Sopra. Fotogramma tratto dal film "Manodopera" di Alain Ughetto.
Ughetto, ricorda il momento in cui è partita l’idea di questo film? «Perfettamente. Quando mangiavamo insieme, mio padre parlava spesso di un paese piemontese chiamato Ughettera, dove tutti gli abitanti si chiamavano Ughetto, come noi».
Ma suo padre parlava l’italiano? «Macché. Non parlava italiano e non aveva particolari contatti con l’Italia. D’altra parte neanche io, anche se qualcosa la capisco. A mio padre chiedevo anche: ma chi sono gli abitanti? Nostri zii, nostri cugini? Mistero. Così quando mio padre è morto, ho deciso di andare a controllare: Ughettera esisteva per davvero! La mia ricerca è iniziata quel giorno, più di nove anni fa e, con essa, è nata anche la storia di questo film».
È un film in cui il regista rivive il dramma della povertà, degli sradicamenti, dei continui addii. (…). C’è tanta tenerezza ma anche tanto umorismo in questo film, e le scene drammatiche sono trattate con leggerezza e un dolce fatalismo. «Mi ha aiutato un libro di Nuto Revelli Il mondo dei vinti, che raccoglie la testimonianza di persone che hanno vissuto le esperienze dei miei nonni. Benché parta dalle vicende della mia famiglia, il film racconta un’epopea vissuta da tante persone nel corso della storia umana».
Le scoperte fatte per realizzare il film sono state una rivelazione? «Sì, anche perché mia nonna, una volta arrivata in Francia, non è stata più italiana. Come è chiaro dal cartello citato dal titolo, gli italiani non erano ben visti dai francesi, avevano enormi difficoltà ad essere accettati e sono stati molti gli episodi di violenza di cui sono stati vittime. Quando lei è arrivata in Francia è diventata più francese delle francesi».
Non si parlava italiano in casa? «Assolutamente no. Però era chiaro che qualcosa di italiano era sempre dentro di lei. Cucinava gnocchi e polenta, l’acconciatura dei capelli prevedeva lo chignon, un’acconciatura italiana. La sua storia però ha dovuto tenerla nascosta. Sollevando questo velo, posso dire finalmente di essere un discendente di immigrati italiani».
E cosa pensa ora, dopo questa lunga ricerca, che sia italiano in lei? «Il senso dell’umorismo, che voglio continuare a coltivare. Quello italiano l’ho trovato sempre molto elegante. Anche se non sapevo da dove venisse il mio nome, mi sono sempre interessato all’Italia, al cinema italiano, al neorealismo, alla sua letteratura. E ho sempre ammirato come gli autori italiani abbiano saputo raccontare il dramma, a volte anche l’abominio, con un umorismo gentile ed elegante».
Nel suo film alcune scene drammatiche, di morti tragiche, sono trattate con grande leggerezza, come quando il fratello di suo nonno rimane ucciso, travolto da una roccia all’ingresso di un tunnel in costruzione. «Il senso dell’umorismo di De Sica, dell’Ettore Scola di Brutti, sporchi e cattivi, ma anche del Benigni di La vita è bella mi ha insegnato molto».
La scelta dei pupazzi e quindi anche di scene ricostruite con legno e cartapesta a cosa è dovuta? «Mio nonno e mio padre lavoravano la materia, costruivano le cose con le loro mani, e anche io, insieme al meraviglioso team che ha costruito il film, volevo avere a che fare con oggetti concreti».
La storia dei suoi nonni è raccontata come una storia collettiva. «Certo. Si partiva in gruppo e in gruppo si realizzavano opere che esistono ancora: tunnel, metropolitane, tutte costruite da italiani».
E lo è anche la realizzazione del film. «Ho chiesto a cento piccole manine di venirmi ad aiutare per i disegni, le luci, gli oggetti. E avevo un’assistente che ha come cognome Rossi, che sulla sua discendenza nutriva i miei stessi dubbi. E così è accaduto ad animatori portoghesi o spagnoli, tutti figli dell’immigrazione. Io mi sento più sereno, oggi. Con questo film ho fatto pace con il mio passato».
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