(…). …la (…) iperbole complottista e apocalittica contiene un seme di verità. Sono i poveri i più esposti alla catastrofe climatica (come a tutte le catastrofi), e i ricchi lo sanno. Così come certi resort per pochi fortunati dispongono di un rifugio post-atomico, a pagare il prezzo della desertificazione sarà chi non ha le risorse e la tecnologia per sopravvivere. Il denaro è il grande discrimine tra gli esseri umani, più delle differenze etniche e di genere. Per giunta, ed è un’aggravante beffarda, sono i popoli ricchi quelli che inquinano di più, ma saranno quelli poveri i più colpiti dalle conseguenze di un danno che hanno contribuito a provocare in misura assai minore. Migreranno per avere perso tutto e per non avere alternativa alcuna alla fuga. In questo quadro, fa specie che la questione demografica sia rimossa come e forse perfino di più della questione climatica. Che il numero degli umani sia decuplicato in poco più di un secolo, mentre il pianeta che ci ospita è rimasto lo stesso di prima, mi sembra un problema evidente, ma nessuna agenda politica pone il controllo delle nascite tra i suoi obiettivi: e anzi, i governi nazionalisti (compreso il nostro) che hanno sempre più peso negli equilibri mondiali, per timore della “sostituzione etnica” pigiano sul pedale della natalità: date figli alla Patria. Come se a contare non fosse il numero complessivo degli umani, ma la loro suddivisione in Nazioni, in religioni, in culture tra loro ostili. In questo quadro, non mi sento di escludere che qualche potente e qualche ricco conti sul fatto che la natura “si autoregoli”, e provveda ad avviare una decimazione di homo sapiens che rimetta un poco in equilibrio il rapporto tra la Terra e i suoi abitanti più ingombranti, inquinatori e dissipatori, cioè noi. Che questa decimazione avvenga – se avverrà – assecondando le differenze di censo, di risorse, di armamenti, ovvero decimando quasi solamente i poveri, è un calcolo che qualcuno avrà sicuramente fatto. Ovviamente senza mai renderlo esplicito, perché inconfessabile. (Tratto da “Ricchi e poveri” di Michele Serra, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” dell’11 di agosto 2023):
Ha scritto Peter Gomez – in “Marx? Mai piaciuto. Ma oggi va riletto” – sul numero di agosto 2023 del periodico mensile “Millennium”: Molti anni fa, quando iniziai a fare il giornalista, lavoravo in una testata conservatrice e anticomunista: Il Giornale di Indro Montanelli. Allora il Partito comunista italiano era fortissimo. L'Unione sovietica esisteva ancora, così come la Jugoslavia retta dal maresciallo Tito. In Italia il sogno della rivoluzione e dell'eguaglianza era sfociato negli anni Settanta nel terrorismo. Tutta o quasi la cultura stava a sinistra e tendeva a escludere chi non lo era. La cosa mi dava parecchio fastidio, ma mi rendevo anche conto che nel nostro Paese il comunismo era un movimento di popolo formato da milioni e milioni di cittadini. Da uomini e donne che in perfetta buona fede desideravano un sistema economico diverso in grado di migliorare la vita di tutti. Personalmente non ce l'avevo con i co-munisti italiani, ma una visita a Berlino, allora divisa da un muro tra est e ovest, mi aveva convinto. che il regime politico da loro desiderato era inconciliabile con le libertà individuali. Di Karl Marx sapevo poco e quel poco che sapevo lo confrontavo con ciò che vedevo: i governi autoritari dei Paesi dell'Est, lo scarso benessere di quei cittadini, la persecuzione degli intellettuali dissidenti e l'ostilità, qualche volta arrivata fino alla violenza, che dimostravano i comunisti nei miei confronti in quanto giornalista de Il Giornale. Insomma identificavo il comunismo e anche Marx con la dittatura. Mi ero convinto che il capitalismo, con tutti i suoi difetti, fosse mille volte meglio del marxismo, anche perché pensavo che il desiderio di migliorare le proprie condizioni economiche e di arricchirsi fosse connaturato alla natura umana. Credevo che davvero chi si impegnava avrebbe sempre visto riconosciuti i propri meriti e pensavo che il progresso dei singoli avesse giocoforza ricadute positive su tutta la società. Con gli anni però sarebbe stata la realtà a scardinare molte di quelle mie giovanili certezze. Perché se pure il comunismo era ovunque sfociato in un'asfissiante mancanza di libertà, il capitalismo non si stava rivelando un sistema in grado di premiare i migliori e nemmeno utile per aumentare il benessere di tutti. Al contrario, proprio come Karl Marx aveva previsto, le crisi avevano cominciato a susseguirsi a breve distanza una dall'altra, la finanza aveva preso il sopravvento sull'industria e nell'industria la ricerca del profitto a qualunque costo, senza mai tenere conto del bene comune, aveva provocato