Testo di Mario Monicelli tratto dal volume “Così parlò Monicelli” – editrice “Cue
Press”, pagine 80, euro 19.99 – riportato su “il Fatto Quotidiano” – con il titolo “Volevo essere Dostoevshij” - di venerdì 11 di agosto 2023: Mi
piaceva Flaubert, avrei voluto scrivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però
abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido - che era meglio
abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi
piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del
1915, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì. Io
volevo essere un romanziere o un poeta: mi capitò intorno ai diciassette anni
di leggere Gogol’ Le anime morte, e allora capii che era meglio abbandonassi
quest'idea di fare lo scrittore e ripiegai su una cosa assai più modesta, che è
il cinematografo. Con il cinematografo puoi dividere la responsabilità con gli
attori, per esempio; e dare anzi tutta la colpa a loro se una cosa è venuta
male, oppure al direttore della luce, allo scenografo e soprattutto agli
sceneggiatori. E ho avuto una vita più serena. È dal 1934 che lavoro nel
cinema. Da troppo tempo perché non sia viziato. Sono un regista accentratore,
che sceglie i soggetti, li scrive, cura la sceneggiatura, sceglie gli attori
eccetera. Come molti di quelli che credevano di avere qualcosa da dire ho
cercato di farlo attraverso la letteratura, poi mi sono accorto rapidamente che
non era cosa. Ho provato con la musica, e anche lì mi sono accorto rapidamente
che non era il mio campo, e allora ho scelto come ripiego il cinema. I miei
maestri sono gli autori delle farse, i cortometraggi non più lunghi di dieci
minuti che quando ero bambino si mettevano in coda ai filmoni con Rodolfo
Valentino, Mary Pickford o Douglas Fairbanks. Ufficialmente le farse erano
anonime, ma gli autori erano i giovani Charlie Chaplin, Bu-ster Keaton, King
Vidor o John Ford che facevano il loro apprendistato come oggi si fa girando
spot pubblicitari. Per me sono stati una scuola impagabile: di tempi comici, di
psicologie secche, non troppo elaborate ma credibili, e anche di fantasia e di
capacità di astrazione... Non c'è niente di cui non si possa sorridere. In ogni
tragedia, anche nella guerra più atroce, c'è il grottesco, c'è l'umanità degli
individui, con le loro debolezze, i momenti di tenerezza, anche con il dolore.
Da ragazzi si andava in questi cinemetti dove lo schermo era una parete bianca
dipinta malamente, e lì si svolgevano delle vicende... cose meravigliose:
battaglie, amori, cavalli in corsa... Io non capivo bene, ero bambino, cinque o
sei anni, noi tutti non sapevamo bene se fosse roba vera o una finzione. Era
una cosa magica, meravigliosa... Io allora ero talmente affascinato che volevo
entrare in quel mondo, ma non sapevo come, non sapevo nemmeno cosa volessi
fare: l'attore, il regista o chissà che... volevo entrare lì nel mezzo; per
fortuna tanto ho fatto che ci sono arrivato, molto presto. A fare cose molto
umili: l'attrezzista, l'aiuto trucco e così via; insomma piano piano mi sono
infilato lì e ci son rimasto tutta la vita. Non ho mai provato a scrivere un
film da solo: mi annoierei. Fra noi sceneggiatori c'era un senso di bottega
artigianale molto importante. Scrivevamo i film su misura per gli attori, com'è
nella tradizione del teatro: anche Goldoni scriveva le sue commedie per questo
o quell'Arlecchino, per questa o quella Mirandolina; e così faceva Shakespeare.
Con i cattivi registi si impara molto. Si impara a non fare. Con Fellini cosa
vuoi imparare? Non impari niente, perché o sei lui, oppure lasci andare. Cosa
vuoi imparare con Fellini o con Antonioni? Non si impara. Si impara con quelli
che fanno le stupidaggini, sennò non impari. Impari, casomai, l'atteggiamento,
un certo tipo di serietà oppure, al contrario, di non prendere troppo sul serio
quello che stai facendo. Aveva ragione Longanesi che raccontava di Rossellini,
il quale si lamentava: "Ora non si possono più fare bei film... Allora vi
era la guerra, un mondo distrutto". E Longanesi: "Ma che, dobbiamo
perdere un'altra guerra o farne un'altra per farti fare bei film?". Il
cinema ha il potere di rispecchiare, di raccontare, ma non quello di fare
prediche... Il cinema dovrebbe essere muto, non parlato. Dovrebbe essere
composto solo di belle immagini mute che, montate le une con le altre,
raccontano tutto quello che c'è da raccontare, e infatti, per i primi
vent'anni, il cinema è stato così. Sono stati girati bellissimi film
drammatici, comici, farseschi, avventurosi, tutti muti, senza musiche, senza
sonoro. Il cinema non produce arte, crea al massimo cultura. Il mio cinema non
aspira a verità massime né a piacere a tutti. Il vantaggio dei film brutti è
che non li vede nessuno. Il cinema è un'arte applicata, senza l'industria non
esisterebbe. È un segno dello squallore dei tempi sacralizzare il cinema come
fosse la bottega di Caravaggio... Il cinema è la settima arte; cioè l'ultima.
Ma quale arte! Io non ho questa gran stima per il cinema. Avrei voluto essere
Bunuelo Huston, ma mi è toccato essere Monicelli, e l'ho fatto meglio che ho
potuto.
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