“L’insostenibile peso dei corpi dei bambini uccisi nella Striscia”, testo dello scrittore, poeta e saggista Tahar Ben Jelloun pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, 2 di agosto 2024: Nel fracasso dei corpi che cadono, quelli dei bambini fanno meno rumore. La guerra di Gaza sarà ricordata come la peggiore di sempre per i bambini. I bombardamenti indiscriminati dell’esercito israeliano si abbattono sulle popolazioni civili, tra cui vi sono molti bambini. (…). Il numero dei bambini uccisi o feriti non è importante. Più è grande, più diventa insignificante. Sui nostri schermi abbiamo visto passare cifre seguite da altre cifre ancora. Il 16 luglio è comparso questo numero: 38713. È difficile immaginare che dietro questi numeri c’è, c’era una vita, un’anima, una famiglia, della gioia, della speranza. No, le cifre non parlano. Tuttavia, in linea di principio una vita vale quanto un’altra. I palestinesi, però, sembrano averne soltanto una scadente. La prova è che l’esercito israeliano li uccide tutti i giorni e questo non commuove più nessuno. La punizione che Netanyahu ha inflitto a tutti i palestinesi dopo il massacro del 7 ottobre è talmente sproporzionata che non se ne vede la fine. Ha detto che «quelli di Hamas sono morti che camminano». Ma i palestinesi non sono tutti di Hamas. Le migliaia di bambini uccisi dai bombardamenti non sono terroristi. Le migliaia di feriti che resteranno disabili a vita non sanno più chi odiare in primis, Hamas che ha provocato lo Stato di Israele perpetrando crimini orrendi o l’esercito di Netanyahu che ammazza indistintamente una popolazione civile che non ha preso parte in nessun caso ai combattimenti. Gli abitanti di Gaza non sono stati protetti. Hanno il diritto di manifestare la loro collera nei confronti di Hamas e dei suoi dirigenti che vivono al sicuro in Qatar o altrove. Al momento, a Gaza le montagne di rifiuti in decomposizione sprigionano un fetore insopportabile e attirano topi, insetti e perfino serpenti. Racconta un testimone: «Dal nostro arrivo, ci sono così tanti sfollati che alcuni dormono per strada. Altri hanno dovuto sistemarsi in tende accanto a cumuli di spazzatura, in riva al mare, perché non c’era altro posto disponibile. Nei vicoli tracimano le acque nere, provengono da buchi scavati nel terreno per fungere da latrine…» (“Le Monde”, 14 luglio 2024). Questa guerra prosegue perché l’America continua a inviare armi a Israele, mentre non fa che dire, sussurrando, che «occorre un cessate-il-fuoco!». Quella che si prepara con le future generazioni palestinesi è una vendetta senza fine, che non lascerà mai vivere in pace lo Stato di Israele. Saranno i feriti di oggi, gli orfani o i genitori che hanno perso i loro figli, che prima o poi esprimeranno la loro collera nella vendetta, e il circolo vizioso infernale ricomincerà da capo. È l’odio che ha seminato Hamas. È l’odio che ha sfruttato Israele. Al Jazeera, unico organo di stampa ad avere giornalisti in loco (alcuni dei quali sono stati feriti), ha pubblicato immagini insostenibili. Il fatto che Netanyahu impedisca ai giornalisti di tutto il mondo di entrare a Gaza per fare il loro lavoro è un’ammissione di crimini premeditati. Non ci sono testimoni, e tuttavia i medici parlano non appena possono, raccontano quello che hanno visto, quello che hanno vissuto. Non va certo a onore di Israele. Tutt’altro. Eppure, gli umanisti israeliani gridano allo scandalo e ripetono che la politica di Netanyahu è suicidaria e avrà conseguenze terribili a più o meno lungo termine. Le loro voci, però, non vengono ascoltate. Questa situazione non può più durare. I Paesi arabi della regione, in particolare l’Egitto e l’Arabia Saudita, sono colpevoli di non essere intervenuti a sostegno di un popolo in pericolo. Anche loro un giorno dovranno renderne conto alle loro popolazioni. Una canzone del gruppo marocchino Nass Al Ghiwane dice: «Soltanto i bambini assassinati mi impediscono di dormire». Risale al 1970. La si canta oggi con una sensazione di impotenza e di dolore.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 2 agosto 2024
Lavitadeglialtri. 33 Tahar Ben Jelloun: «Il salvatore non sarà né un profeta né un mago. Sarà l'insieme degli uomini che si uniscono, lavorano la terra, reclamano i loro diritti e impediscono che la carestia colpisca il villaggio».
“QuelMondodiTaharBenJelloun”. “Una storia” tratta dal volume “La scuola o la scarpa” di Tahar Ben
Jelloun pubblicato nelle edizioni Bompiani (2000): Questa storia è successa in un
paese dell'Africa occidentale, in un villaggio piccolissimo a un'ora di autobus
dalla città principale. Questo paese non ha nome. Viene chiamato "il
villaggio". Io lo chiamo "il nulla", per il vuoto e il vento che
spira senza sosta, e la polvere che solleva. "Il nulla" è tondo come
una zucca. È quasi un cerchio. Alcune piccole case, senza acqua corrente né
elettricità, circondano "il grande alben,", un faggio dai molti rami
e dall'età impressionante. Che età potrà avere? Secondo Hadj Baba, il capo del
villaggio, avrebbe trecentocinquantadue anni. Ma come li conta, lui, gli anni?
