E dove è nata? «A Mosca nel 1931. Quell'anno lo Stato lanciò il concorso per la costruzione del Palazzo dei Soviet. Fu demolita la cattedrale che si ergeva e al suo posto sarebbe dovuto nascere un edificio mirabolante. Fu indetto un concorso, scesero in gara una quindicina di architetti tra cui Le Corbusier. Vinse un architetto locale. Ma tra una cosa e l'altra cominciarono i lavori mi pare nel 1937. Ma non ero già più a Mosca».
Dunque vi ha trascorso l'infanzia. «Fino a sei anni, insieme a mia madre, mio padre e mio fratello Dino, di tre anni più grande».
Dove vivevate? «Un palazzo bello nel centro di Mosca. L'appartamento aveva cinque stanze. Lo condividevamo con altre due famiglie. Noi avevamo la disponibilità di due locali. La cucina e il bagno erano in comune. Lo ricordo come un periodo bello».
Eravate italiani, c'era il fascismo. Come vi guardavano? «Italiani, certo. Ma antifascisti. Mio padre era stato inviato a Mosca a svolgere il lavoro per il partito. Lo aveva chiamato direttamente Togliatti, una figura di primo piano del Comintern».
Di che anni parliamo? «Papà arrivò a Mosca, direttamente da Zurigo, con mia madre e mio fratello, nel 1930».
Erano stati in Svizzera perché? «Espatriati come antifascisti. Ma qui può essere utile qualche dettaglio. Papà era nato nell'astigiano nel 1899, da una famiglia di piccola intellettualità piemontese. Ebbe la fortuna di conoscere a Torino Antonio Gramsci che si incuriosì di questo giovane che simpatizzava per il Partito socialista. Gramsci era tra i fondatori del Partito comunista d'Italia e veniva considerato il punto di riferimento nell'ambito torinese. L'altro centro era a Napoli, dove spiccava Amedeo Bordiga. Mio padre divenne una sorta di segretario di Gramsci e si iscrisse al partito».
Con quali funzioni? «Lo aiutava nella sistemazione dell'archivio, nella messa a punto di una serie di documenti politici, e nel lavoro redazionale a Ordine Nuovo. Fu Gramsci a volerlo giornalista. Un episodio che papà raccontava era di quando scrisse un articolo su un fatto di cronaca operaia. Gramsci si complimentò e poi gli chiese come aveva fatto a scoprire certi dettagli. E mio padre rispose che sebbene non fosse stato lì, sul fatto, lo aveva "arricchito" con dei resoconti esterni. Gramsci si infuriò dicendo che il compito del giornalista non era abbellire ma raccontare la verità. Fu una lezione di stile e di sostanza».
Il periodico "Ordine Nuovo" fu fondato nel 1919. «Un anno cruciale che aprì al biennio rosso e poi al fascismo. Furono anni duri per i militanti comunisti. Papà venne arrestato, non ricordo la data esatta, ma quasi sicuramente prima del 1924, quando ci fu il delitto Matteotti».
Perché prima? «Restò in carcere una decina di mesi e poi venne rilasciato in libertà provvisoria. Dopo la morte di Matteotti le leggi fasciste si inasprirono e difficilmente mio padre sarebbe potuto uscire di galera. Sapeva che al processo sarebbe stato condannato. A quel punto sposò mia madre, fuggirono in Svizzera e da lì, dopo la spola con Parigi, nel 1930 come dicevo andarono a Mosca».
Torniamo a Togliatti membro del Comintern. «Il Comintern era l'Internazionale comunista e a quel tempo Togliatti era una delle figure di spicco insieme a Dimitrov. Essendo spesso a Mosca Togliatti aveva lasciato provvisoriamente la direzione del partito a mio zio Ruggero Grieco. Dai miei appunti leggo che Togliatti era tornato in Francia per rafforzare le strategie del Fronte popolare e nel 1934 nuovamente a Mosca. La situazione risultava complicata».
