«Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi! Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli esseri viventi, insieme, la vedranno». (Martin Luther King, 28 di agosto dell’anno 1963).
“Io, mio padre e lo zio Martin” testo della intervista di Anna Lombardi a Donzaleigh Abernathy – che ad appena sei anni partecipò alla marcia su Washington per i diritti civili – riportata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 19 di agosto 2023: Avevo solo sei anni, ma quel giorno cambiò la mia vita, dandomi forza nei momenti più bui. Ricordo tutto: a partire dalla folla a colori, bianchi e neri insieme. Era la prima volta che vedevo una cosa del genere. La mia famiglia si era appena trasferita ad Atlanta, in Georgia, da Montgomery, Alabama: città razzista e segregata, dove crimini d'odio razziale erano all'ordine del giorno e avevano anche piazzato una bomba davanti alla nostra casa pochi giorni prima che io nascessi».
Cosa vedeva da lassù? «Un meraviglioso mondo a colori. Ma, confesso, avevo occhi soprattutto per le celebrità: Harry Belafonte aveva organizzato un aereo da Los Angeles pieno di star del cinema. Vennero Paul Newman e Joanne Woodward, Sidney Poitier, Marlon Brando, Burt Lancaster, Charlton Heston. E poi c'erano amici di famiglia come lo scrittore James Baldwin e il pioniere del baseball Jackie Robinson. E naturalmente Mahalia Jackson che cantò brani magnifici. La conoscevamo così bene da chiamarla "zia": dormiva spesso da noi perché all'epoca gli hotel erano segregati, ed era difficile per un afroamericano, pur famoso, trovare un posto decente dove stare». Lei chiama "uncle Martin", zio, anche Luther King... «L'ho sempre chiamato così: andavamo a scuola con i suoi figli, trascorrevamo domeniche e vacanze come un'unica famiglia. Sua figlia Yolanda era la migliore arnica di mia sorella. Con i piccoli King organizzavamo spettacoli teatrali per i nostri genitori. Avevamo anche un insegnante di recitazione, Walter Roberts: sì, il papà dell'attrice Julia. Spesso zio Martin ci riprendeva: fu allora che iniziai a recitare».
Non ascoltò suo padre, ma prestò almeno attenzione al "sogno"? «Oh sì. Quando disse: "Sogno che i miei figli piccoli vivano un giorno in un Paese dove non saranno giudicati per il colore della pelle ma per la qualità del loro carattere", io e mia sorella saltammo in piedi gridando e agitando le braccia. Eravamo felici. Sapevamo che non parlava solo dei suoi figli ma di tutti i bambini afroamericani. Difendeva il nostro diritto al futuro».
Suo padre collaborò alla stesura di quel memorabile discorso... «La notte prima fu incredibile: non dormì nessuno, nemmeno noi bambini. Nella hall del Willard Hotel, scelto perché cuore politico della città, tanto che pure la parola "lobbista" viene da lì, zio Martin, papà e altri trascorsero ore a suggerire passaggi e limare ogni frase. Il discorso andava pronunciato in otto minuti e doveva essere efficace! Fu chiesta privacy ai camerieri: ci sistemarono piante intorno. Osservavo i grandi scrivere e sembrava facile. Volli contribuire con un disegno. Sì, diversi passaggi sono di mio padre. La frase letfreedom ring, "risuoni la libertà", la usava alla fine di ogni lettera. E free at last, "liberi finalmente": la ripeteva nei sermoni. Ma quella notte accadde ben altro...».
Che cosa accadde? «Era stato montato un impianto sonoro raffinato, capace di far ascoltare la voce degli oratori all'immensa piazza. Era costato una fortuna, ventimila dollari raccolti con le sottoscrizioni. Fu sabotato: e sembrava irrimediabile finché uno dei pastori, Walter Fauntroy chiamò Robert Kennedy, il ministro della Giustizia: "Se le 250 mila persone in arrivo non sentiranno le voci dei leader il rischio di disordini diventerà reale" gli disse. E quello mandò gli ingegneri dell'esercito a riparare il danno. La stessa notte l'arcivescovo di Washington Patrick O'Boyle minacciò di ritirare l'appoggio della Chiesa cattolica alla Marcia, infastidito da un passaggio del discorso di John Lewis, capo del coordinamento degli studenti non violenti, trapelato per caso. Toccò svegliare John alle due di notte e convincerlo a eliminare quelle frasi dure verso l'amministrazione Kennedy, dove criticava il disegno di legge sui diritti civili presentato due mesi prima dicendo: Too late and too little, "troppo poco e troppo tardi"».
Sessant'anni dopo cosa resta del sogno di Martin Luther King? «L'odio razziale ha di nuovo travolto l'America. Un brutto colpo per chi come me, bisnipote di schiavi, si è battuta per i diritti civili tutta la vita. Certo, non dimentichiamolo, già subito dopo la Marcia su Washington, successero cose terribili. Poche settimane dopo il Ku Klux Klan tentò di intimidire il movimento piazzando una bomba alla Chiesa Battista di Birmingham, Alabama, all'ora del catechismo: morirono cinque bambine. Ma la Marcia cambiò per sempre le cose. L'odio razziale è rimasto, ma a lungo covato ai margini della società. Nei decenni successivi bianchi e neri hanno invece trovato il modo di andare gli uni verso gli altri, realizzando nuove forme di convivenza e integrazione. Il primo presidente afroamericano, Barack Obama, ha rappresentato l'apice per molti. Ma ha anche rinfocolato l'odio dei razzisti, poi alimentato e autorizzato dalla retorica dall'ex presidente Donald Trump. Oggi avere la pelle nera è nuovamente difficile. Sì, anche qui a Los Angeles mi ricordano continuamente il mio essere donna e afroamericana; magari cambiando strada quando m'incrociano o seguendomi in un qualsiasi negozio come fossi una ladra. I bianchi pensano che vogliamo portargli via qualcosa: e non è vero. Soprattutto, dimenticano cosa hanno portato via loro a noi per secoli».
L'eredità di attivisti come suo padre e MLK è ancora viva? «Tutti gli afroamericani sanno di dovere la loro libertà alla strategia non violenta di Martin Luther King: sacrificò la sua vita per il nostro futuro, andando avanti nonostante le minacce. Mio padre Ralph usava ripetere una frase: "Il coraggio non è alzare la testa quando non hai paura, ma quando ne hai". È esattamente la lezione rilanciata dagli attivisti negli ultimi anni: continuiamo a chiedere giustizia per i troppi George Floyd, Breonna Taylon, Travyon Martin, Micheal Brown. Se non ci hanno mai fermato, è grazie al sogno di Martin Luther King».
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