È semplice, ogni ramo sta per una cinquantina di anni. Sette volte cinquanta,
fa trecentocinquanta. E gli altri due anni? Sono quelli di un ramoscello che
pende sempre verso il suolo. Secondo lui, diventerà un ramo in futuro. Sono
necessari tre uomini e un bambino che si tengano per mano per abbracciare l'albero.
Un secolo a persona. La terra è color sabbia. Quando piove - cosa che succede
raramente - diventa rossa. Le pareti della casa sono fatte con un misto di
terra argillosa, sassi e paglia. È molto meno resistente della pietra o del
calcestruzzo. In questo villaggio non ci sono pietre, ma esistono pozzi. Non ci
sono strade asfaltate, né segnali stradali. Ci sono solo le piste tracciate
dagli animali e dagli uomini. Spesso il cielo è tutto bianco. Si dice che
prepari la pioggia. Ma la pioggia non cade. Deve preparare qualcos'altro, di
fatto. Si dice anche che protegga dietro il suo velo bianco i sogni dei
bambini. Si dice che sia un libro le cui parole sono le stelle, in cui la Via
Lattea è un fiume dove scorrono tutte le musiche del mondo. Si dice che sia il cimitero
degli angeli - i bambini rapiti troppo presto dalla malattia. Il cielo li
farebbe ascendere per sorvegliare le stelle che non stanno al loro posto e che
fuggono verso altre galassie. Si dicono così tante cose sul cielo al punto che
questo finisce per farsi beffa dei suoi abitanti. Come? Svuotando il carico
delle sue nubi sulla città e dimenticando di annaffiare i campi del villaggio.
Oppure facendo la faccia scura a coloro che sperano nella sua clemenza. Il cielo non ama i poveri. Nessuno li ama. È
ingiusto, e crudele. Ma cosa significa, poi, essere poveri? Significa
risvegliarsi, il mattino, chiedendosi se la giornata passerà senza che i
bambini piangano per la fame. Significa non avere fortuna, o più precisamente
non avere nulla, neanche fave per i tempi di
siccità. Significa non avere che le proprie muni,
le proprie braccia e grandi occhi per controllare l'orizzonte. Qui,
tutti hanno gli occhi rivolti
all'orizzonte.
Si pensa che il salvatore venga da lì. Si crede
anche che le carestie siano un'invenzione degli uomini.
A cosa deve assomigliare un salvatore? A un branco
di cammelli che porti il cibo a tutto
il
villaggio? A un mago su un cavallo bianco, con una bacchetta magica
capace di rendere la terra fertile e gli uomini più produttivi? A un uccello
rapace che rinunci alla sua rapacità e sappia trasformare le nuvole in pioggia?
A un profeta che parli del Bene e del Male, del Paradiso e dell'Inferno, e
prometta la fine della miseria, a patto che si obbedisca ai suoi ordini? No, il
salvatore non sarà né un profeta né un mago. Sarà l'insieme degli uomini che si
uniscono, lavorano la terra, reclamano i loro diritti e impediscono che la
carestia colpisca il villaggio.La scuola è nella moschea. Più precisamente,
la moschea fa da scuola. Ci si entra togliendosi le scarpe. Ma qui la maggior
parte dei bambini non ha scarpe. Ha i piedi sporchi coperti di polvere. La
terra è secca. I muri sono rossi. Alcuni pellegrini, di ritorno da La Mecca, la
città in cui è nata la religione musulmana, hanno disegnato sulla moschea un
aereo o una barca. Qualcuno vi ha disegnato un dromedario. Tempo fa, si partiva
per La Mecca su un cammello. Il viaggio duravamesi. Bisognava meritare il
pellegrinaggio. Il buon musulmano è colui che non ha scelto la via più facile
per arrivare ai luoghi sacri dell'Islam. Oggi, ci si sposta soprattutto in
aereo. E, peraltro, le persone del villaggio hanno molto tempo a loro
disposizione. Potrebbero non avere fretta di arrivare a La Mecca. Il tempo,
qui, è l'unica cosa che non manca. Non è come l'acqua o i cereali, che sono
rari. Quando si torna dal pellegrinaggio, si porta il titolo di
"Hadj", che significa "Pellegrino", colui che ha avuto la
fortuna di stare in raccoglimento a Medina sulla tomba del profeta dei
musulmani, Muhammad, detto dagli europei Maometto.L'anno scorso, solo il capo e suo
nipote sono potuti andare a La Mecca. Qui, infatti, non c'è denaro. Tutto il
villaggio aveva partecipato a una colletta per pagare il viaggio di Baba e
Moha. Fu l'evento più importante della stagione. Erano incaricati di pregare perché
il villaggio fosse salvato, cioè risparmiato dalla siccità e dalla carestia. Qui
chiacchierare sotto l'albero è più importante che andare a scuola. Conosco bene
questa terra; (…).
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