“Guerra totale. Fino a che punto siamo disposti a tollerare ancora la barbarie?”, testo di Alessandro Robecchi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 7 di agosto 2024: (…). …dallo scenario mediorientale ci arrivano segnali ogni giorno: una guerra di sterminio contro un’intera popolazione, i palestinesi, lentamente inserita in un contesto di guerra allargata e totale, una tendenza all’abitudine sui massacri quotidiani ad opera di un esercito che le grandi “democrazie” del mondo occidentale sostengono, appoggiano e spesso finanziano. Due scuole piene di civili, 50 morti, donne e bambini, e vabbé. Il campo profughi, donne e bambini, e ok. La zona indicata come “sicura” e “umanitaria” bombardata, donne e bambini, e via. La fossa comune, gli operatori umanitari uccisi, i giornalisti (oltre 160) eliminati perché non raccontino. Uno stillicidio quotidiano che bisogna quasi sempre cercare nelle ultime righe degli articoli, in piccoli e nascosti incisi, messi lì come senza parere. Ci distraiamo pensando che no, non si può nuotare nella Senna, oppure che la pugile algerina, oppure che… e intanto ogni giorno un mattoncino si aggiunge alla costruzione del tempio dell’indicibile, dell’inumano. Un mattoncino notevole, ripugnante, l’ha portato l’altro ieri il ministro delle finanze di Israele, Bezalel Smotrich, che considera “giustificato e morale” (sì, “morale”) bloccare gli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza che causerebbe la morte per carestia, fame e sete di un paio di milioni di persone. Si tratta in pratica dell’aperta teorizzazione di una “soluzione finale” per la striscia di Gaza. Teorizzazione non nuova, perché già parecchi ministri israeliani hanno definito “non umani” i palestinesi, con una de-umanizzazione del nemico che non si vedeva dai tempi di Aushwitz. Il ministro del governo Netanyahu si duole del fatto che qualcuno protesterebbe, il mondo glielo impedirebbe, insomma, dice lui. Cosa tutta da vedere, dico io dopo certi precedenti. “Nessuno ci lascerà causare la morte di fame di due milioni di civili, anche se potrebbe essere giustificato e morale”. Testuali parole riportate tra virgolette in piccoli trafiletti, e non come una cosa enorme, spaventosa, degna delle pagine più orrende e deliranti del Novecento. Il problema, dunque, è certamente una comunità internazionale (nome elegante per dire i complici) che non sa porre un limite e un freno alla barbarie, la tollera, finge di spazientirsi e poi manda miliardi di dollari ai massacratori di un popolo. Ma il problema – lo so, suona male, suona retorico – è un po’ anche nostro, che assistiamo impotenti, distratti, un po’ stufi… uff, ancora! Dopo quasi un anno? Su, parliamo d’altro… Da cittadini, dunque, da persone, cosa possiamo fare? Forse dirlo, continuare a dirlo, sì, certo. Ma anche chiedere alla politica di dire, di fare. Il ministro degli esteri italiano dirà qualcosa sui deliri nazisti di Smotrich? (spoiler: no). E i partiti di opposizione? Elly? Giuseppe? Cosa temono? Cosa aspettano per spostare un po’ l’asse della barbarie, per attenuarlo, per far notare che è intollerabile? Non li sentiamo, non li vediamo, non alzano la voce, non chiedono, non picchiano i pugni sul tavolo, non si spaventano, non si mobilitano, abbozzano, accettano, in definitiva si arrendono alla marea montante dell’inumano, si adeguano, si voltano dall’altra parte. È a loro – più che al nazista Smotrich – che dobbiamo chiedere conto.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 9 agosto 2024
Lavitadeglialtri. 34 Alessandro Robecchi: «Assistiamo impotenti, distratti, un po’ stufi… uff, ancora! Dopo quasi un anno? Su, parliamo d’altro…».
“QuelMondodiTaharBenJelloun”. (…). La polvere è piena di
microbi che provocano il tracoma, una malattia degli occhi contagiosa. lo sono
stato curato in città e grazie a mio zio, taxista, ho avuto la possibilità di
studiare. Ma sono stato fortunato, io, molto fortunato. Ho avuto anche la
benedizione dei miei genitori. Il giorno in cui sono partito, mia madre ha
bruciato dell'incenso e io ho dovuto scavalcare sette volte il piccolo braciere
in cui le braci rosse lo consumavano. Il braciere non profumava affatto. lo mi
chiudevo il naso e facevo ciò che mia madre mi diceva di fare. Non credevo a
questi riti, ma obbedivo a mia madre per non contrariarla e non farla soffrire.
In città, sono stato a casa di mio zio. Sua moglie non era per niente contenta.
