“Passaggio di tedeschi a Erra”, racconto di Natalia Ginzburg riportato in “Italica” di Giacomo Papi alle pagine 183/188 (Nota editoriale: Il racconto uscì in volume nel 2016 per Einaudi nella raccolta Un'assenza Racconti, memorie, cronache 1933-1988. (…). Fu pubblicato per la prima volta il 9 maggio 1945 sulla rivista «Mercurio» diretta da Alba de Céspedes. Il 13 luglio 1945 uscì in traduzione francese, ma con il titolo Tedeschi in Italia sul settimanale comunista parigino «Action». Nel 1951 fu ripubblicato su «l'Unità»). (…). Il giorno 9 non si seppe più nulla (dell’armistizio del ’43 n.d.r.). A Erra mancò la corrente e la radio rimase silenziosa. Il 10 arrivò l'automobile gialla e i tre uomini dall'uniforme. Era la stessa piazza dove c'era stata la fiera e la gente aveva cantato e ballato alla notizia dell'armistizio. Era la stessa piazza dove, la sera del 26 luglio, avevano portato tutti gli incartamenti del fascio e ci avevano pisciato sopra per sfregio. Quando arrivarono gli uomini dall'uniforme gialla, subito corse la notizia in paese che c'erano dei soldati forestieri, che parlavano fra loro in un linguaggio che non si capiva. La gente credette che fossero inglesi e uscì subito fuori a vedere. Ma Secondina disse: «Son tedeschi!». Secondina era la moglie di Bissecolo. Bissecolo era stato cinque anni in Germania da giovane, e adesso parlava tedesco coi nuovi soldati. «Scappate, son tedeschi!» disse Secondina. Allora tutti si misero a correre. Non sapevano dove scappare, correvan giù per il viottolo che porta nei campi, e le donne avevano i bambini in collo, e piangevano come fontane. «Ora che ci faranno?» dicevano. «Ci ammazzeranno subito con le creature?» Quelle che i bambini li avevano all'asilo dalle monache, si attaccavano alla campana del convento per pigliarsi ciascuna i suoi bambini e portarseli giù nel viottolo che scende nei campi. Dopo un poco il paese era tutto silenzioso e vuoto, solo ogni tanto si sentiva squillare la campana del convento. Gli uomini dall'uniforme non sembravano molto stupiti. Non dissero niente. Sulla piazza era rimasto solo Bissecolo, lui che parlava tedesco, e dei tedeschi non aveva paura. Se ne stava lì davanti a loro nel suo vestito di fustagno verde, e raccontava che era stato in Germania, da giovane, per cinque anni. Gli uomini gli domandarono a un tratto dov'era il brigadiere dei Carabinieri. Ma il brigadiere era già stato avvertito, uscì dalla caserma e andò incontro ai soldati sulla piazza. Era un giovanotto alto, col viso olivastro, coi capelli neri impomatati e le gambe un po' storte. Uno dei tre soldati si mosse per venirgli a parlare: gli altri rimasero con Bissecolo davanti alla macchina. Il tedesco disse: «Per Ascoli Piceno?». Le sue cosce grasse e robuste si disegnavano nella stoffa leggera dei pantaloni. Alla vita aveva un cinturone di cuoio, e ci aveva infilata una pistola. Il brigadiere era verde in viso. Si sentiva la fronte sudata ma non osava asciugarsi. «Vogliamo andare ad Ascoli Piceno» disse il tedesco «potete dirci se è questa la strada?» Aveva una voce tranquilla, persuasiva e gentile. Il brigadiere inghiottì la saliva. Finalmente cavò il fazzoletto di tasca - un fazzoletto listato di nero, perché da poco gli era morta la madre - e si asciugò adagio adagio la fronte, le mascelle e le mani. Il tedesco disse: «Ci hanno detto che si può passare anche di qui. Non avete una carta topografica?». Parlava in italiano molto bene. Aveva gli occhi verdi, le ciglia scure molto lunghe e folte. Il suo alito sapeva di vino. Il brigadiere disse: «Venite in caserma». Dopo mezz'ora i tedeschi risalivano nella macchina e filavano in su, dalla parte di Montereale. S'eran portati via la carta topografica del brigadiere. Bissecolo aveva dato loro due bottiglie di birra. Disse poi che l'avevano minacciato con la pistola, ma certo non era vero perché lui era sempre stato un bugiardo. Quando i tedeschi se ne furono andati tornò la gente dai campi, tornarono le donne coi bambini in collo e si misero tutti a ragionare sulla piazza e in bottega da Secondina. Bissecolo se n'era andato in città col carretto, e dicevano tutti che c'era andato per la paura di pigliarsene un sacco, lui che aveva parlato in tedesco e aveva regalato le bottiglie. Secondina non ce n'aveva colpa del marito che aveva, perché lei era la prima a patire con quella faccia da tisica, che il marito le negava anche il pane, ma al nemico regalava la birra. Le chiedevano tutti che cosa gli avevan detto a Bissecolo quei tre soldati, e lei diceva che gli avevano detto che scappavano tutti in Alta Italia per la paura degli americani. Questo non lo credeva nessuno che l'avessero detto, ma Secondina insisteva a giurare che avevano detto proprio così. Giuliano della Torretta diceva che bisognava farli prigionieri e invece quel mammalucco del brigadiere li aveva lasciati andar via, e anzi gli aveva dato perfino la carta topografica perché trovassero meglio la strada. L'indomani mattina passò una nuova macchina tedesca, ma questa volta era un camion e dentro c'eran sei o sette uomini col suo bravo fucile. Sulla piazza c'erano Giuliano della Torretta, il fratello del prete e Loretuccio il fornaio. Passò di corsa e fece un gran polverone, e quando fu sparito dietro la