“
Dal
Mondo
Africa”.
“Grande madre Africa” di Eraldo Affinati:
Madri perdute... Madri
ritrovate... Quando chiedevo alla mia
come avesse fatto a fuggire dal treno della deportazione, il 2 agosto 1944,
dopo la fucilazione del padre, mi rispondeva a stento perché non aveva gli
strumenti per raccontarlo, innanzitutto a se stessa, prima ancora che ai figli.
La lingua rende uguali, ricordava Don Lorenzo Milani esortandoci a non mettere
sullo stesso piano Pierino, che prima di andare a scuola aveva già letto tanti
libri, e Gianni, per il quale l'italiano era una lingua appresa, visto che in
famiglia si esprimeva in dialetto. Forse per questo, se penso al viaggio della
vita, mi viene in mente l'Africa, là dove la lotta per la democrazia è ancora
in pieno corso e continua a presentare i medesimi costi che abbiamo già pagato
noi, anche se troppo spesso lo dimentichiamo, perché l'uguaglianza delle
posizioni di partenza, le garanzie sociali, l'assistenza medica, il diritto
all'istruzione pubblica non sono doni caduti dal cielo, nessuno te li regala,
devi conquistarli a caro prezzo come fece mio nonno, partigiano della 363
brigata Garibaldi, fucilato dai nazisti a Pievequinta il 26 luglio 1944 insieme
ad altri nove cittadini italiani. Così il giorno in cui Khaliq, lo studente
della Sierra Leone conosciuto fra i banchi della Città dei Ragazzi capitolina,
sopravvissuto a una tremenda guerra civile, mi volle far conoscere sua madre rifugiata
in Gambia, accettai d'istinto, quasi rispondendo a un imperativo categorico, un
richiamo oscuro che si trascinava dietro i rottami del passato: autobiografici
e universali, tra padri e figli, vecchi e nuovi Continenti, testimoni da
consegnare e ricevere, ferite da sanare, lacrime da asciugare, lingue da
imparare, libri da scrivere. Lo spazio eccita il tempo, proclamò Witold
Gombrowicz. Il cuore di tenebra batte dentro di noi. Se t'interroghi sulle tue
origini, scopri che s'intrecciano con quelle di tutti gli altri. Tocchi le
radici di un individuo, vibra tutta la pianta dell'essere umano. Dalle
ringhiere dei palazzi scorticati di Via Giolitti, a Roma, dove i migranti
dell'Esquilino s'affacciano cercando il campo utile per parlare al cellulare,
nel casamento dove sono nato, ho l'impressione di rivedere la lunga strada di
polvere rossa che da Serekunda ci conduceva all'interno del più piccolo Paese
africano: una sciabola nel fodero del Senegal. Il percorso sembrava non finire
mai. Qualche giorno prima eravamo partiti dall'aeroporto di Fiumicino, avevamo
fatto scalo a Bruxelles, poi Freetown, infine Banjul. Una Mercedes all'ultimo
stadio, le sospensioni scassate, i vetri rotti, i freni consumati, che in
Europa sarebbe stata buona per lo sfasciacarrozze, procedeva lenta fra buche,
dossi e tronchi caduti. Ogni tanto scendevamo a riparare una gomma, sistemare
il bagaglio, fare quattro passi per ritemprarci dal caldo. Gli arbusti
ostruivano il percorso. Oltre lo sterrato non si vedevano costruzioni. Pareva di
attraversare il deserto. Eppure a ogni so· sta comparivano persone da chissà
dove: giovani e vecchi, maschi e femmine. I bianchi erano una rarità. quindi i
curiosi ci fissavano estasiati. Arrivammo a Sare Gubu, come in un documentario
dell'Unicef, accolti dai capi del villaggio con ogni onore. Khaliq ci presentò
sua madre, riabbracciata dopo anni di assenza. Lui, scappato dal campo profughi
di Conakri in Guinea, aveva attraversato il Sahara insieme a una banda di
coetanei, senza più rivederla. Quando si ritrovarono, madre e figlio stentarono
a riconoscersi. Da testimone così scrissi sul mio diario: "Siamo venuti
per vedere lei. È una radice della natura. Il volto sembra quello di un
uccellino in fondo alla grotta. Fragile solo all'apparenza. I lineamenti abituati
a restare seminascosti sotto il mantello. Gli occhi come lame, spilli,
punteruoli. Lava di vulcano. Scintille nello stagno. Siamo custodi del cielo.
