"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 24 agosto 2023

Memoriae. 69 Giancarlo Gaeta: «L’umanesimo di Simone Weil si riconosce nella fede cristiana».


Oggi, 24 del canicolare agosto, si ricorda la morte – avvenuta nell’anno di guerra 1943 - di Simone Weil, sfiancata dal lungo digiuno volontariamente intrapreso per solidarietà con gli umani privati della vita dalla terribile guerra. “Simone, radicale libera”, intervista di Marco Cicala al professor Giancarlo Gaeta – già professore di “Storia del cristianesimo antico” presso l’Università di Firenze – pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” dell’11 di agosto 2023: (…). …un breve excursus biografico. Novembre 1942: dopo aver accompagnato i genitori negli Stati Uniti per metterli al riparo dalle persecuzioni antisemite, Simone Weil raggiunge in Inghilterra i ranghi della France Libre, la resistenza in esilio facente capo a Charles de Gaulle. A Londra Simone scalpita, vorrebbe subito entrare in azione, magari farsi paracadutare in patria per unirsi alla lotta contro l’occupante nazista. Invece, con suo sommo scorno, verrà messa a lavorare di concetto. La piazzano in un ufficio, col compito di elaborare progetti politici e istituzionali per la ricostruzione della Francia post-bellica. Orizzonte che in quel momento, nonostante la cruciale disfatta tedesca a Stalingrado, appare ancora passabilmente remoto. Ma chi è Simone Adolphine Weil in quei primi anni 40? Una ragazza la cui vita ha già assunto i tratti romanzeschi di un’epopea del Novecento. Parigina, figlia della buona borghesia laico-israelita, è stata una brillantissima studentessa di filosofia, poi è andata a insegnarla nei licei di provincia. Dapprima filocomunista, in seguito più convinta militante anarco-sindacalista, ha scioperato accanto a disoccupati e minatori, ha sgobbato nelle fabbriche, nelle campagne, perfino coi pescatori di notte. Ha attaccato lo stalinismo e ospitato Trockij a Parigi, ma litigandoci. Nella Germania all’alba dell’hitlerismo ha registrato con impareggiata perspicacia lo sfascio del movimento operaio e dell’idea stessa di rivoluzione. Allo scoppio della guerra civile spagnola si è arruolata nelle colonne degli antifascisti libertari. Ma nel frattempo si è pure avvicinata al cristianesimo, se ne è fatta “rapire” aderendovi sempre più totalmente, mantenendosi però sulla soglia della Chiesa cattolica, con la quale rimarrà in dialogo fortemente critico. Miscela di mistica, pauperismo, correnti ereticali, filosofia greca e sapienze orientali, quello di Simone Weil è un cristianesimo “fuori serie” su cui gli esegeti continuano a scervellarsi. Anche perché nel suo pensiero la spiritualità è indissociabile dall’azione. È solo nella densità umana, corporea dell’agire politico che Weil ritiene di poter pervenire a una lucidità speculativa. Comprensibile perciò che, seppur assegnata a un ruolo di prestigioso funzionariato intellettuale, Simone si sentisse nell’ufficetto londinese di Hill Street come un animale in gabbia. Alla frustrazione reagì gettandosi in una poligrafia matta e disperatissima. Nei pochi mesi che le restano da vivere, Weil mangia quasi niente, scrive testi folgoranti di tema politico, filosofico, religioso… Il Sacro, la Giustizia, i Partiti, il marxismo, la questione coloniale... Finché un giorno non si presenta al lavoro. I colleghi si preoccupano. Le entrano in casa e la trovano svenuta sul pavimento, tra i manoscritti. È uno straccio, ha la tubercolosi. Sarebbe curabile, ma rifiutando il cibo (per solidarietà, dice, con chi in tempi di guerra ne è a corto) non si aiuta. La sera del 24 agosto 1943, muore nel Grosvenor Sanatorium di Ashford, Kent. Ha 34 anni. Professor Gaeta, tra quegli ultimi scritti ce n’era uno, incompiuto ma più esteso e articolato degli altri, che può essere considerato il testamento spirituale di Simone Weil… «Uscì nel 1949, per volere di Albert Camus, col titolo di L’enracinement, “il radicamento”, nella traduzione italiana di Franco Fortini La prima radice. Ma il titolo assegnato dall’autrice era Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano. Fu giudicato editorialmente meno efficace. Però avrebbe evitato una serie di equivoci».