A causa di cosa? «In Italia c'era il fascismo, in Germania nel 1933 Hitler era andato al potere. Le democrazie europee sembravano non reggere l'urto di questa destra feroce. La Francia era in bilico, la Spagna idem. Che fare? Come reagire? Soprattutto in Spagna c'erano i primi segnali della guerra civile. Mio padre decise di partire».
Decise lui o il partito? «Pensa che ci fosse una differenza? Ne parlò con Togliatti e nel 1936 partì per Barcellona. Togliatti lo raggiunse l'anno dopo, mi pare».
Credo che Togliatti dovesse "normalizzare" lo scontro in atto tra l'ala anarchica e quella comunista. Che idea si è fatta? «Avevo cinque anni, che idea vuole che mi facessi? A posteriori lo considero un errore madornale. Quella divisione ha favorito la sconfitta del fronte repubblicano».
Dopo la vittoria del franchismo tornaste a Mosca? «No, mentre mio padre era a Barcellona noi eravamo già a Parigi. A scuola non aprivo bocca per paura di dover parlare russo. Lingua che negli anni successivi dimenticai. Fu un periodo durissimo. In Spagna vinse il franchismo. Come tanti compagni antifranchisti mio padre fu arrestato e spedito a Le Vernet d'Ariège, un campo di concentramento non distante dalla frontiera spagnola. Vi restò quasi un anno».
Fu liberato perché? «La diplomazia messicana, informata dai compagni italiani, si dichiarò disponibile ad ospitare un certo numero di prigionieri politici. Ricordo che la famiglia si favoleggiò per qualche tempo su come sarebbe stato bello poter vivere in Messico. Ma quando scoppiò la Resistenza in Italia la decisione di mio padre fu quella di rientrare e combattere il nazifascismo».
Mi incuriosisce che lei abbia dimenticato il russo. «Parlare il russo avrebbe comportato l'arresto. Ma ho sempre amato la lingua russa e la sua letteratura. Tanto è vero che mi sono laureata con Ettore Lo Gatto, grande erudito ma non un grande suscitatore di idee. Ho insegnato letteratura russa. E vissuto lunghi periodi a Mosca».
Con quali ricordi? «Il mio lavoro di traduttrice mi ha messo a contatto con personaggi di rilievo da Vygotskij a Sklovskij, fino ad alcuni poeti russi del Novecento. Ho conosciuto bene, ma non ricordo in che occasione ci incontrammo la prima volta, Nina Berberova. Forse a Parigi. Ricordo però che parlammo del suo periodo a Berlino».
Lei ha studiato e raccolto testimonianze importanti dei russi a Berlino. «È una storia di emigrazione interessante in particolare nel periodo che va dal 1921 al 1924. Furono soprattutto scrittori e artisti a stabilirsi a Berlino. Nella Casa delle arti, nata nel 1921, e diretta dal vecchio poeta simbolista Nikolaj Maksìrnovìè Minskij, recitarono versi e lessero racconti Esenin, Marina Cvetaeva, Andrej Belyj, Pastemak; tra gli artisti soggiornarono Kandinskij, Chagall, Tatlin. Berberova viveva nei dintorni di Berlino, dove c'era anche Gorkij. Poi Gorkij si trasferì a Sorrento».
Di tutti questi il personaggio più tormentato forse è Belyj. «Passava dei periodi di depressione, aggravati dal fatto che si era separato dalla moglie e distaccato dai principi dell'antroposofia e dal maestro Rudolf Steiner che aveva a lungo seguito nel corso delle sue conferenze europee. Poteva ballare il foxtrot fino all'alba in qualche locale berlinese, ubriacarsi e prendere appunti geniali su ciò che vedeva. Quando rientrò in Russia scrisse pagine sorprendenti su Berlino, paragonandola a una sorta di Sodoma borghese e definendola il regno delle ombre. Quell'angoscia berlinese - fatta di salti di umore estremi - colpì anche Sklovskj che parlò di una città "amara come polvere di carburo"».
