"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 2 agosto 2023

ItalianGothic. 67 Diego Bianchi: «I contenuti di Salvini si annullano l'un l'altro reciprocamente da anni, irrilevanti per il loro stesso autore».


«(…). Le puntuali affermazioni di don Ciotti, presidente di Libera - "il ponte sullo Stretto non unirà solo due coste ma certamente due cosche" - scatenano l'ira funesta e scomposta del ministro Matteo Salvini, che definisce il sacerdote "signore oltretutto in tonaca" affetto da ''volgarità, ignoranza e superficialità senza confini", augurandosene l'espatrio. Gran finale: "Il ponte dello Stretto sarà la più grande operazione antimafia dal dopoguerra in poi". Evidentemente questo ministro vive in un mondo tutto suo, ove la mafia e la 'ndrangheta stanno tranquillamente a guardare, mentre sui loro territori - su cui da decenni esercitano un potere assoluto di intimidazione - si sviluppa un'opera di 13 miliardi di euro; eppure tutti sanno che da sempre la criminalità organizzata si infiltra nelle grandi opere. Infatti già l'appalto dei lavori del ponte sullo Stretto era stato oggetto nel 2005 di mire della mafia italo-canadese (famiglie mafiose Cultrera-Caruana e cosca Vito Rizzuto) e alcuni dei loro esponenti furono arrestati. Intanto, a sua volta, la 'ndrangheta, mediante violenze, intimidazioni, incendi ai cantieri, collusioni ecc, otteneva il subappalto dei lotti dell'autostrada Salerno- Reggio ricadenti in territorio calabrese. Senza dimenticare il criminale accordo (il "patto del tavolino") tra il capomafia Totò Riina e la grande impresa Calcestruzzi amministrata da Raul Gardini (oggi osannato dalla Rai) per la spartizione dei miliardari appalti pubblici in Sicilia: un pactum sceleris che fece dire a Giovanni Falcone, due mesi prima che lo facessero saltare in aria: “Adesso la mafia è entrata in Borsa". (…)». (Tratto da “Cazzola-Salvini-Ronzulli tre perle di sciocchezza” di Antonio Esposito pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del primo di agosto 2023).

Ha scritto Diego Bianchi in “Ministro del tweet” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 16 di giugno 2023: «Ed eccoci qua, per un'altra udienza in tribunale a Palermo per cui sono imputato perché da ministro feci quello che era il mio dovere e difesi i confini, l'onore, le regole, la dignità, la sicurezza del mio Paese da Ong straniere». Incravattato, con la spilla di Alberto da Giussano (testimone di così tante giravolte da sembrare ormai ostaggio di quel bavero di giacca), il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture passeggia nervosamente di buon mattino per corridoi vuoti e silenziosi dove far rimbombare la sua voce. Nonostante ruolo e circostanza, il ministro ha evidentemente del tempo. Fendendo l'afa a colpi di eroico vittimismo, da indefesso rabdomante dell'autostima non riesce a resistere alla tentazione di mendicare il consenso dei like del primo mattino. Il telefonino di Salvini, vera e propria scatola nera di alcune tra le più mortificanti performance della politica di questo secolo, non conosce ancora metadone in grado di attenuarne la forza attrattiva, la tossicità, la dipendenza e non saranno di certo i corridoi di un tribunale a scoraggiarne l'uso al possessore. Per restare alla forma, osservare dal vivo Salvini nell'atto di registrare video fissando il display del telefonino, magari puntando l'indice verso amici immaginari al di là dello schermo, è un'esperienza che dovrebbe fare chiunque ambisca a decifrare le miserie della comunicazione politica di questo tempo. E siccome la prima volta non si scorda mai, il ricordo di lui che stordisce di elenchi i suoi follower passeggiando malfermo sugli scogli di Lampedusa in occasione della sua prima invasione di quell'isola (erano tempi in cui vederlo al Sud faceva ancora un certo effetto), mi resterà indelebile al punto da farmi sembrare oggi normale che un ministro inganni l'attesa di un processo da imputato registrando video su Twitter. Quando l'algoritmo me lo propone, o quando il lavoro me lo impone, ormai soffermo la mia attenzione solo sulla forma, sulla postura, sulla location, su dettagli che ho sempre erroneamente ritenuto dovessero essere secondari nella comunicazione, soprattutto con contenuti tanto discutibili. Ma i contenuti di Salvini come più volte inutilmente ribadito per amor di satira o di coerenza, si annullano l'un l'altro reciprocamente da anni, con ostinazione, invecchiando rapidamente, irrilevanti per il loro stesso autore. Tweet dopo tweet, diretta dopo diretta, oltre ogni diritto all'oblio, impunemente, nessuno tiene testa a Salvini come Salvini stesso.