Guardiani delle stagioni. Testimoni di carità. Spiriti della fratellanza.
Arcangeli in grado di conservare i ricordi della vita trascorsa. La sua mano
resta nella mia qualche secondo in più del necessario. Ce la stringiamo in
mezzo a tutti gli altri che ci guardano". Io e Khalifa, questo il nome
della donna, ci fissavamo senza avere la possibilità di dialogare. Di nuovo,
come accadeva con mia madre, la sensazione del vuoto da superare. Ho provato a
scrivere le parole che, in quel momento, non riuscivano a venir fuori. Quelle
che avrebbe potuto pronunciare lei e chissà forse era impegnata davvero a
elaborare dentro se stessa mentre mi considerava, insieme alle altre che
sentivo stavano nascendo nella mia mente, nel mio spirito, o chissà dove.
Mentre ricopio le note prese allora, continuo a intrecciare la mia voce alla
sua, facendo deragliare la prosa verso la poesia: "Non ti ho dimenticato.
Non ci dimenticheremo. Sei stato tu a consolare mio figlio. Sei stata tu a
condurlo davanti a me. Anche se non ci conoscevamo, era come se sapessimo
dell'esistenza l'uno dell'altra. Eseguiamo ordini dettati da superiori inflessibili
ma comprensivi. Per questo ti sei messa i gioielli migliori. Per questo hai la
faccia di chi trattiene a stento il tumulto. So da dove vieni. Dalla solitudine
atroce. Dalle notti con la testa sotto il cuscino. Anch'io credo di sapere chi
sei. La forza degli oceani. Il vento della savana. La potenza
dell'uragano". Avevo visto i ragazzini giocare a perdifiato dall'alba al
tramonto inseguendo frenetici il pallone di plastica che gli avevamo regalato.
Una moltitudine di scolari seduti a terra di fronte al maestro, senza quaderni,
penne, senza libri, ma con un'imperiosa voglia di apprendere, che sarebbe stato
sciagurato non soddisfare. Gli stessi che facevano la fila davanti alla casa di
paglia in attesa delle nostre caramelle, la sera stavano riuniti intorno al
vassoio per mangiare riso e pollo, poi andavano a pregare in moschea, sempre in
gruppo, prima di cadere stremati dormendo all'aperto sotto le stelle. Non
c'erano impianti idraulici, né acqua corrente, né luce elettrica. I più piccoli
spesso tossivano, gli occhi arrossati dalla congiuntivite, non potevano essere
curati non essendoci presidi sanitari; se la malattia si fosse aggravata
sarebbero stati Caricati di peso sul carretto e condotti verso la capitale: ci
volevano giorni per raggiungerla. I grandi Suv delle fondazioni svizzere e
svedesi entravano dentro delle specie di castelli fortificati inaccessibili
alla maggioranza dei bambini che stazionavano intorno come sparsi uccellini in
attesa di poche molliche di pane. In quei giorni ne nacque uno a cui i nonni
vollero dare il mio nome: Alì Babucar Eraldo Affinati. Bislacco risarcimento
rispetto all'identità negata a mio padre, che era stato un figlio non
riconosciuto. Avevo visto tutto questo e altre cose che non si possono scrivere
sui giornali. Tornando a casa sarebbe stato difficile continuare a fare il
professore come se niente fosse: la campanella che scandisce l'ora di lezione,
il programma da spiegare, le verifiche programmate, i voti da riportare sul
registro elettronico, i consigli di classe, i collegi docenti e tutto il resto.
Così, insieme a mia moglie, anche lei docente, dopo il viaggio in Africa ci
chiedemmo: cosa possiamo fare? Di certo non potremo salvare il mondo. Dovremo
accontentarci di aiutare quelli che incrociamo, con tutte le limitazioni del
caso: se ci riuscissimo, avremo avuto almeno l'illusione di piantare una
bandierina sul terreno dissestato. Nel nostro piccolo decidemmo di fondare la
scuola Penny Wirton, dal titolo di un romanzo per ragazzi di Silvio D'Arzo,
dedicata all'insegnamento gratuito dell'italiano ai migranti: senza classi,
voti, burocrazie. Se tu sei riuscito a trovare le parole, non puoi tenerle solo
per te: devi distribuirle a chi non le ha. Subito dopo averlo fatto, scoprimmo
che tante altre persone in Italia la pensavano come noi. E questo, ancora oggi,
ci dà la forza per andare avanti.
