"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 16 agosto 2024

Piccolegrandistorie. 91 Eraldo Affinati: «Siamo custodi del cielo. Guardiani delle stagioni. Testimoni di carità. Spiriti della fratellanza».


DalMondoAfrica”. “Grande madre Africa” di Eraldo Affinati: Madri perdute... Madri ritrovate...  Quando chiedevo alla mia come avesse fatto a fuggire dal treno della deportazione, il 2 agosto 1944, dopo la fucilazione del padre, mi rispondeva a stento perché non aveva gli strumenti per raccontarlo, innanzitutto a se stessa, prima ancora che ai figli. La lingua rende uguali, ricordava Don Lorenzo Milani esortandoci a non mettere sullo stesso piano Pierino, che prima di andare a scuola aveva già letto tanti libri, e Gianni, per il quale l'italiano era una lingua appresa, visto che in famiglia si esprimeva in dialetto. Forse per questo, se penso al viaggio della vita, mi viene in mente l'Africa, là dove la lotta per la democrazia è ancora in pieno corso e continua a presentare i medesimi costi che abbiamo già pagato noi, anche se troppo spesso lo dimentichiamo, perché l'uguaglianza delle posizioni di partenza, le garanzie sociali, l'assistenza medica, il diritto all'istruzione pubblica non sono doni caduti dal cielo, nessuno te li regala, devi conquistarli a caro prezzo come fece mio nonno, partigiano della 363 brigata Garibaldi, fucilato dai nazisti a Pievequinta il 26 luglio 1944 insieme ad altri nove cittadini italiani. Così il giorno in cui Khaliq, lo studente della Sierra Leone conosciuto fra i banchi della Città dei Ragazzi capitolina, sopravvissuto a una tremenda guerra civile, mi volle far conoscere sua madre rifugiata in Gambia, accettai d'istinto, quasi rispondendo a un imperativo categorico, un richiamo oscuro che si trascinava dietro i rottami del passato: autobiografici e universali, tra padri e figli, vecchi e nuovi Continenti, testimoni da consegnare e ricevere, ferite da sanare, lacrime da asciugare, lingue da imparare, libri da scrivere. Lo spazio eccita il tempo, proclamò Witold Gombrowicz. Il cuore di tenebra batte dentro di noi. Se t'interroghi sulle tue origini, scopri che s'intrecciano con quelle di tutti gli altri. Tocchi le radici di un individuo, vibra tutta la pianta dell'essere umano. Dalle ringhiere dei palazzi scorticati di Via Giolitti, a Roma, dove i migranti dell'Esquilino s'affacciano cercando il campo utile per parlare al cellulare, nel casamento dove sono nato, ho l'impressione di rivedere la lunga strada di polvere rossa che da Serekunda ci conduceva all'interno del più piccolo Paese africano: una sciabola nel fodero del Senegal. Il percorso sembrava non finire mai. Qualche giorno prima eravamo partiti dall'aeroporto di Fiumicino, avevamo fatto scalo a Bruxelles, poi Freetown, infine Banjul. Una Mercedes all'ultimo stadio, le sospensioni scassate, i vetri rotti, i freni consumati, che in Europa sarebbe stata buona per lo sfasciacarrozze, procedeva lenta fra buche, dossi e tronchi caduti. Ogni tanto scendevamo a riparare una gomma, sistemare il bagaglio, fare quattro passi per ritemprarci dal caldo. Gli arbusti ostruivano il percorso. Oltre lo sterrato non si vedevano costruzioni. Pareva di attraversare il deserto. Eppure a ogni so· sta comparivano persone da chissà dove: giovani e vecchi, maschi e femmine. I bianchi erano una rarità. quindi i curiosi ci fissavano estasiati. Arrivammo a Sare Gubu, come in un documentario dell'Unicef, accolti dai capi del villaggio con ogni onore. Khaliq ci presentò sua madre, riabbracciata dopo anni di assenza. Lui, scappato dal campo profughi di Conakri in Guinea, aveva attraversato il Sahara insieme a una banda di coetanei, senza più rivederla. Quando si ritrovarono, madre e figlio stentarono a riconoscersi. Da testimone così scrissi sul mio diario: "Siamo venuti per vedere lei. È una radice della natura. Il volto sembra quello di un uccellino in fondo alla grotta. Fragile solo all'apparenza. I lineamenti abituati a restare seminascosti sotto il mantello. Gli occhi come lame, spilli, punteruoli. Lava di vulcano. Scintille