«Salvini, l’incontinente. Ennesima figuraccia: con Don Ciotti era meglio “tacere in tempo”», testo di Nando dalla Chiesa pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 31 di luglio ultimo: Salvini all’attacco di don Ciotti. Come metterla, per evitare di rimestare nella cronaca? Partirò da una poesia bellissima, che apparentemente non c’entra niente. Una poesia di Erri De Luca del 2002. Si intitola “Considero valore”. L’autore vi allinea in una sequenza stupenda di ciò che secondo lui ha valore, dall’ “assemblea delle stelle” a “sapere in una stanza dov’è il Nord”. Un insieme di fatti e cose e pratiche che nella loro trama armoniosa ci regalerebbero, se da tutti considerati valore, un mondo cento volte migliore di quello in cui viviamo. Tra questi c’è un verbo, precisamente qualificato: “Tacere in tempo”. Il cui significato scava un abisso tra la sapienza adulta e quella giovanile. Per la sapienza adulta “tacere in tempo” è infatti un valore perché risparmia le figuracce, sottrae a rappresaglie, evita di sbilanciarsi gratuitamente. Tutela chi parla, insomma. Ma per la sapienza dei miei studenti è un valore perché evita di “ferire inutilmente”, di fare del male a qualcuno che non lo merita. Tutela chi ascolta. Due modi di vedere la vita agli antipodi. Eppure nel caso di Salvini verso don Ciotti il tacere in tempo sarebbe stato un valore in tutti e due i sensi. Perché avrebbe evitato all’incontinente un’altra figuraccia, di lasciare scolpite nella memoria pubblica nuove parole che, per la loro incongrua violenza, lo appiccicheranno alla meno eccelsa storia politica del Paese in modo indelebile. Le famose parole che dopo un po’ di tempo bisogna rinnegare maldestramente (non l’ho mai detto, è stata una forzatura dei giornali) o confermare con orgoglio disastroso. Tipo l’uscita che chi vuol pagare un caffè con la carta di credito è un rompiballe, quando ormai, due anni dopo, bar e gelatai ti chiedono – loro!- di non costringerli ad armeggiare con gli spiccioli in cassa. Ma tacere in tempo avrebbe evitato all’incontinente anche di ferire non tanto don Luigi Ciotti (che ne ha vissute di ben peggio), ma l’intero popolo che in lui ha trovato un simbolo e una voce. Dalle migliaia di persone che hanno avuto nella propria famiglia una vittima innocente di mafia e che questo prete infaticabile sorregge tutti i giorni con una telefonata di conforto, trovando un avvocato, difendendo una causa, chiamando un prefetto, correndo a celebrare un battesimo; alle centinaia di migliaia di cittadini che dalla mafia si sentono minacciati nella loro vita quotidiana; alle più migliaia ancora che sono passate per il dramma della droga; ai milioni di credenti che in lui vedono una fede dal volto umano e amico, a partire dall’immenso mondo del volontariato: tutti arruolati dall’incontinenza maramalda di Salvini tra coloro che sarebbero felici di mandare don Luigi all’estero. Ma il non tacere in tempo procura anche effetti suicidi immediati. Io per esempio, dopo tanto tempo, ero diventato possibilista sul ponte sullo Stretto. Ma dopo avere letto le motivazioni del ministro non lo sono più. Non solo gonfie di retorica (e ci starebbe) ma gravide di quella cultura che ha fatto per un secolo e mezzo la fortuna della mafia a Sud e a Nord. Quella per cui ogni timore e denuncia del pericolo mafioso è un’offesa agli italiani e all’Italia, perché – come si sa – mafia camorra e ‘ndrangheta sono un’invenzione delle fiabe cattive. Se mi avessero chiesto come potrebbe replicare un ciarlatano ai timori di don Ciotti avrei detto esattamente in quel modo. Con la storia delle grandi opere che danno il lavoro che sconfigge la mafia, con l’offesa al buon nome delle popolazioni. Ma il ministro non è un ciarlatano. È vero, prende le parole dall’aria che gli sembra di avere intorno e ci soffia dentro. È già stata la sua sfortuna; perciò, d’altronde, non fa più il ministro dell’Interno. Ma quella reazione così irragionevole e offensiva mi ha insospettito, e molto. Perché il non tacere in tempo mette nell’aria perfino più parole di quelle che escono dalla bocca.

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