“DalMondoArgentina”. “La prima volta” di Adrian N. Bravi: La prima volta che ho
oltrepassato la frontiera del mio Paese per andare in un posto straniero, con
una lingua diversa dalla mia, anche se simile, è stato nell'estate australe del
1983. Avevo diciannove anni ed ero stato da poco congedato dal servizio di
leva. Quell'assurda guerra contro gli inglesi, in cui gli argentini e i soldati
della corona si erano contesi un arcipelago sperduto nel remoto Atlantico, era
finita da poco. Da un lato ero contento di non essermi trovato in una trincea
sotto le bombe, dall'altro, però, mi spezzava il cuore vedere il ritorno dei
soldati che erano stati al fronte: arrivavano ragazzi mutilati, feriti,
sperduti e squinternati. Erano i perdenti, quelli che non erano riusciti a
sconfiggere i britannici, così li consideravano i militari che prima li avevano
mandati al massacro e poi, a guerra finita, li facevano rientrare di notte, per
non farli vedere dai civili. Il giorno che avevo lasciato la caserma, con il
documento del congedo in mano e la certezza che potevo lasciare il Paese, avevo
racimolato le mie cose ed ero partito senza un'idea precisa di quello che avrei
fatto. Avevo solo una meta, un po' effimera: viaggiare e conoscere un posto
nuovo, che allora avevo identificato con Florianòpolis. Arrivato in treno a
Pasos de los Libres, al confine con il Brasile, e valicata la frontiera, avevo
preso un altro treno in Uruguaiana, dalla parte brasiliana, per andare a Porto
Alegre e da lì ero salito ancora fino a Florianòpolis. Sarei rimasto qualche
giorno e poi sarei tornato indietro, così avevo detto alla mia famiglia,
senonché, durante il viaggio in treno, avevo conosciuto César, che abitava in
un paesino nella pianura di Santa Fe. Faceva l'orologiaio e stava andando a
trovare degli zii a Salvador de Bahia: «Se ti va puoi raggiungermi lassù», mi
aveva detto mentre saliva su un autobus a Porto Allegre. Io avevo preferito
andare prima a Florianòpolis, come avevo progettato. Mi ricordo che in una
spiaggia di quell'isola, l'Ilha da Magia, come la chiamano in portoghese, avevo
conosciuto una ragazza uruguaiana che mi aveva invitato ad andare insieme a lei
a Rio de Janeiro e siccome mi ero invaghito dei suoi occhi e di tutto il resto,
eravamo partiti insieme per la città carioca. Avrei trascorso il resto del
viaggio insieme a lei, ma una volta arrivati in città ci eravamo persi di vista
e non ci ritrovammo più. Io ero affranto, l'avevo cercata dappertutto; allora,
con rammarico, avevo pensato che la cosa migliore, anziché tornare a casa,
fosse risalire ancora il Brasile altri millecinquecento chilometri per andare a
trovare il mio amico César. Per tutto questo tempo avevo dormito solo un paio
di notti in albergo, a Florianopolis, insieme all'uruguaiana, il resto dei
giorni dormivo sulle spiagge o nelle stazioni. Era circa mezzanotte quando ero
arrivato a Salvador de Bahia. Davanti alla fermata dell'autobus c'era un bar e,
seduto fuori, un avventore che urlava e parlava con tutti - poteva avere circa
dieci anni più di me. Appena mi aveva visto aveva capito che ero argentino e
siccome era abbastanza alticcio aveva incominciato a prendermi in giro per via
della guerra e dei militari: «Ma come vi viene in mente di sfidare gli
inglesi.., Siete matti... Dai, argentino, vieni qua a bere una cachaça (una
sorte di acquavite ottenuta dalla distillazione del succo di canna da
zucchero)», Dopo due o tre bicchieri mi aveva chiesto dove alloggiavo e io gli
avevo risposto che non sapevo ancora, che dovevo raggiungere un mio amico, ma
che lo avrei fatto all'indomani, per quella notte poteva bastare la stazione.