Quali? «Quelli legati alla nozione di “radici”».

Che oggi, in tempi di ruggiti identitari, è tornata in grande spolvero. «Tanto in Francia che in Italia ci sono stati tentativi di appropriazione del pensiero di Simone Weil da destra. Quasi che la sua idea di “radicamento” rimandasse a concezioni nazionaliste o patriottarde».

Quelle concezioni erano non solo estranee al suo percorso politico e intellettuale, ma nelle ore più buie del secolo Weil ne denunciò gli esiti calamitosi. «In lei l’esigenza di radicamento è inseparabile dalla giustizia, dal rispetto verso ogni essere umano senza eccezione. È animata dalla preoccupazione dei limiti da assegnare alle ambizioni, agli appetiti, agli egoismi sociali. Nella sua visione, l’individuo è un essere determinato – cioè fisicamente legato a un ambiente naturale, umano, storico, culturale – ma che, insieme, appartiene all’universale. Nel Preludio Simone Weil esprime la necessità di un nuovo radicamento dopo aver analizzato i processi in atto di sradicamento – operaio, contadino, geografico – che nella modernità hanno estraniato l’individuo a se stesso, lo hanno confinato nei particolarismi nazionali e parcellizzato nel lavoro industriale, lo hanno separato dal proprio passato, ma pure da un futuro ormai schiacciato sull’idea di progresso tecnologico».

Insomma processi che dell’individuo avrebbero atrofizzato la parte di umanità, la sua quota di “universale”. Messa in questo modo, però, Simone Weil potrebbe essere presa per un’antimoderna. «Non lo è. Nel Preludio tenta piuttosto di ripensare la modernità dai fondamentali della vita sociale: istituzioni, lavoro, economia, giustizia, educazione, o gli stessi concetti di Stato e nazione».

Vasto programma. Tanto più che l’obiettivo non era la ricostruzione della sola Francia, ma dell’Europa. «Una Europa da rifondare ex novo, in controtendenza con tutto ciò che ne aveva determinato la crisi irreversibile. Crisi culturale, etica, politica che, agli occhi di Weil, rischiava di ridurre l’Europa post-bellica all’irrilevanza, alla subalternità in un mondo polarizzato tra Stati Uniti e Urss».

E difatti le cose sarebbero andate a finire proprio così. Le pagine di Simone Weil respirano di un umanesimo talmente radicale da dare il capogiro. Un umanesimo intransigente, per niente carezzevole. Lei come lo definirebbe? «È un umanesimo religioso, ma diverso se non contrario da quello di intellettuali cattolici quali Jacques Maritain o Emmanuel Mounier. E d’altra parte critico verso quello marxiano che tende a risolversi in una “religione” senza trascendenza. L’umanesimo di Weil muove dal riconoscimento di una realtà che sta al di fuori di questo mondo e che è il fondamento unico del Bene. Così come la realtà del mondo, che lei chiama “necessità”, è il fondamento unico dei fatti. L’umanesimo di Simone Weil si riconosce nella fede cristiana, ma per lei tutte le religioni autentiche sono testimonianza dell’origine soprannaturale di ogni bene presente nel mondo, di ogni bellezza, verità, giustizia».

Con il proprio ebraismo però Weil ha un rapporto a dir poco complicato… «Simone proviene da una borghesia ebraica totalmente assimilata. Si sente francese a pieno titolo. Per lei la questione dell’identità ebraica neppure si poneva. Si porrà con la guerra, al momento delle persecuzioni che giocoforza la relegano in una comunità separata. Weil soffre quell’identità imposta dalla discriminazione come una iattura, ma deve accettarla, farsene carico. Però quando a Londra le verrà chiesto di redigere un report sullo statuto delle minoranze non cristiane nella Francia liberata, si esprimerà a favore di un’assimilazione talmente estrema da cancellare nella società ogni traccia di ebraicità. A muoverla non era, come suggerito da qualcuno, un ebraico “odio di sé”, men che meno un qualche “antisemitismo ebraico”, piuttosto immaginava ingenuamente che la totale integrazione avrebbe protetto gli ebrei da future persecuzioni. Un’integrazione che tuttavia avrebbe occultato di fatto l’enorme contributo culturale e spirituale che storicamente l’ebraismo ha dato alla civiltà europea».