nello stagno. Siamo custodi del cielo. Guardiani delle stagioni. Testimoni di carità. Spiriti della fratellanza. Arcangeli in grado di conservare i ricordi della vita trascorsa. La sua mano resta nella mia qualche secondo in più del necessario. Ce la stringiamo in mezzo a tutti gli altri che ci guardano". Io e Khalifa, questo il nome della donna, ci fissavamo senza avere la possibilità di dialogare. Di nuovo, come accadeva con mia madre, la sensazione del vuoto da superare. Ho provato a scrivere le parole che, in quel momento, non riuscivano a venir fuori. Quelle che avrebbe potuto pronunciare lei e chissà forse era impegnata davvero a elaborare dentro se stessa mentre mi considerava, insieme alle altre che sentivo stavano nascendo nella mia mente, nel mio spirito, o chissà dove. Mentre ricopio le note prese allora, continuo a intrecciare la mia voce alla sua, facendo deragliare la prosa verso la poesia: "Non ti ho dimenticato. Non ci dimenticheremo. Sei stato tu a consolare mio figlio. Sei stata tu a condurlo davanti a me. Anche se non ci conoscevamo, era come se sapessimo dell'esistenza l'uno dell'altra. Eseguiamo ordini dettati da superiori inflessibili ma comprensivi. Per questo ti sei messa i gioielli migliori. Per questo hai la faccia di chi trattiene a stento il tumulto. So da dove vieni. Dalla solitudine atroce. Dalle notti con la testa sotto il cuscino. Anch'io credo di sapere chi sei. La forza degli oceani. Il vento della savana. La potenza dell'uragano". Avevo visto i ragazzini giocare a perdifiato dall'alba al tramonto inseguendo frenetici il pallone di plastica che gli avevamo regalato. Una moltitudine di scolari seduti a terra di fronte al maestro, senza quaderni, penne, senza libri, ma con un'imperiosa voglia di apprendere, che sarebbe stato sciagurato non soddisfare. Gli stessi che facevano la fila davanti alla casa di paglia in attesa delle nostre caramelle, la sera stavano riuniti intorno al vassoio per mangiare riso e pollo, poi andavano a pregare in moschea, sempre in gruppo, prima di cadere stremati dormendo all'aperto sotto le stelle. Non c'erano impianti idraulici, né acqua corrente, né luce elettrica. I più piccoli spesso tossivano, gli occhi arrossati dalla congiuntivite, non potevano essere curati non essendoci presidi sanitari; se la malattia si fosse aggravata sarebbero stati Caricati di peso sul carretto e condotti verso la capitale: ci volevano giorni per raggiungerla. I grandi Suv delle fondazioni svizzere e svedesi entravano dentro delle specie di castelli fortificati inaccessibili alla maggioranza dei bambini che stazionavano intorno come sparsi uccellini in attesa di poche molliche di pane. In quei giorni ne nacque uno a cui i nonni vollero dare il mio nome: Alì Babucar Eraldo Affinati. Bislacco risarcimento rispetto all'identità negata a mio padre, che era stato un figlio non riconosciuto. Avevo visto tutto questo e altre cose che non si possono scrivere sui giornali. Tornando a casa sarebbe stato difficile continuare a fare il professore come se niente fosse: la campanella che scandisce l'ora di lezione, il programma da spiegare, le verifiche programmate, i voti da riportare sul registro elettronico, i consigli di classe, i collegi docenti e tutto il resto. Così, insieme a mia moglie, anche lei docente, dopo il viaggio in Africa ci chiedemmo: cosa possiamo fare? Di certo non potremo salvare il mondo. Dovremo accontentarci di aiutare quelli che incrociamo, con tutte le limitazioni del caso: se ci riuscissimo, avremo avuto almeno l'illusione di piantare una bandierina sul terreno dissestato. Nel nostro piccolo decidemmo di fondare la scuola Penny Wirton, dal titolo di un romanzo per ragazzi di Silvio D'Arzo, dedicata all'insegnamento gratuito dell'italiano ai migranti: senza classi, voti, burocrazie. Se tu sei riuscito a trovare le parole, non puoi tenerle solo per te: devi distribuirle a chi non le ha. Subito dopo averlo fatto, scoprimmo che tante altre persone in Italia la pensavano come noi. E questo, ancora oggi, ci dà la forza per andare avanti.

