Sopra. Tempio Pausania (Sassari, 2 di luglio 2024). "L'arte del sughero".
“Elogio del
trasloco”, testo di Massimo Giannini pubblicato sul settimanale “d” del
quotidiano “la Repubblica” del 20 di luglio 2024: (…). Cambiare casa. Accomiatarsi dai
luoghi di un'infanzia felice o infelice, chiudere porte dietro a un passato che
si rimpiange o dal quale si vuole fuggire. Svuotare stanze, mobili, armadi,
librerie. Riempire scatoloni, stiparli di oggetti ognuno dei quali è spesso una
scheggia di vita vissuta, di occasioni mancate, di relazioni perdute. Deporre
quadri, stampe, specchi che hanno riflesso ombre di noi stessi che solo noi
stessi abbiano saputo vedere e abbiamo voluto nascondere. Ritrovare foto che
avevamo dimenticato, immagini che custodiscono tra i contorni ormai un po'
sbiaditi i frammenti residui di qualche gioia lontana, un evento, un amico,
oppure di qualche struggimento, un rimorso, un senso di colpa. Un'immane
fatica, per l'anima più che per il corpo. E pare che sia da sempre così. C'è
una letteratura vastissima, sul trasloco. Anche scientifica. In un vecchio
saggio del 1956, The stress o/ life, pubblicato negli Stati Uniti da McGraw
Hill, il medico austro-canadese Hans Selye scrive che il trasloco è "la
terza causa di stress psicologico tra i life event traumatici per una
persona". Pare che produca "indebolimento psicofisico e
disorientamento esistenziale". Chissenefrega, direte, non senza qualche
ragione. Il fatto è che - dovendo ristrutturare la casa in cui abito con mia
moglie - mi trovo immerso nel gorgo del quarto trasloco della mia vita. E
smentendo i dotti e i sapienti che lo hanno descritto come l'inferno, io voglio
tessere l'elogio del trasloco. Voglio sottolineare la sua funzione catartica,
nell'era in cui a destra e a manca (ma soprattutto a destra) si rivendicano
sangue e suolo, e si spaccia l'urgenza di ripiantare radici. Voglio esaltare il
suo valore liberatorio e ricostituente. Ha molto a che fare con la salute
sentimentale e morale. Con quell'idea del "lasciar andare (…). Con
quell'improvviso e imprevisto sollievo che si prova quando, a prezzo di qualche
rinuncia, ci accorgiamo di aver fatto ancora un passo più là, più leggeri e più
liberi, verso l'essenziale e l'essenza, che talvolta coincidono. Sappiate che
mi costa, perché sono quel tipo che tende a conservare tutto, a non buttare via
niente, perché sono sicuro che prima o poi quello che riponi nel cassetto
diversamente ordinato della tua scrivania (un vecchio portachiavi o una pendrive
usata, un palloncino da Subbuteo o una stupida molla d'acciaio) tornerà utile. Però
l'ho fatto. Nelle necessarie operazioni di sgombero, che immaginavo dolorose,
ho scoperto un conforto e un ristoro. Ho rottamato, ma soprattutto regalato,
quantità impensabili di oggetti, soprammobili, suppellettili varie, dalle quali
mai e poi mai avrei pensato di potermi un giorno separare. Ho rivenduto, ma
soprattutto donato, scatoloni di magliette e maglioni, scarpe e scarponi, che
mi avevano accompagnato in gioventù ed ero certo mi avrebbero accudito in
vecchiaia. E ogni volta che finivo la cernita, non so perché, stavo sorprendentemente
meglio. La cosa mi ha stupito moltissimo perché ricordo sempre quella frase
folgorante di Colazione da Tiffany: "Non può continuare così per sempre, a
non sapere che cos'è tuo finché non lo butti via". Era forse quella paura,
che mi spingeva a conservare tutto, anche se ora so che Truman Capote scriveva
di persone, più che di oggetti. Ma insomma, una sana economia delle cose mi ha
giovato. Ho questa folle illusione, alla fine del trasloco: possedere meno,
molto meno, ha fatto di me (e può fare di ciascuno di noi) una persona
migliore. E poi un'altra certezza mi conforta: ovunque ci si sposti, ovunque si
traslochi, alla fine vale quello che Isaiah Berlin racconta di Novalis che, a
chi gli chiedeva quale fosse il senso della sua arte e la meta a cui mirava,
rispondeva: "Io sto sempre andando a casa, sempre alla casa di mio
padre".