Ma la sua critica all’ebraismo aveva anche radici filosofico-religiose. Simone Weil ha in massima antipatia l’Antico Testamento. Al Dio degli eserciti e della forza contrappone il Cristo. «Nel suo tentativo umanistico di riconciliare la fede con la razionalità scientifica, Weil cerca di saldare il cristianesimo alla cultura greca. Ma è una forzatura. Senza la radice ebraica il cristianesimo non è pensabile, non sta in piedi».

Di fronte al nazismo Weil si spende in azioni umanitarie, però sorprende il suo silenzio sulle persecuzioni antisemite. Certo, non poteva ancora conoscere le dimensioni della Shoah, ma nei suoi scritti non troviamo praticamente una parola di compassione circa il destino riservato agli ebrei. «È vero. Questo è in lei un cono d’ombra, un punto oscuro che non riusciamo a spiegarci».

Torniamo alla politica. Oggi viviamo nell’epoca dei “diritti”. Mentre, col suo evangelico spirito di contraddizione, Weil insiste sul concetto di “doveri”, di “obblighi” verso l’essere umano. In che senso? «Senza negare importanza ai diritti dell’uomo come formulati a partire dal 1789, Simone Weil rileva che la nozione di diritto è connessa a quella di “forza”. In un passo scrive: “Il diritto si regge soltanto su un tono di rivendicazione, e una volta adottato questo tono, non lontana, dietro di lui, c’è la forza per sostenerlo”. L’obbligo riposa viceversa su una visione che considera “ogni essere umano senza eccezione come qualcosa di sacro”, qualcosa che esige un rispetto incondizionato perché rinvia a un Bene trascendente, irriducibile all’ambito dei fatti. Ambito dominato e deciso dai rapporti di potere, dalla forza».

In un altro testo degli anni Quaranta propugnava invece la soppressione dei partiti politici. Ovviamente non in chiave totalitaria, ma di democrazia radicale. «Negli anni Trenta, Weil aveva assistito al declino di partiti e sindacati che si erano trasformati in “chiese” ideologiche, in meri agglomerati di potere. Per la Francia e l’Europa post-belliche immaginava un nuovo modello democratico dove sarebbe stata centrale quella che oggi diremmo la “società civile”. Una realtà fatta di movimenti, associazioni, riviste, dibattiti di idee... Quella realtà avrebbe dovuto esprimere i rappresentanti eletti del parlamento. Esponenti politici non più vincolati a interessi e consegne di partito, ma alla propria coscienza, alle responsabilità del mandato, al bene pubblico. Tutte nozioni che adesso, nello stato di deliquescenza in cui versa la politica, suonano astratte, idealistiche, utopiche. E tuttavia, per Simone Weil la vita democratica non dovrebbe risolversi nell’immanenza del gioco politico, ma radicarsi nel sentimento della trascendenza. Il sentimento racchiuso, appunto, nel concetto di “obbligo”, che stabilisce la sacralità di ogni essere umano, e che come tale dovrebbe ispirare il governo della cosa pubblica».

Nella denuncia della “partitocrazia”, Weil sarà pure stata profetica. Però noi sappiamo che, nel bene e nel male, la ricostruzione del dopoguerra si fece anche grazie ai grandi partiti popolari. Dei quali oggi c’è chi ha nostalgia... «Certo, quei partiti incarnavano ancora un’idea di società, di emancipazione, di futuro e, se vogliamo, di “uomo” che ormai si è persa. Ma poi sono tornati a essere le organizzazioni di potere denunciate da Simone Weil. I grandi partiti popolari si sono dissolti, ma la logica partitica domina ancor più la politica, ridotta agli interessi di parte verificati attraverso il puro consenso elettorale».