DalMondoArgentina”. “La prima volta” di Adrian N. Bravi: La prima volta che ho oltrepassato la frontiera del mio Paese per andare in un posto straniero, con una lingua diversa dalla mia, anche se simile, è stato nell'estate australe del 1983. Avevo diciannove anni ed ero stato da poco congedato dal servizio di leva. Quell'assurda guerra contro gli inglesi, in cui gli argentini e i soldati della corona si erano contesi un arcipelago sperduto nel remoto Atlantico, era finita da poco. Da un lato ero contento di non essermi trovato in una trincea sotto le bombe, dall'altro, però, mi spezzava il cuore vedere il ritorno dei soldati che erano stati al fronte: arrivavano ragazzi mutilati, feriti, sperduti e squinternati. Erano i perdenti, quelli che non erano riusciti a sconfiggere i britannici, così li consideravano i militari che prima li avevano mandati al massacro e poi, a guerra finita, li facevano rientrare di notte, per non farli vedere dai civili. Il giorno che avevo lasciato la caserma, con il documento del congedo in mano e la certezza che potevo lasciare il Paese, avevo racimolato le mie cose ed ero partito senza un'idea precisa di quello che avrei fatto. Avevo solo una meta, un po' effimera: viaggiare e conoscere un posto nuovo, che allora avevo identificato con Florianòpolis. Arrivato in treno a Pasos de los Libres, al confine con il Brasile, e valicata la frontiera, avevo preso un altro treno in Uruguaiana, dalla parte brasiliana, per andare a Porto Alegre e da lì ero salito ancora fino a Florianòpolis. Sarei rimasto qualche giorno e poi sarei tornato indietro, così avevo detto alla mia famiglia, senonché, durante il viaggio in treno, avevo conosciuto César, che abitava in un paesino nella pianura di Santa Fe. Faceva l'orologiaio e stava andando a trovare degli zii a Salvador de Bahia: «Se ti va puoi raggiungermi lassù», mi aveva detto mentre saliva su un autobus a Porto Allegre. Io avevo preferito andare prima a Florianòpolis, come avevo progettato. Mi ricordo che in una spiaggia di quell'isola, l'Ilha da Magia, come la chiamano in portoghese, avevo conosciuto una ragazza uruguaiana che mi aveva invitato ad andare insieme a lei a Rio de Janeiro e siccome mi ero invaghito dei suoi occhi e di tutto il resto, eravamo partiti insieme per la città carioca. Avrei trascorso il resto del viaggio insieme a lei, ma una volta arrivati in città ci eravamo persi di vista e non ci ritrovammo più. Io ero affranto, l'avevo cercata dappertutto; allora, con rammarico, avevo pensato che la cosa migliore, anziché tornare a casa, fosse risalire ancora il Brasile altri millecinquecento chilometri per andare a trovare il mio amico César. Per tutto questo tempo avevo dormito solo un paio di notti in albergo, a Florianopolis, insieme all'uruguaiana, il resto dei giorni dormivo sulle spiagge o nelle stazioni. Era circa mezzanotte quando ero arrivato a Salvador de Bahia. Davanti alla fermata dell'autobus c'era un bar e, seduto fuori, un avventore che urlava e parlava con tutti - poteva avere circa dieci anni più di me. Appena mi aveva visto aveva capito che ero argentino e siccome era abbastanza alticcio aveva incominciato a prendermi in giro per via della guerra e dei militari: «Ma come vi viene in mente di sfidare gli inglesi.., Siete matti... Dai, argentino, vieni qua a bere una cachaça (una sorte di acquavite ottenuta dalla distillazione del succo di canna da zucchero)», Dopo due o tre bicchieri mi aveva chiesto dove alloggiavo e io gli avevo risposto che non sapevo ancora, che dovevo raggiungere un mio amico, ma che lo avrei fatto all'indomani, per quella notte poteva bastare la stazione. Allora il ragazzo, che si chiamava Bernardo, aveva detto che non si poteva dormire lì e che sapeva lui dove andare. Diceva di fare il biologo e di studiare, in particolar modo, il veleno dei serpenti; di fatto aveva un dito tutto storto dovuto al morso di un rettile e lo esibiva come un trofeo, ridendo