sociali o – in contesti postcoloniali – delle culture e dei saperi di chi nelle terre che quelle organizzazioni vorrebbero proteggere ci vive da sempre».
Due ecologi politici, l’indiano Ramachandra Guha e il catalano Joan Martinez Alier, hanno parlato di ambientalismo dei poveri. Un concetto che lei riprende. «Quel termine serviva ad attirare l’attenzione sul fatto che per molto tempo l’idea dominante di ambientalismo è stata quella tradizionale americana, per cui bisognava preservare la “natura selvaggia” dalla presenza umana. Ma questo non funziona dappertutto. I popoli indigeni posseggono competenze ecologiche essenziali alla sopravvivenza degli ecosistemi in cui vivono. È sbagliato però rappresentarli come “pii custodi” della terra. Vederli invece come detentori di conoscenze ancestrali in grado di adattarsi a circostanze nuove come il riscaldamento globale, e imparare da loro, ci aiuta a immaginare strategie alternative».
È una questione di immaginazione, dunque? «L’interesse crescente per i sistemi di conoscenza indigena nasce dal fatto che nelle società industrializzate molte persone si sentono intrappolate in uno spazio immaginativo modellato su determinati standard di consumo e di emissioni, senza riguardo ai rapporti con gli altri e con il Pianeta. Ripensare la vita significa reimmaginare le nostre relazioni. Vale anche per la politica e l’ecologia. Gran parte del mio lavoro consiste nel cercare di pensare alle discipline umanistiche e alla giustizia ambientale come strumenti per mantenere viva l’immaginazione di nuovi modelli».
Anche la sua idea di violenza lenta chiama in causa l’immaginazione. «Riconoscere la violenza nella brutalità immediata è facile. Con la violenza lenta invece è più difficile, perché spesso non si vede e anzi non sembra neppure violenza. E tuttavia l’azione di sostanze chimiche che uccidono gradatamente persone ed ecosistemi esercita una forma di violenza innegabile. Pensiamo alla “Cancer Alley” in Louisiana, dove c’è una concentrazione di scarichi industriali non regolamentati che causano vittime i cui numeri sono resi meno visibili dal tempo. Anche i legami causa-effetto sono oscurati: per vederli e tracciarli bisogna immaginarseli».
Come ha inciso la sua origine sudafricana sulla scelta di dedicarsi alla giustizia ambientale? «Da bambini mio fratello e io uscivamo spesso per osservare gli uccelli. Per noi era un’esperienza accessibile. Solo dopo ho preso consapevolezza che esisteva una politica dello spazio. In Sudafrica come altrove, la politica permea l’ambiente. In seguito ho studiato lingue e letterature africane, e ho conosciuto molti studenti non bianchi. Quest’esperienza, unita alle lotte della Chiesa anglicana di Desmond Tutu, mi ha avvicinato alla politica. Ero già in America quando, nel 1995, il poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa è stato giustiziato con false accuse per il suo attivismo contro la Shell e la distruzione del Delta del Niger. È da lui che ho sentito per la prima volta la parola “ecocidio”. Saro-Wiwa è un eco-martire (…), come Chico Mendes, Berta Cáceres e altri, è una di quelle persone – indigene o emarginate per etnia o classe sociale – che si sono opposte al potere del neoliberismo a costo della vita. Per contrastare chi faceva delle loro terre delle “zone di sacrificio” hanno fatto sacrificio di sé. John Berger dice che i morti non restano dove sono sepolti. I martiri ambientali, questi eroi ordinari, lasciano in eredità una cura lenta, ma preparano la terra del futuro».
N. d. r. I testi sopra riportati sono stati pubblicati sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, lunedì 26 di agosto 2024.
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