“Elogio del
fare”, testo di Umberto Galimberti pubblicato sullo stesso numero
editoriale del settimanale “d” del 23 di luglio dell’anno 2022: C’è sempre
la tendenza di indagare profondamente se stessi per capire che cosa potremmo essere
capaci di fare. E durante questa ispezione interiore, che può durare anni, non
si fa niente. E allora con uno sguardo malinconico ci si comincia chiedere che
senso ha la vita, e soprattutto la propria. La vita non ha altro senso al di
fuori di quello che abbiamo costruito con le nostre azioni. Quindi bisogna
agire. L'azione inaugura un mondo che è a disposizione di tutti, ma che solo la
nostra azione è capace di tradurre nel "nostro" mondo. E noi altro
non siamo che il "riflesso" del mondo che la nostra azione ha generato.
La "riflessione" è questo riflesso, e quindi non deve precedere
l'azione perché, se non vuol essere un triste e vuoto ripiegamento
(ri-flessione) su stessi, deve avere davanti a sé il mondo creato dalla nostra
azione, da cui ripartire per nuove creazioni, L'azione quindi deve venir prima
della riflessione, perché altrimenti la riflessione non ha nulla su cui
riflettere. Quando il bambino di due o tre mesi si produce in una serie di
balbettii privi di significato sta costruendo delle capacità fonetiche che gli
consentiranno in seguito di dare un significato al suo mondo. Solo muovendo le
mani senza una vera e propria direzione, il bambino impara a impadronirsi del
mondo circostante. Non quindi l'intelligenza e la comprensione del mondo e poi
l'azione, ma prima l'azione senza di cui il bambino non avrebbe un mondo,
perché con le mani non avrebbe toccato i contorni delle cose, le differenze di
grandezza, e con la motilità del suo sguardo, che non sembra rivolto a nulla di
preciso, prende contatto con le figure, le scale dei colori, le ombre, in una
parola conosce il mondo grazie alla sua azione. Se la filosofia (…) fa star
male è forse perché (è) intesa come pura riflessione, trascurando
gli avvertimenti di Goethe e di Novalis, per i quali "L'azione è la vera e
propria realtà. Ciò che noi siamo, lo siamo mediante l'azione", per non
parlare di Fichte che scrive: "Non è la facoltà teoretica a rendere
possibile la pratica, ma viceversa è la facoltà pratica a rendere possibile la
teoretica". Qui emerge evidente la differenza tra l'animale e l'uomo, che
non è solo nel possesso o meno dell'anima, o come oggi si dice della mente, ma
è soprattutto nel fatto che, a differenza dell'uomo, gli animali non
"agiscono" perché, condizionati come sono dal loro apparato
istintuale, si limitano a "re-agire" a quegli stimoli ambientali
correlati al loro istinto. Per questo gli animali vivono secondo
"natura", mentre l'uomo vive secondo cultura", che altro non è
se non la natura modificata dalla sua azione. (…). …vivere a partire dalle (…) azioni
che creano un mondo su cui (si) può esercitare la riflessione che, a questo
punto diventa d'aiuto per nuove azioni che (…) porteranno alla creazione di nuovi
mondi. È in questa ininterrotta creazione, e non altrove, e tantomeno nella
riflessione che, antecedendo l'azione si ripiega su sé stessa, (si) troverà
il senso della (…) vita.
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