Mi chiamava "prrouci" (sottolineando le "r"). Bisogna che
vi spieghi: "prrouci" significa "processo", è la multa che
il taxi paga quando fa un'infrazione. lo, quindi, ero una contravvenzione,
qualcosa che le era imposto. Non è carino essere paragonato a una multa. Ma non
dicevo nulla. Mia madre mi aveva avvertito: non protestare, non rispondere alla
moglie di tuo zio. Andavo al liceo, seguivo le lezioni e la sera lavoravo come
cameriere in un caffè. Mangiavo gli avanzi dei sandwich che i clienti
lasciavano sul tavolo. I giorni festivi, avevo diritto a un pasto vero e
proprio: purè di fave, una ciotola di riso e un bicchiere di limonata. Il
venerdì accompagnavo mio zio all"'hammam". Mi piacevano le gocce
d'acqua che imperlavano i muri, come quelle che cadevano dal soffitto. Mi
piacevano il vapore e le grida degli uomini che si facevano spingere dentro da
veri e propri colossi. Al villaggio, non avevamo un "hammam" così
grande. Mi lavavo vicino al pozzo con un secchio d' acqua. Non di più. Avevo
diritto solo una volta alla settimana alla mia razione di acqua. In città,
l'acqua arriva in tutte le case. Ma le persone dimenticano che è un dono del
cielo. La sprecano. lo, invece, so che l'acqua è vita. La gente in città crede
che il denaro sia la vita. Come è possibile farle capire che ha torto? Forse le
persone non ne vogliono sapere di questo tipo di cose. Mio nonno diceva:
"Solo colui che riceve un colpo di frusta sa il male che fa." Dopo il
liceo, mio zio mi ha iscritto a una scuola magistrale. Lì mi veniva dato vitto
e alloggio, e alla fine del mese anche uno stipendio. Mettevo da parte quasi
tutto il denaro. Lo davo a mia madre ogni volta che tornavo al paese. Lei ci comprava
delle stoffe per farci i vestiti. Il venditore di stoffe passa in paese una
volta al mese. Le donne l'aspettano con impazienza. Mia madre era fiera di
poterlo pagare con dei soldi. Di solito, le donne lo pagano con i loro
gioielli. Dopo tre anni, ero pronto per fare l'insegnante. Mi sono comprato un
vestito europeo e delle scarpe che facevano male e, soprattutto, ho potuto
cambiare i miei occhiali. Ora sono il nuovo maestro. In realtà, devo essere il
primo insegnante nominato dal ministero per questo posto. Ho una lettera di
incarico, ma non so ancora quale sarà il mio stipendio. Forse sarò pagato in
sacchi di grano saraceno. Come in ogni posto del mondo, il primo giorno di
scuola è un giorno di festa. Qui, non è una festa come le altre. I ragazzi
fanno baccano, urlano, si tirano i gessi. Si divertono. Per loro la scuola è
una ricreazione, una curiosità. Accorrono per vedere se il maestro è in gamba.
Io stesso mi chiedo se sono in gamba. Cosa vuol dire, qui? Essere gentile e al
tempo stesso severo. E io non sono né troppo gentile né troppo severo. È
possibile essere in gamba nel villaggio del nulla, dove non è stato sepolto un
solo santo, dove non si è fermato nemmeno un profeta? Devo abituarmi all'idea
che, per questi bambini, la scuola è come il circo che passa una volta
all'anno. Che cos'è la scuola per un bambino che non ha da mangiare quando ha
fame? Come spiegargli che è necessario passare per la scuola per non patire più
la fame, un giorno? Ho distribuito agli allievi dei quaderni e delle matite
arrivate dalla Francia, e delle cartelle arrivate dal Belgio. Sono trenta
ragazzi, tra maschi e femmine. Vengono tutti dalla scuola coranica. Certi sanno
già leggere e scrivere. Hanno gli occhi vivi e i corpi magri. Come me. Anche io
sono alto e magro. Sono contento di portare i miei nuovi occhiali. Non solo
vedo meglio, ma questi occhiali rendono più chiare le mie idee. Sono contento
di tornare in questa pianura persa fra le colline e la sabbia. I ragazzi sono
seduti per terra. Mi hanno detto che i tavoli e le sedie arriveranno entro il
mese. Saranno un regalo dei canadesi. Per il momento, ci dobbiamo arrangiare
alla meglio. E la lavagna? Sarà il regalo del falegname più ricco della città.
La stiamo aspettando. Da sola, non arriverà. Bisogna andarla a prendere e trasportarla
sul tetto del furgoncino del droghiere che viene ogni quindici giorni al
villaggio. (Tratto da “La scuola
o la scarpa” di Tahar Ben Jelloun, Bompiani editore, 2000).
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