sconquassi ecologici epocali. Le diseguaglianze erano aumentate in maniera vertiginosa, la ricchezza si era concentrata in poche mani, il cosiddetto ceto medio, la borghesia, si era assottigliato sempre più. Tanto che oggi le principali multinazionali mondiali, spesso più potenti degli stati, hanno l'80 per cento delle quote di controllo detenute dal 2 per cento dei grandissimi azionisti. Di fatto le decisioni vengono prese sempre dalle stesse persone e istituzioni finanziarie. Un gruppo ristrettissimo di soggetti in grado di condizionare le scelte mondiali. Questa realtà è ormai talmente evidente da aver spinto nel 2008 persino il ricchissimo e supercapitalista finanziere George Soros a dire: "Marx centocinquanta anni fa ha scoperto qualcosa sul capitalismo di cui dobbiamo tener conto". In realtà mentre Marx e le sue analisi tornano di moda, il mondo è ancora in preda al neoliberismo. E anche se in Europa lo spettro del comunismo non si aggira più da un pezzo, nessuno può negare che il modello neoliberista stia fallendo. È ora insomma di trovarne un altro. Farlo dopo aver riletto Marx può essere una buona idea.
“La crisi della democrazia”, testo di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di agosto ultimo: (Si) individua giustamente nella tecnica e nel mercato, che sono le due strutture che reggono le nostra civiltà, i due grandi pericoli per l'esercizio della democrazia. E in effetti la tecnica pone sul tavolo questioni che oltrepassano di gran lunga la competenza di noi comuni cittadini. Infatti, se si dovesse indire un referendum per aprire o meno le centrali nucleari, dovremmo essere dei fisici nucleari per poter votare con competenza. Lo stesso dicasi per l'introduzione degli organismi geneticamente modificati dove, per decidere con competenza, dovremmo essere dei biologi molecolari o dei genetisti, altrimenti decideremmo su basi irrazionali. Di qui il successo del populismo che semplifica le questioni incomprensibili al grande pubblico con slogan semplici, efficaci e ad alto impatto emotivo, la cui verità sfugge alla verifica della popolazione. Nel primo Novecento la deriva populista ha generato fascismo, comunismo e nazismo. Oggi l'attacco populista alla democrazia viene condotto sfruttando l'incompetenza della gente comune che, non sapendo come sottrarsi a una complessità sempre crescente, si affida a chi dà l'impressione di poterla semplificare. Per quanto radicalmente differenti siano le due derive populiste, il risultato è identico: la spoliticizzazione della società e il discredito della democrazia. Per quanto concerne il mercato, la mondializzazione dei capitali ha portato il colpo decisivo al potere degli Stati e alla loro possibilità di influenzare con gli strumenti della politica il corso degli avvenimenti. Ciò significa, come scrive Romano Madera ne L'animale visionario (Il Saggiatore): "La fine dell'indipendenza degli Stati nazionali la cui politica economica diventa pura esecuzione di ricatti finanziari, mascherati da consigli-condizioni per ottenere crediti, a loro volta necessari per restituire debiti al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, nel loro ruolo di agenzie del capitale transnazionale. È evidente che in una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci nell'applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale, per cui quando Marx diceva che i governi erano comitati d'affari della grande borghesia, aveva torto, ma solo per difetto". Quello che allora era un cattivo costume, oggi è un sistema, anzi è il sistema. Per cui se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e delle multinazionali, la cui ricchezza in molti casi supera la ricchezza degli Stati nazionali, i quali, non potendo contenere entro un sistema di regole queste superpotenze che non tollerano restrizioni, finiscono per essere indeboliti quando non asserviti. Che ne è a questo punto del potere e della sovranità dello Stato se la somma dei suoi redditi è di gran lunga inferiore alla somma dei redditi delle multinazionali, che per giunta si muovono nella più completa assenza di legislazione politica, cosa questa che aumenta inevitabilmente il loro grado di arbitrarietà? E che ne è della democrazia se la società nel suo insieme viene investita, come scrive Giorgio Ruffolo da "una vera e propria mercatizzazione", con conseguente declino degli investimenti che riguardano i beni collettivi come la scuola, la sanità, la previdenza, i trasporti pubblici, rispetto ai beni privati e alle preferenze del mercato coltivate dalla pubblicità? Questo è il rischio che la politica e la democrazia corrono nell'età della tecnica e della mondializzazione del mercato. E i rimedi non si vedono.
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