"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 14 luglio 2023

ItalianGothic. 66 Malcom Pagani: «Ho ripensato agli ultimi trent'anni: anni persi, agri, animati da intenzioni non sempre benevole. Ho ripensato al nostro romanzo popolare».

                    Sopra. Lettera (1984) di Silvio Berlusconi a Bettino Craxi. 

Ha scritto Malcom Pagani in “L’unico giudice che conosco” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” dell’8 di luglio 2023: (…). Silvio Berlusconi è entrato nella mia vita quando i primi soprusi (l'entrata a scuola alle 8, i compiti a casa, le pagelle) mi strapparono all'innocenza. Di lui sapevo che era l'uomo del calcio e della televisione. Tanto mi bastava. E tanto mi bastò. Con la televisione vivevo in simbiosi. Era la mia trinità, la mia messa laica. il mio eden. I pupazzi e le trasmissioni. Bim Bum Bam, Corrado e la ruota de Il pranzo è servilo. Il sabato di pioggia alla Standa. Conoscevo ogni dettaglio di J. R, Sue Ellen e di Love Boat. Riconoscevo il timbro di Little Tony: «Mare, profumo di mare, con l'amore io voglio giocare» e del querulo pappagallo bianco di Robert Blake in Baretta, Fred. Ero uno tra i 35 milioni che passavano ogni giorno su quegli stessi canali sui quali Berlusconi annunciò il suo ingresso in politica. Così, all'epoca in cui occupando con la mia ignoranza i banchi del liceo, mi venne chiesto conto dell'epoca precedente, diventai pappagallo anche io. E di fronte all'occasione di imitare, di parodiare da leaderino studentesco, altri slogan mi ripetei che no, che Berlusconi stava esagerando, che la discesa in campo era troppo, che non avrei mai sposato la sua discutibile compagnia di giro e tutte le cose che si dicono più per conformismo che per vera convinzione a 18 anni. Non ho mai creduto al Berlusconi politico e non l'ho mai votato, ma anche se lutto è una parola enorme, il giorno in cui è morto mi è dispiaciuto come fosse accaduto a un parente. Mi sono ricordato com'ero io. E mi sono ricordato com'era lui. Mi sono ricordato dei pomeriggi con Arnold e di un orrendo cimelio, un cappello con le treccine di Gullit piovuto chissà come da Milano. Mi sono ricordato delle volte che mi ero arrabbiato con lui e di tutte le altre in cui, di fronte a un film già visto, ero rimasto indifferente. Ho ripensato agli ultimi trent'anni: anni persi, agri, animati da intenzioni non sempre benevole. Ho ripensato al nostro romanzo popolare, ai viaggi che portavano sempre allo stesso punto, al declino, alla fatica di invecchiare. Avevo lavorato con il massimo della libertà nel giornale più antiberlusconiano di sempre, ma verso Berlusconi covavo lo stesso sentimento che nutrivo verso Bruno Cortona ne Il sorpasso. Sempre inopportuno, fuori posto e sguaiato. Ma sempre se stesso. Non mi fidavo, ma mi era simpatico. L'unico giudice che conosco è il tempo: il solo in cui la legge è uguale per tutti.