Lavorando in fabbrica, Weil aveva vissuto e sofferto la condizione operaia nel sistema tayloristico-fordista di produzione. Anche per questo auspicava che la ricostruzione economica ripartisse da un modello diverso, imperniato su quelli che lei chiamava i petits ateliers, diciamo una piccola-media impresa a misura umana. Ma la storia del capitalismo post-bellico avrebbe imboccato una direzione diametralmente opposta: grandi concentrazioni, monopoli, poi globalizzazione, economia delocalizzata, ora digitale… Insomma il perfetto contrario di un “nuovo radicamento”. Anche qui le analisi di Weil peccavano di velleitarismo? «Tutte le sue riflessioni, e specie quelle politiche, sono discutibili. Ma per coglierne il significato profondo andrebbero ricollocate nel contesto temporale ed “esistenziale” nel quale vennero elaborate. Weil ha di fronte un’Europa ridotta al grado zero. In quel paesaggio di rovine avvista però una grande occasione storica. È come se si dicesse: più in basso di così non si può scendere, dunque non ci resta che ricominciare, ricostruire, ripensare radicalmente tutto... Società, politica, istituzioni, industria... Se non ora quando? Negli ultimi scritti si avverte con forza questo senso di urgenza, l’impellenza di una chance da afferrare prima che sia troppo tardi. Quando, alla fine degli anni Quaranta, intellettuali come Camus scoprono il pensiero politico di Weil sentono che quell’occasione è già sfumata».

Da quel sentimento emergenziale Simone uscirà frustrata, battuta, distrutta. A dispetto della sua vitalità, non si uccide, ma quasi: piomba in un cupio dissolvi, si lascia morire. «Nell’impossibilità di passare all’azione, si abbandona alla morte. Dalle ultime lettere emerge un senso di sconfitta. Come se tutto quello che aveva intrapreso fosse finito in un fallimento. L’idea della fama postuma non la sfiorava nemmeno. Per lei il pensiero, tutto il pensiero, deve operare nella realtà del presente e riceverne la verifica, qui ed ora. In questo, il confronto finale a Londra col circolo politico del generale de Gaulle è esemplare, se ne potrebbe trarre un dramma».

Si è parlato di un suo battesimo ricevuto in articulo mortis. Che cosa c’è di vero? Che cosa ne sappiamo? «Ne sappiamo solo quanto riferito da Simone Deitz, l’amica che la trovò svenuta in casa e che la fece ricoverare. Deitz, un’ebrea convertita, raccontò di aver chiesto a Weil se avrebbe accettato di farsi battezzare agonizzante. Weil le avrebbe risposto che se fosse stata incosciente, la cosa le sarebbe stata indifferente. Una risposta che dovrebbe metter fine a tutti gli interrogativi. Simone Weil si considerava già da tempo cristiana. L’unico motivo che avrebbe potuto convincerla a battezzarsi non era entrare nella chiesa cattolica, ma ricevere l’eucaristia, sacramento da cui senza il battesimo rimaneva esclusa».

Perché leggere o rileggere oggi Simone Weil? «L’approccio al suo pensiero è ormai sempre più privato e nient’affatto politico. Una lettura che ne mutila notevolmente la forza, la capacità critica di opporsi allo stato delle cose e ai poteri che le governano. Purtroppo, in questi ottant’anni, né la Sinistra né il cattolicesimo politico sono stati in grado di recepire una riflessione che si era impegnata fino allo spasimo per impedire la deriva a cui si vedeva esposta l’Europa, deriva di cui ora stiamo subendo gli effetti. Non si è capito che il suo pensiero rappresentava l’antidoto sia al dogmatismo che al liberismo e apriva ad una concezione più comprensiva della politica. Ciò detto, gli scritti di Weil restano un potente aiuto a sviluppare l’interiorità, a sentire malgrado tutto la bellezza del mondo, il mistero della creazione intellettuale e artistica, a non smarrire il desiderio della trascendenza, comunque la si intenda».

A un livello di fede come quello di Simone Weil, che Dio esista oppure no, alla fine è davvero l’ultimo dei problemi. «Sì, conta il desiderio di Dio, un rapporto d’amore vissuto nella contraddizione tra la necessità e il Bene».

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