“Cosa direbbe Gobetti sull’eterno fascismo”, testo di Angelo D’Orsi - già professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” presso l'Università di Torino – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 25 di agosto 2024: (…). Gobetti attribuisce al fascismo i tratti dell’anti-italianità: un’Italia negativa, che sopravviveva pigramente nell’indifferenza e nell’apatia, nella quale ciascuno era attento solo al suo “particolare”, pronto ad assistere a qualsiasi infamia senza alzare un dito, come stava accadendo con l’avanzata irresistibile delle camicie nere, ai danni dell’Italia vera, buona e onesta, pronta alla lotta fino al sacrificio. Il fascismo, scrive il giovane Piero, “ha raccolto tutti gli ‘sbandati’, i reduci della canagliesca esperienza futurista, gli esasperati di una biliosa impotenza, gli esuberanti dell’ottimismo”. Il duce è il “capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore”. Dopo il “discorso del bivacco” del 16 novembre 1922 (insediamento del primo governo fascista), Gobetti commenta: “La nostra è un’antitesi di stile, che non sente neppure il bisogno di discutere il discorso di Mussolini.” Il fascismo gode del silenzio vile della maggioranza, della inerzia complice di troppi. A costoro occorre dare una lezione, e sarà proprio Mussolini a impartirla. Il “popolo ineducato” che “non ha il senso della libertà” imparerà da Mussolini “che cosa sia la tirannide”. E Gobetti si augura che il fascismo duri almeno “cinque anni”, senza indossare “nessuna maschera democratica”: al fascismo, annuncia, faremo opposizione “intransigente”: le nostre, spiega, “sono antitesi integrali”. Un discorso che in un certo senso Indro Montanelli avrebbe ripreso quando si augurò, paradossalmente, che Berlusconi durasse 5 o 10 anni (ne durò 20, ahinoi), proprio come “cura” dal berlusconismo. Nell’articolo Elogio della ghigliottina, il ventunenne Piero precisa: “il nostro antifascismo non è l’adesione a un’ideologia, ma qualcosa di più ampio, così connaturale con noi che potremmo dirlo fisiologicamente innato”; ha un carattere sacrale, e si fonda su un unico valore, ma “incrollabile”: l’intransigenza; “e noi ne saremmo per un certo senso i disperati sacerdoti”. Il fascismo “è una catastrofe”, ma “è stato qualcosa di più”, è stato “l’autobiografia della nazione”. Esalta il sacrificio, fino a rimpiangere le “persecuzioni personali”, quelle che aveva già subito e che continuerà a subire fino all’addio all’Italia, all’inizio del 1926, con la morte a Parigi pochi giorni dopo. Ed ecco l’elogio della ghigliottina: “E bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina (…): chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro”. Il culmine del paradosso è a portata di penna, e arriva con l’elogio di Farinacci, un nome simbolo della rozzezza e della violenza fascista. “Questi sani analfabeti che scrivono gli articoli sgrammaticati, ma sanno tenere la spada e il bastone in mano” sono gli ultimi interpreti della sempiterna storia italiana, storia di frodatori del fisco, di indifferenti e di inerti, uomini e donne privi di senso civico, portatori di tutte le malattie nazionali, compresa quella insopportabile della retorica del gesto. I fascisti sono gli eredi degli italiani alla Don Abbondio, pronti a servire il potente di turno e a saltare sul suo cocchio. Gobetti, che provocatoriamente aveva invocato la ghigliottina, dovette accontentarsi del manganello mentre assisteva alla vittoria dell’“altra Italia”, il prevalere dell’“antitesi”, il trionfo della cialtroneria sulla serietà, del principio gerarchico su quello egualitario, la sconfitta inconsapevole ma in parte complice delle classi popolari davanti alle classi borghesi. Ebbene, caro Gobetti, oggi possiamo affermare che il fascismo non è l’autobiografia della nazione, ma la sopraffazione della nazione da parte dell’anti-nazione; a dispetto del loro sguaiato nazionalismo, i fascisti furono e sono l’anti-nazione, pronti anche a piegarsi non solo ai padroni interni, ma a quelli stranieri, contrari a quelli italiani. L’altra Italia, insomma, sono loro. L’Italia vera non è quella fascista: l’Italia che lavora, che studia e produce, produce idee prima che merci, valore piuttosto che profitto, l’Italia che ha degli ideali e lotta per la verità contro i poteri occulti, l’Italia che vuole i diritti contro i privilegi, la giustizia sociale contro il parassitismo, l’Italia che non si accontenta di sopravvivere, sempre più stancamente, ma intende e pretende vivere. E vivere significa lottare ogni giorno per la verità, l’uguaglianza e la libertà. Sono due Italie, inconciliabili. Smettiamola perciò di chiedere a chi è fascista (nell’anima, prima che nel bagaglio ideologico), di dichiararsi antifascista. Non lo sono, non possono esserlo. E dunque, se vogliamo usare la formula gobettiana, possiamo affermare che il fascismo è sì, l’autobiografia della nazione, ma la loro, non la nostra.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 31 agosto 2024
Lamemoriadeigiornipassati. 99 Filippo Ceccarelli: «Il colonnello in pensione finto SS porge un cameratesco saluto al vero manichino: a noi!».