Allora il ragazzo, che si chiamava Bernardo, aveva detto che non si poteva
dormire lì e che sapeva lui dove andare. Diceva di fare il biologo e di
studiare, in particolar modo, il veleno dei serpenti; di fatto aveva un dito
tutto storto dovuto al morso di un rettile e lo esibiva come un trofeo, ridendo
e mostrando una schiera di denti sporchi e storti anche questi. Il posto dove
eravamo andati a trascorrere la notte era un lungo sottopassaggio pieno di
barboni, senzatetto e ragazzini che tornavano dalle loro incursioni notturne
con bottiglie di birra e cibo per tutti. Non so se era stata la stanchezza del
viaggio o un effetto collaterale delle cachaça, ma in quel sottopassaggio
maleodorante, ero riuscito a dormire fino all'alba. Quando mi ero svegliato,
avevo notato che Bernardo russava profondamente. Vicino a noi c'era un anziano
con le gambe paralizzate che strisciava per terra, ragazzini che si
prostituivano o si allenavano tirandosi dei pugni. (…). Mi ero alzato, avevo
guardato Bernardo che dormiva ancora e mi ero detto: «Biologo, non ti
dimenticherò, ti lascio dormire, magari ci ritroviamo ancora». Avevo camminato
fino ad arrivare a una spiaggia dove i bagnanti, di prima mattina, si
accoppiavano alla luce del sole. Quando avevo raggiunto la città alta, la Praça
da Sé e la Igreja e Convento de Sào Francisco (…), avevo chiamato il mio amico
César per dirgli che ero arrivato a Salvador de Bahia e che avevo tanta fame.
Mi aveva portato alcune cose da mangiare e il giorno dopo mi aveva chiesto se
volevo accompagnarlo all'isola di Itaparica, che si trova di fronte alla città.
Diceva che voleva vedere la spiaggia di Ponta de Areia, nell'estremo nord,
perché, gli avevano detto, è la più bella dell'isola. Da Itaparica, César era
tornato indietro il giorno dopo e io ero rimasto da solo a vagare sulle spiagge
per altri due giorni. Mi piaceva l'idea di diventare un nomade solitario ed esplorare
anche l'interno dell'isola. Avevo un quaderno dove mi appuntavo molte cose:
impressioni, descrizioni della gente, del paesaggio, spostamenti. Quando tornai
in Argentina lasciai quel quaderno a casa di una fidanzata, poi lei è morta e
di quel quaderno non ho saputo più niente. Il viaggio di ritorno da Salvador de
Bahia a Rio de Janeiro lo feci in autostop. Più di millecinquecento chilometri
salendo e scendendo dai camion all'insaputa degli autisti; altre volte, invece,
avevo avuto la fortuna di essere stato caricato in macchina, una volta con un
tizio che aveva una pistola sotto il sedile e un'altra con una famiglia di
rapina-tori. A Rio de Janeiro, non avendo di meglio dove dormire, ero andato
alla stazione degli autobus. Ero stanco di viaggiare senza potermi sdraiare su
un letto. Seduto su una panchina avevo conosciuto un argentino che dormiva
anche lui in quel posto. Era stato rapinato e non aveva più niente con sé,
tranne qualche spicciolo che gli aveva lasciato l'ambasciata argentina e un
biglietto d'autobus per arrivare alla frontiera. Quando avevo sentito la sua
storia gli avevo chiesto di raccontarmi bene nei dettagli cosa gli era successo
e cosa aveva dichiarato all'ambasciata. Era stato rapinato da due malviventi
armati di pistola. In quel momento avevo pensato che, in effetti, se avevano
rapinato lui, avrebbero potuto rapinare anche a me. All'indomani ero andato
anche io all'ambasciata argentina: avevo dichiarato che ero stato derubato, non
da due, ma da tre delinquenti armati di pistola e coltelli. Forse avevano
capito che ci marciavo, ma avevano chiuso un occhio e avevano dato anche a me,
essendo ancora minorenne, un biglietto fino alla frontiera e qualche soldo per
mangiare. L'autobus con il biglietto dell'ambasciata mi aveva lasciato a Foz do
Iguaçu, nel confine estremo tra l'Argentina, il Brasile e il Paraguay. Da lì,
dopo tre o quattro giorni, ero arrivato a casa. Mi sembrava di essere andato
via da tanto tempo, trovavo tutto diverso, persino il quartiere e mentre
camminavo per raggiungere casa mia, sapevo già che in un indeterminato futuro,
non molto lontano, sarei ripartito, questa volta, forse, per sempre.
N. d. r. I testi sopra riportati sono stati
pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di agosto
2024.
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