"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 15 luglio 2023

Memoriae. 63 Melania Mazzucco: «Solo un paese plurale non invecchia, e non muore mai».


Ha scritto Silvia Truzzi in “Migranti e lavoro: parlano male e pensano peggio” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 20 di aprile 2023: (…). Lavoro, diritti umani e povertà (solo per fare qualche esempio) sono, nelle dichiarazioni di chi ci governa e nel discorso pubblico più in generale, una mera questione numerica e di funzionalità. Serve manodopera? Prendiamo i poveri del Venezuela, che hanno fame, sono cristiani e più simili a noi (sono anche meno colorati di altri). Ma il lavoro non a caso è fondamento della Repubblica perché la Costituzione gli riconosce il valore sociale non solo di strumento che consente la sussistenza, ma soprattutto di “tramite necessario” per l’affermazione della persona, come si leggeva nel manuale universitario del Mortati. Non qualcosa che “serve” al sistema economico, ma che serve ai cittadini per la realizzazione piena di ogni individuo nel suo vivere dentro la società. Stesso dicasi per l’immigrazione, un fenomeno complesso in cui non possono essere chiamate in causa unicamente le prospettive funzionali. I popoli si spostano da sempre (a causa di molteplici fattori, dalle guerre ai cambiamenti climatici, dai regimi dittatoriali alle crisi economiche) e oggi l’unico ragionamento che riusciamo a fare è quello dell’utilità. Il progresso non è sempre un miglioramento e l’impoverimento del pensiero, privo di qualunque visione a dispetto delle filippiche sull’identità e la tradizione, si traduce in un discorso sul vantaggio immediato, che non conosce né principi né etica. Quella che ascoltiamo tutti i giorni da dichiarazioni e talk show non è politica, è gestione contabile del presente, con particolare riguardo a vere e presunte emergenze. La società però non è un condominio a cui partecipare in base ai millesimi e i governanti non sono amministratori che si occupano del guasto dell’ascensore o del lavaggio scale. O almeno, non dovrebbe essere così.

«Mio nonno migrante come “loro”», testo di Melania Mazzucco pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di luglio ultimo: Vent’anni fa ho pubblicato Vita. La storia di mio nonno paterno, uno dei venticinque milioni di italiani che tra il 1861 e il 1976 (la data convenzionale con cui gli storici chiudono la prima e la seconda fase dell’emigrazione di massa) ha lasciato il suo paese per cercare una vita altrove (nel suo caso, l’America): non tanto fortuna - “l’oro” - benché se lo augurasse, ma semplicemente lavoro, e un’esistenza degna. In vent’anni sono accadute molte cose. Tutto è cambiato: in meglio, niente. (…). Nel 1903 mio nonno partì a dodici anni, i suoi compagni di traversata ne avevano sedici, ma capitava che tutti i maschi del suo paese fino ai quarant’anni fossero contemporaneamente all’estero. La metà sono tornati, gli altri mai più. Oggi hanno in media trent’anni, ma uno su cinque ne ha meno di venti. C’è un’intera generazione oltre-italiana. Nessuno può fermarla, perché cerca un futuro che qui non riesce a immaginare. Non si possono ancora decifrare le statistiche sui ritorni. (…). In vent’anni almeno cinque milioni di persone provenienti dall’Europa dell’est prima, dal Sud America, dall’Africa, dall’Asia poi, sono arrivate in Italia. Alcune per caso — durante un viaggio che prometteva di condurle nel più attraente nord Europa; altre per scelta, o per ricongiungersi con chi era partito prima, perché la catena migratoria è la rotta più certa. Gli immigrati sono stati ostacolati da leggi confuse e inospitali, da una macchina burocratica obsoleta e ostile. Sono stati accolti volentieri nelle fabbriche, nei campi e nelle stanze dei vecchi, dei malati e dei bambini. È stato consentito loro di insediarsi nelle città — per lo più in quartieri disagiati da cui gli indigeni, nello stesso momento, se ne andavano. A poco a poco hanno formato comunità numerose. Tendevano, come mio nonno e i suoi compaesani, a stare fra loro. Per proteggersi e aiutarsi a vicenda; ma anche perché la barriera della lingua, della cultura, talvolta della religione, innalza muri impenetrabili. Sono nati i loro figli. E poiché l’unica agenzia educativa dello stato si è rivelata la scuola, i bambini hanno imparato in classe la lingua, i modi e i comportamenti dei nativi. Ma sono rimasti stranieri, stritolati fra due negazioni. Quella delle loro famiglie, le quali - temendo che perdessero le radici e rinnegassero l’origine - hanno ostacolato la loro inclusione. A volte duramente. Ho visto lividi su volti di ragazzine e schiene di maschi striate di cinghiate. Perché? Le solite storie, già sperimentate anche dalle nostre seconde generazioni. Rimmel, mascara, ombelico a vista, una fidanzata di diversa etnia e con un altro Dio. L’altra negazione è dello Stato, che rifiuta loro la cittadinanza: in Italia prevale sempre e comunque la legge del sangue. Quale sangue? Gli emigrati del paese del nonno, divenuti americani da quasi un secolo, quando diventò di moda ricostruire la propria identità attraverso la mappa genetica, corsero a fare il test del Dna. Risultò che il loro sangue era un mix di popoli diversi e avversi: barbari (visigoti, ostrogoti, longobardi), africani (i discendenti degli schiavi di Roma, i pirati saraceni), caucasici (italici? romani?): quest’ultima percentuale, residuale. E poi è successo che si è bandita perfino la parola emigrazione. Ora chi se ne va “espatria”, anzi è un ex-pat - un anglicismo più chic, forse un eufemismo. E chi arriva è un “richiedente asilo” (quando, sempre più di rado, un rifugiato viene accolto; quando viene respinto è un fantasma illegale, uno scarto). Se non muore in mare, in un fiume di frontiera, nel deserto o sulle montagne, se sopravvive alla tratta degli schiavi (in Occidente abbattiamo le statue degli armatori che fornivano le navi per il trasporto dei neri ed elargiamo risorse a chi li imprigiona nei campi di raccolta) è un disperato ferito, traumatizzato e inerme: facile trasformarlo in un peso per la società, una zavorra, perfino un nemico. Eppure fin dal 1877 il segretario dell’organo governativo Giunta di Statistica definì l’emigrazione come “un fatto naturale”: «Pertanto deve essere riconosciuto a tutti il diritto civile di emigrare». È un diritto civile anche restare sulla propria terra: difenderla poi è un dovere. Ma da chi la odia, non da chi la sceglie. Mio nonno è poi tornato in Italia. Ho sempre creduto che nonostante tutto avesse fatto la scelta giusta. Vorrei crederlo ancora. Quando lui è partito, l’Italia aveva smesso da poco di essere un’espressione geografica, per diventare uno stato e una nazione. Gli italiani non sapevano nemmeno di essere tali. Lo hanno imparato partendo, restando, tornando, in trincea e in guerra, sperimentando la dittatura e costruendo dalle macerie un paese nuovo. La nostra storia di movimento è una storia di democrazia, che nella dinamica del sogno ci vede uguali - i poveri armati di volontà e forza fisica e gli studenti, gli scienziati e gli imprenditori muniti di diplomi e di idee. Perché la neghiamo anche al movimento degli altri? Questa mobilità mentale, fisica e genetica è la nostra vera identità, il nostro unico patrimonio. Solo un paese plurale non invecchia, e non muore mai.

Nessun commento:

Posta un commento