Si vorrebbe ogni tanto uscire dallo schema "Al
lupo! Al lupo!", ma prima forse occorre
riconoscere che ci si era un po' scordati di certe inesorabili derive della destra,
per non dire autenticamente fascista, ora buffe e ora tetre, ma soprattutto
grottesche. La scorsa settimana la magistratura ha sequestrato l'uniforme da SS
con cui un colonnello in pensione ha pensato bene di affacciarsi dalla sua
pagina Facebook minacciando «Sinistrorsi vi aspetto», autoscatto (poi
cancellato) al quale il tenutario di questa cervellotica rubrichetta ha
ritenuto di affiancare una foto in cui un manichino dall'aria non troppo
sveglia indossa una divisa, sempre nazi, ma più in ghingheri, in vendita sulla
rete, purtroppo senza indicazione di prezzo. Ora, passati diversi giorni,
stracciarsi le vesti lascia il tempo che trova; mentre magari l'osservazione
degli squilibrati può perfino aprire spiragli nel subconscio di una comunità. Per
cui, scontata l'esistenza di una certa quota di bizzarri fascistoni,
l'ambizione sarebbe di capire - parola impegnativa! - se a distanza ormai di
quasi un secolo il persistere di quelle uniformi, così come di busti e
calendari del duce, e saluti romani, faccette nere, emblemi della Decima Mas, e
poi ancora medagliette, distintivi, teschi, fibbie, gagliardetti e altri
articoli da bancarella sia da comprendere fra gli effetti collaterali del
governo di destradestra. O se invece, o anche, o per le vie traverse
dell'immaginario l'intensificarsi di questo culto per la paccottiglia della
nostalgia non sia nel frattempo mutato di senso e di segno; per cui l'urgenza
di provocare e scandalizzare ostentando cimeli o mostrandosi vestiti da cattivi
potrebbe addirittura collegarsi alle giulive compromissioni dei Fratelli
d'Italia con lo stile Billionaire-Santanché, i costosi relais in Puglia, la
sbornia esterofila di Tolkien, la prosopopea dei ministri cognati e dei pavoni
buoni solo a sistemare amici e fidanzate alla Rai. Di qui l'ipotesi che la
schietta necrofilia neofascista di un tempo, le radici mitologiche e
sepolcrali, l'adorazione dei fantasmi, lo stesso fuoco fatuo che ancora
campeggia nel simbolo di Fdi si stiano riconvertendo in un primitivismo che va
a braccetto con un evoluto e variegato merchandising: cianfrusaglie da
mercatino, uniformi da sartoria teatrale e gadget da supermercati di Predappio
ostentabili con rabbioso orgoglio nella vetrina social tipo cosplaying. A
ravvivare la secolarizzazione nera sovviene il gusto tutto italiano (e
fascista) della mascherata para bellica su cui la post-modernità ha impresso un
brivido di feticismo esibizionista quasi sessuale. Collezionista di indumenti
militari, il colonnello in pensione finto SS porge un cameratesco saluto al
vero manichino: a noi! (Tratto da “Feticisti
in maschera” di Filippo Ceccarelli, pubblicato sul settimanale “il Venerdì
di Repubblica” del 9 di agosto ultimo).
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