e mostrando una schiera di denti sporchi e storti anche questi. Il posto dove eravamo andati a trascorrere la notte era un lungo sottopassaggio pieno di barboni, senzatetto e ragazzini che tornavano dalle loro incursioni notturne con bottiglie di birra e cibo per tutti. Non so se era stata la stanchezza del viaggio o un effetto collaterale delle cachaça, ma in quel sottopassaggio maleodorante, ero riuscito a dormire fino all'alba. Quando mi ero svegliato, avevo notato che Bernardo russava profondamente. Vicino a noi c'era un anziano con le gambe paralizzate che strisciava per terra, ragazzini che si prostituivano o si allenavano tirandosi dei pugni. (…). Mi ero alzato, avevo guardato Bernardo che dormiva ancora e mi ero detto: «Biologo, non ti dimenticherò, ti lascio dormire, magari ci ritroviamo ancora». Avevo camminato fino ad arrivare a una spiaggia dove i bagnanti, di prima mattina, si accoppiavano alla luce del sole. Quando avevo raggiunto la città alta, la Praça da Sé e la Igreja e Convento de Sào Francisco (…), avevo chiamato il mio amico César per dirgli che ero arrivato a Salvador de Bahia e che avevo tanta fame. Mi aveva portato alcune cose da mangiare e il giorno dopo mi aveva chiesto se volevo accompagnarlo all'isola di Itaparica, che si trova di fronte alla città. Diceva che voleva vedere la spiaggia di Ponta de Areia, nell'estremo nord, perché, gli avevano detto, è la più bella dell'isola. Da Itaparica, César era tornato indietro il giorno dopo e io ero rimasto da solo a vagare sulle spiagge per altri due giorni. Mi piaceva l'idea di diventare un nomade solitario ed esplorare anche l'interno dell'isola. Avevo un quaderno dove mi appuntavo molte cose: impressioni, descrizioni della gente, del paesaggio, spostamenti. Quando tornai in Argentina lasciai quel quaderno a casa di una fidanzata, poi lei è morta e di quel quaderno non ho saputo più niente. Il viaggio di ritorno da Salvador de Bahia a Rio de Janeiro lo feci in autostop. Più di millecinquecento chilometri salendo e scendendo dai camion all'insaputa degli autisti; altre volte, invece, avevo avuto la fortuna di essere stato caricato in macchina, una volta con un tizio che aveva una pistola sotto il sedile e un'altra con una famiglia di rapina-tori. A Rio de Janeiro, non avendo di meglio dove dormire, ero andato alla stazione degli autobus. Ero stanco di viaggiare senza potermi sdraiare su un letto. Seduto su una panchina avevo conosciuto un argentino che dormiva anche lui in quel posto. Era stato rapinato e non aveva più niente con sé, tranne qualche spicciolo che gli aveva lasciato l'ambasciata argentina e un biglietto d'autobus per arrivare alla frontiera. Quando avevo sentito la sua storia gli avevo chiesto di raccontarmi bene nei dettagli cosa gli era successo e cosa aveva dichiarato all'ambasciata. Era stato rapinato da due malviventi armati di pistola. In quel momento avevo pensato che, in effetti, se avevano rapinato lui, avrebbero potuto rapinare anche a me. All'indomani ero andato anche io all'ambasciata argentina: avevo dichiarato che ero stato derubato, non da due, ma da tre delinquenti armati di pistola e coltelli. Forse avevano capito che ci marciavo, ma avevano chiuso un occhio e avevano dato anche a me, essendo ancora minorenne, un biglietto fino alla frontiera e qualche soldo per mangiare. L'autobus con il biglietto dell'ambasciata mi aveva lasciato a Foz do Iguaçu, nel confine estremo tra l'Argentina, il Brasile e il Paraguay. Da lì, dopo tre o quattro giorni, ero arrivato a casa. Mi sembrava di essere andato via da tanto tempo, trovavo tutto diverso, persino il quartiere e mentre camminavo per raggiungere casa mia, sapevo già che in un indeterminato futuro, non molto lontano, sarei ripartito, questa volta, forse, per sempre.

N. d. r. I testi sopra riportati sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di agosto 2024.

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