"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 11 agosto 2024

Piccolegrandistorie. 88 Fichte: «Non è la facoltà teoretica a rendere possibile la pratica, ma viceversa è la facoltà pratica a rendere possibile la teoretica».


       Sopra. Tempio Pausania (Sassari, 2 di luglio 2024). "L'arte del sughero".

“Elogio del trasloco”, testo di Massimo Giannini pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 20 di luglio 2024: (…). Cambiare casa. Accomiatarsi dai luoghi di un'infanzia felice o infelice, chiudere porte dietro a un passato che si rimpiange o dal quale si vuole fuggire. Svuotare stanze, mobili, armadi, librerie. Riempire scatoloni, stiparli di oggetti ognuno dei quali è spesso una scheggia di vita vissuta, di occasioni mancate, di relazioni perdute. Deporre quadri, stampe, specchi che hanno riflesso ombre di noi stessi che solo noi stessi abbiano saputo vedere e abbiamo voluto nascondere. Ritrovare foto che avevamo dimenticato, immagini che custodiscono tra i contorni ormai un po' sbiaditi i frammenti residui di qualche gioia lontana, un evento, un amico, oppure di qualche struggimento, un rimorso, un senso di colpa. Un'immane fatica, per l'anima più che per il corpo. E pare che sia da sempre così. C'è una letteratura vastissima, sul trasloco. Anche scientifica. In un vecchio saggio del 1956, The stress o/ life, pubblicato negli Stati Uniti da McGraw Hill, il medico austro-canadese Hans Selye scrive che il trasloco è "la terza causa di stress psicologico tra i life event traumatici per una persona". Pare che produca "indebolimento psicofisico e disorientamento esistenziale". Chissenefrega, direte, non senza qualche ragione. Il fatto è che - dovendo ristrutturare la casa in cui abito con mia moglie - mi trovo immerso nel gorgo del quarto trasloco della mia vita. E smentendo i dotti e i sapienti che lo hanno descritto come l'inferno, io voglio tessere l'elogio del trasloco. Voglio sottolineare la sua funzione catartica, nell'era in cui a destra e a manca (ma soprattutto a destra) si rivendicano sangue e suolo, e si spaccia l'urgenza di ripiantare radici. Voglio esaltare il suo valore liberatorio e ricostituente. Ha molto a che fare con la salute sentimentale e morale. Con quell'idea del "lasciar andare (…). Con quell'improvviso e imprevisto sollievo che si prova quando, a prezzo di qualche rinuncia, ci accorgiamo di aver fatto ancora un passo più là, più leggeri e più liberi, verso l'essenziale e l'essenza, che talvolta coincidono. Sappiate che mi costa, perché sono quel tipo che tende a conservare tutto, a non buttare via niente, perché sono sicuro che prima o poi quello che riponi nel cassetto diversamente ordinato della tua scrivania (un vecchio portachiavi o una pendrive usata, un palloncino da Subbuteo o una stupida molla d'acciaio) tornerà utile. Però l'ho fatto. Nelle necessarie operazioni di sgombero, che immaginavo dolorose, ho scoperto un conforto e un ristoro. Ho rottamato, ma soprattutto regalato, quantità impensabili di oggetti, soprammobili, suppellettili varie, dalle quali mai e poi mai avrei pensato di potermi un giorno separare. Ho rivenduto, ma soprattutto donato, scatoloni di magliette e maglioni, scarpe e scarponi, che mi avevano accompagnato in gioventù ed ero certo mi avrebbero accudito in vecchiaia. E ogni volta che finivo la cernita, non so perché, stavo sorprendentemente meglio. La cosa mi ha stupito moltissimo perché ricordo sempre quella frase folgorante di Colazione da Tiffany: "Non può continuare così per sempre, a non sapere che cos'è tuo finché non lo butti via". Era forse quella paura, che mi spingeva a conservare tutto, anche se ora so che Truman Capote scriveva di persone, più che di oggetti. Ma insomma, una sana economia delle cose mi ha giovato. Ho questa folle illusione, alla fine del trasloco: possedere meno, molto meno, ha fatto di me (e può fare di ciascuno di noi) una persona migliore. E poi un'altra certezza mi conforta: ovunque ci si sposti, ovunque si traslochi, alla fine vale quello che Isaiah Berlin racconta di Novalis che, a chi gli chiedeva quale fosse il senso della sua arte e la meta a cui mirava, rispondeva: "Io sto sempre andando a casa, sempre alla casa di mio padre".

“Elogio del fare”, testo di Umberto Galimberti pubblicato sullo stesso numero editoriale del settimanale “d” del 23 di luglio dell’anno 2022: C’è sempre la tendenza di indagare profondamente se stessi per capire che cosa potremmo essere capaci di fare. E durante questa ispezione interiore, che può durare anni, non si fa niente. E allora con uno sguardo malinconico ci si comincia chiedere che senso ha la vita, e soprattutto la propria. La vita non ha altro senso al di fuori di quello che abbiamo costruito con le nostre azioni. Quindi bisogna agire. L'azione inaugura un mondo che è a disposizione di tutti, ma che solo la nostra azione è capace di tradurre nel "nostro" mondo. E noi altro non siamo che il "riflesso" del mondo che la nostra azione ha generato. La "riflessione" è questo riflesso, e quindi non deve precedere l'azione perché, se non vuol essere un triste e vuoto ripiegamento (ri-flessione) su stessi, deve avere davanti a sé il mondo creato dalla nostra azione, da cui ripartire per nuove creazioni, L'azione quindi deve venir prima della riflessione, perché altrimenti la riflessione non ha nulla su cui riflettere. Quando il bambino di due o tre mesi si produce in una serie di balbettii privi di significato sta costruendo delle capacità fonetiche che gli consentiranno in seguito di dare un significato al suo mondo. Solo muovendo le mani senza una vera e propria direzione, il bambino impara a impadronirsi del mondo circostante. Non quindi l'intelligenza e la comprensione del mondo e poi l'azione, ma prima l'azione senza di cui il bambino non avrebbe un mondo, perché con le mani non avrebbe toccato i contorni delle cose, le differenze di grandezza, e con la motilità del suo sguardo, che non sembra rivolto a nulla di preciso, prende contatto con le figure, le scale dei colori, le ombre, in una parola conosce il mondo grazie alla sua azione. Se la filosofia (…) fa star male è forse perché (è) intesa come pura riflessione, trascurando gli avvertimenti di Goethe e di Novalis, per i quali "L'azione è la vera e propria realtà. Ciò che noi siamo, lo siamo mediante l'azione", per non parlare di Fichte che scrive: "Non è la facoltà teoretica a rendere possibile la pratica, ma viceversa è la facoltà pratica a rendere possibile la teoretica". Qui emerge evidente la differenza tra l'animale e l'uomo, che non è solo nel possesso o meno dell'anima, o come oggi si dice della mente, ma è soprattutto nel fatto che, a differenza dell'uomo, gli animali non "agiscono" perché, condizionati come sono dal loro apparato istintuale, si limitano a "re-agire" a quegli stimoli ambientali correlati al loro istinto. Per questo gli animali vivono secondo "natura", mentre l'uomo vive secondo cultura", che altro non è se non la natura modificata dalla sua azione. (…). …vivere a partire dalle (…) azioni che creano un mondo su cui (si) può esercitare la riflessione che, a questo punto diventa d'aiuto per nuove azioni che (…) porteranno alla creazione di nuovi mondi. È in questa ininterrotta creazione, e non altrove, e tantomeno nella riflessione che, antecedendo l'azione si ripiega su sé stessa, (si) troverà il senso della (…) vita.

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