Dalla introduzione - dello stesso Autore - al volume “Il Santo” di Marco Travaglio riportata su “il Fatto Quotidiano” di oggi, venerdì 14 di luglio: (…). Avevo deciso di non scrivere più libri su Silvio Berlusconi. L’ultimo doveva essere B. come Basta! (2018), come diceva il titolo stesso… Ogni volta che le mani prudevano ed erano tentate di tornare a dedicargli qualcosa di più di un articolo, a dissuadermi provvedeva la dedica che la simpatica canaglia aveva scritto una decina di anni fa su un libro fotografico pesante mezzo quintale, L’Università della Libertà, portatomi in dono in un incontro privato dalla sua fidanzata di allora Francesca Pascale: “A Marco Travaglio, con stima. Da un combattente per la libertà a un altro combattente per la libertà… ma su un fronte diverso. Per sempre? Chi lo sa?! Silvio Berlusconi”. Già, perché lo spietato epuratore che per vent’anni aveva tentato di rovinarmi la vita e di stroncarmi la carriera più volte, direttamente con denunce miliardarie e indirettamente creandomi il vuoto intorno attraverso editori, direttori e conduttori al suo servizio, era pure simpatico. Ci provava sempre. E il miglior modo per non cascarci era ignorarlo, dopo che avevo scritto ormai tutto di lui, o così almeno credevo. Poi è morto. E tutto è cambiato. Non con l’indecenza del lutto nazionale e delle beatificazioni alla Camera e al Senato… Ma quando un giornalista “indipendente” e pure “storico”, Paolo Mieli, è andato in tv a scusarsi per aver fatto il suo mestiere dando una notizia vera, l’unico scoop che gli si ricordi: quello del suo Corriere della Sera, che il 21 novembre 1994 rivelò in anteprima (insieme ad Avvenire) l’invito a comparire inviato dalla Procura di Milano all’allora presidente del Consiglio per tre tangenti alla Guardia di finanza. Poi, non contento, si è molto doluto del fatto che i magistrati non l’avessero torchiato a dovere per fargli sputare il nome della sua fonte, che lui – in spregio alle più elementari regole della professione – avrebbe volentieri spiattellato, investigando sui turpi moventi della fuga di notizie. Quel tragicomico atto di pentimento, seguito dall’analogo mea culpa di uno dei due giornalisti che avevano firmato lo scoop, Goffredo Buccini (l’altro era Gianluca Di Feo), mi ha provocato uno sbocco di vergogna a nome della categoria a cui purtroppo appartengo… In quel preciso istante ho raccolto tutto il materiale archiviato in quasi trent’anni e ho deciso di metterlo a disposizione dei lettori per un libro davvero definitivo. Altro che progetto di ibernazione, come qualcuno sospettava alla vista del poderoso gruppo elettrogeno montato nel mausoleo di Arcore: qui il vero pericolo è la clonazione. Se è vero, come diceva Karl Marx, che le tragedie della storia si ripetono sempre in forma di farsa, abbiamo come il sospetto che valga anche l’opposto: e cioè che la farsa berlusconiana possa ripetersi in forma di tragedia, anche se non riusciamo ancora a immaginarla. L’antipasto ce l’ha servito il governo di Giorgia Meloni, che avrebbe potuto seppellire il berlusconismo insieme al suo creatore, da cui giurava di non essere “ricattabile”. E invece ha deciso di perpetuarlo fin da subito, come se non bastassero i 12 condoni fiscali appena varati nella legge di Bilancio… Il cosiddetto ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dedicato al caro estinto la sua prima schiforma: quella che impone di avvertire gli arrestandi con cinque giorni d’anticipo e depenalizza il più odioso e subdolo dei reati del potere contro i cittadini, l’abuso in atti d’ufficio, legalizzando i favoritismi, le raccomandazioni e le scorciatoie giusto in tempo per arraffare la cascata di miliardi del Pnrr e dirottarla nelle solite mani (mani trasversali, visto che pure i sindaci del Pd, anch’esso ormai irrimediabilmente berlusconizzato, se le spellano per applaudire il Guardagingilli). Dal conflitto d’interessi personale all’impunità di gregge. Dalle leggi ad personam alle leggi ad personas. Non più per un Berlusconi solo, ma per tanti berluscloni. A ben guardare, gli autodafé dei pochi giornalisti che in passato facevano il loro mestiere, così come le riabilitazioni trasversali dalla cosiddetta destra legalitaria alla presunta sinistra, è tutt’altro che casuale. È funzionale al sogno dell’establishment, che per noi cittadini è un incubo, di perpetuare il berlusconismo senza Berlusconi. E anche di evitare che, saltato il tappo, qualche boss di Cosa Nostra sepolto al 41-bis, persa ogni residua speranza di uscire con una legge ad mafiam, decida finalmente di dire la verità sui mandanti esterni delle stragi del 1992-’94 e sulla retrostante trattativa con lo Stato. Lo scoop del Corriere sull’indagine per le mazzette alla Guardia di finanza riguarda la quintessenza del berlusconismo con Berlusconi: il peccato originale da cui il cosiddetto Cavaliere è fuggito per quasi mezzo secolo, nel