Babylon Berlin verrebbe da commentare. «Erano gli effetti di Weimar, di una Repubblica allo sfascio e al tempo stesso eccitante, come può essere la reazione a un mondo che sta precipitando nell'abisso. Erenburg disse che a Berlino si vendeva un profumo chiamato "Tramonto di Occidente". Furono in diversi già allora a parlare del crepuscolo dell'Europa».
Tornei ancora per un momento a suo padre, Felice Platone. Togliatti affidò a lui la cura delle opere di Gramsci, in particolare le Lettere e i Quaderni del carcere. «Soprattutto l'edizione dei Quaderni venne decisa dopo la guerra Togliatti e mio padre ci lavorarono fianco a fianco. Ma aggiungerei un dettaglio: mio padre era in possesso delle copie dei Quaderni e delle Lettere già nel 1943. In quel periodo di clandestinità iniziò a interessarsene. Aggiungo che fondamentale fu anche il contributo di Piero Sraffa che suggerì a Togliatti di seguire l'ordine tematico».
Lo ha conosciuto? «No, nel periodo di gestazione dell'opera ero spesso a Mosca. Frequentavo soprattutto i figli di Gramsci: Giuliano e Delio».
La famiglia di Antonio Gramsci, soprattutto la moglie Giulia e la sorella Tatjana Schucht, manifestarono molte perplessità circa la decisione di consegnare i manoscritti al Partito comunista. «È una vicenda molto intricata dove entra di tutto: dai sospetti che il partito, e Togliatti in particolare, non abbiano aiutato Gramsci negli anni del carcere, ai giudizi che nei Quaderni e nelle Lettere sono contenuti e non sempre in linea con il gruppo dirigente, fino agli aspetti personali. Insomma un bel groviglio di questioni. Ma credo che il risultato delle pubblicazioni sia stato egregio. Era giusto che un materiale così importante vedesse la luce. Anche il fratello di Gramsci, per ragioni più emotive che ideologiche, resistette a lungo alle richieste di Togliatti di consegnargli alcune lettere inedite».
Ha mai pensato che questo materiale così infiammabile potesse rimanere sepolto a lungo? «No, l'autorità di Togliatti era troppo forte ed estesa perché potessero prevalere le resistenze. Ma l'affaire Gramsci fu anche una questione internazionale che coinvolse altri Paesi, a cominciare dall'Unione Sovietica. C'è perfino una lettera datata 5 dicembre 1946 di Giulia Schucht a Stalin dove la moglie di Gramsci chiede la restituzione di una serie di lettere e oggetti vari».
Lei Rossana è sempre stata comunista? «Provengo da quella storia. Quando il Pci è finito non mi sono più iscritta a niente. Vedo in giro tra i politici soprattutto dei nanerottoli».
Che giudizio dà di Stalin? «Quando il potere si concentra nelle mani di un solo individuo la politica rischia di trasformarsi in patologia, al cui estremo c'è la paranoia. Ha commesso numerosi errori. Penso al mio povero Isaak Babel fucilato nel 1940. La lista è lunga, purtroppo. Le vittorie di Stalin, soprattutto il contributo decisivo alla sconfitta del nazifascismo, restano incancellabili».
Anche i suoi terribili errori. «Mi sono fatta l'idea che la sua brutalità gli derivasse dagli anni di seminario nel Caucaso».
Della Russia di oggi cosa pensa? «Manco da tanti anni, credo sia molto peggiorata e trovo Putin un personaggio orribile. Una specie di fascista con l'ossessione di ricostituire la vecchia Russia zarista».
Come trascorre le sue giornate? «Pensando il meno possibile al passato. Riesco a leggere poco. Mi muovo a fatica. Oggi faccio professione di amarezza. Mi guardo e capisco perfettamente perché detesto la longevità».
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