terrore di esserne raggiunto. Nel 1974, insieme a Marcello Dell’Utri, aveva stretto un patto di ferro con Cosa Nostra quand’era solo un palazzinaro parvenu. E pochi mesi dopo aveva lanciato la scalata al sistema televisivo, grazie alle protezioni della loggia deviata P2 e della politica marcia dei vari Craxi e Andreotti. Due imprese che richiedevano molti soldi, non solo per costruire città-satellite e per acquistare antenne ed emittenti, ma anche per pagare i protettori, mafiosi e politici. E poi per comprarsi i poteri di controllo che avrebbero potuto scoprirlo e fermarlo – la Guardia di finanza e la magistratura – e il silenzio dei testimoni e dei complici che avevano visto, saputo o collaborato con lui a violare le leggi. Soldi in nero, ovviamente. Meglio se all’estero, parcheggiati in società occulte ai bilanci del suo gruppo e nascoste in paradisi fiscali. Ecco la minaccia che gli si materializzò dinanzi agli occhi quel 21 novembre 1994, quando i carabinieri inviati dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli gli notificarono l’invito a comparire per quelle tre tangentine (che ben presto sarebbero diventate quattro) allungate dai suoi manager con i suoi soldi a un pugno di finanzieri per addomesticare gli accertamenti fiscali nelle sue società. La quarta mazzetta era stata pagata per addomesticare un’ispezione a Telepiù, la pay tv che lui controllava al 100% tramite prestanome pagati da lui perché la legge gli vietava di superare il 10. La sanzione, in caso di violazione, era la revoca di tutte le concessioni televisive, quelle di Canale 5, di Rete4 e di Italia 1. Con tutto quello che gli erano costate, tra i due decreti Craxi del 1984 (lautamente “contraccambiati”, come lui stesso promise in una lettera all’allora premier socialista (…) e la legge Mammì del 1990. Sarebbe stata la fine del suo impero televisivo, proprio quando quel formidabile propulsore di consensi l’aveva catapultato ai vertici delle istituzioni. Proprio quando non doveva più servire e pagare i politici perché le leggi su misura se le faceva da solo, gratis. Quelle quattro mazzettine, che insieme non arrivavano al mezzo miliardo di lire, potevano diventare la classica pietruzza che innesca la slavina e fa crollare tutto il castello di carte. Bastava un’ispezione seria sui conti del suo gruppo e sarebbero saltate fuori le centinaia di miliardi di fondi neri all’estero, usati per pagare premier, ministri, parlamentari, giudici, finanzieri, testimoni, correi, pali, prestanome per scalate illegali in Italia e oltre confine, e pure Cosa Nostra. Sarebbe stato il game over, proprio quando il gioco sembrava appena cominciato. E tutti i fatti sono stati confermati da sentenze definitive (quelle che hanno condannato i finanzieri corrotti e i manager Fininvest corruttori, salvo Berlusconi, assolto per insufficienza di prove). Altro che pentirsi per averli raccontati in anteprima. Quel che accade il 21 novembre 1994 concentra in un sol giorno e anticipa la storia dei 29 anni successivi, trascorsi dal Santo a scappare sempre più velocemente e spudoratamente da un passato che gli ghermisce le caviglie. Ecco allora le 60 leggi ad personam e ad aziendam, le nuove corruzioni di senatori e di testimoni (e poi di escort, anche minorenni, visto l’uso smodato e intensivo che ne faceva al tramonto della sua carriera di maschio latino), i soldi ai complici perché vadano in galera al posto suo e si cuciano la bocca (la famosa “giustizia eterologa”), gli impedimenti parlamentari suoi e dei suoi onorevoli avvocati per allontanare l’amaro calice delle sentenze. Il tutto con la complicità delle cosiddette opposizioni e di vasti settori della magistratura giudicante, che non solo non hanno mai pensato di perseguitarlo, ma anzi hanno sempre cercato ogni trucco e cavillo per salvarlo. Intanto le promesse elettorali si susseguivano sempre più mirabolanti, regolarmente tradite da un premier troppo impegnato a farsi gli affari suoi per occuparsi dei nostri. Tant’è che oggi nessuno, neppure fra i tifosi più sfegatati, è in grado di citare una sola sua riforma che abbia migliorato la vita di qualcun altro all’infuori di lui. (…). Mentre scrivevo, mi rendevo conto che in un qualunque altro Paese sarebbe bastata una sola fra le migliaia di vergogne che il Santo ha inanellato fino al 12 giugno 2023 per stroncare la carriera di un politico. In Italia, per lui, non sono bastate neppure tutte le sue. È questa devastazione culturale e istituzionale che oggi, dopo la sua dipartita, dovrebbe preoccuparci: non ciò che ha fatto, ma che abbia potuto farlo perché tutti glielo lasciavano fare. E quei tutti, diversamente da lui, sono vivi. Pronti a lasciar fare chi vuol fare come lui. Come disse Ettore Petrolini al loggionista disturbatore: “Io non ce l’ho con te, ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto”.

Nessun commento:

Posta un commento