svolta, quelli si guardarono in faccia come tanti cretini, e Loretuccio si tolse il berretto e lo sbatté per terra. Giuliano della Torretta disse: «Non bisognava lasciarli passare! Fessi che siamo stati!». Andarono a prendere un trave davanti alla casa di Loretuccio, e con quello sbarrarono la strada. Dopo un poco arrivò un altro camion, e davanti al trave sterzò. Tedeschi sopra ce n'erano cinque. Loretuccio e Giuliano della Torretta se ne stavano appoggiati al muro, ma il fratello del prete se ne andò, con la scusa che gli doleva il ventre. I tedeschi gridarono qualcosa nella lingua loro, ma Loretuccio e Giuliano della Torretta se ne stettero fermi, fumando e guardando fisso per terra. Uno dei soldati allora spianò la pistola, dicendo in fretta le parole di prima, e a parlare gli si gonfiò tutto il collo. Loretuccio e Giuliano della Torretta levaron via il trave dalla strada, e il camion sparì via dietro la svolta. Loretuccio e Giuliano della Torretta ritornarono a casa. Giuliano della Torretta non aveva nessuno, ma Loretuccio aveva sette figli, sette come i peccati mortali, che la minestra non bastava mai. La faccia del tedesco con la pistola gli stava sempre ferma nella memoria, che lui per un miracolo era vivo, l'aveva assistito la Madonna. Da allora le macchine passarono senza che più si potesse contarle, passavano in un gran polverone, e sparivano via dietro la svolta. Ce n'eran certe col ramo d'olivo e la bandiera della Croce Rossa sul tetto, e altre lunghe e lucide come dei pesci, altre piccine screziate di verde, e filavano via come saette. A Erra non se n'erano mai viste tante, e Boschetto il cane di Attilio rimase ucciso, che lui ci pianse tutta una giornata. Alcune erano macchine italiane con dietro scritto Genova o Torino, con dentro c'erano soldati tedeschi, in uniforme e col fucile spianato. La gente adesso non scappava più, per i campi, ma stavano a guardare a bocca aperta sull'uscio di casa. Il 15 di settembre arrivò la notizia che i tedeschi avevan occupato la città. Avevan requisito i due alberghi e i depositi di benzina. Passeggiavano come a casa propria nella bella città e si sedevano a mangiare il gelato e bevevano il vino. Il brigadiere si levò la divisa, che non pareva più lo stesso uomo, e anche i due carabinieri si levarono la divisa e il fucile; Arielle, il carabiniere più giovane, aveva una gran toppa nei calzoni e non faceva più paura a nessuno, e le ragazze non gli davan più retta, che lui se ne struggeva dal dispiacere Un giorno arrivarono anche i fascisti repubblicani, ma non facevano paura a nessuno perché tanto li conoscevano: une era Vargas che era stato podestà di Erra, l'altro era il figlio del farmacista di Montereale. Andarono dal veterinario e gli portarono via gli stivali, e gli sfasciarono tutta quanta la radio perché sentiva le notizie di Londra. Di radio a Erra non ce n'erano altre, e così non si seppe più nulla della guerra e del resto. Il 5 ottobre capitarono a Erra due prigionieri inglesi Uno era un negro. Venivano giù dalla montagna e avevano la camicia strappata, ma le scarpe le avevan belle e solide che si capiva che eran fatte a Londra. Arrivarono giù dalla montagna e capitarono in piazza e tutti subito gli corsero intorno a festeggiarli come una salvezza. Loretuccio badava a domandare quando arrivavano i compagni loro, e ognuno si sentiva più contento, con quei due prigionieri nel paese. Ma intanto le automobili tedesche seguitavano a correr via come frecce, che era un tormento che stringeva il ventre, e il suono delle trombe lacerava l'aria, perdendosi lontano dietro la svolta. Quei prigionieri li portarono dal brigadiere, e il brigadiere inghiottì la saliva e mandò a chiamare Giuliano della Torretta. Giuliano della Torretta arrivò, col berretto calato sugli occhi e la pipa fra i denti; e il brigadiere gli chiese dove diavolo si poteva nasconderli. Giuliano della Torretta restò un poco a pensare, e poi gli venne in mente Nazarena che abitava lontane dal paese, sulla riva del fiume. Allora il brigadiere e lui andarono con i prigionieri. Nazarena era una vecchia senza marito, con la faccia bruciata e un occhio cieco, perché da piccola era caduta nel fuoco. Nazarena quello bianco lo voleva, ma quello nero non lo voleva. Ci volle un pezzo a convincerla. Il 7 ottobre, due giorni dopo ch'erano arrivati i prigionieri, all’osteria della Cagnaccetta ci venne un tedesco. Era un sergente: si chiamava Otto Keller. Così disse e parlava un po' d’italiano, e subito ancor prima d'essersi seduto, raccontò che non aveva nessuno perché tutta la sua famiglia era morta in un bombardamento a Colonia. Abbracciava la Cagnaccetta e la chiamava «Mutti». Era ubriaco ancor prima di bere, si vedeva ch'era arrivato già gonfio di vino, e la Cagnaccetta che aveva una figlia di quattordici anni, la spinse di nascosto nel cesso e chiuse a chiave la porta, dalla paura che le facesse uno sfregio. Il tedesco era giovane e grasso, con la faccia tonda e bianca come la luna, e abbracciava la Cagnaccetta e ballava in tondo con lei, tanto vino aveva bevuto. La Cagnaccetta crepava dalla paura, ma lo stesso faceva finta di ridere e gli batteva sulla spalla al tedesco, sempre con gli occhi alla porta del cesso, col fazzoletto storno sui capelli. Quella sera all'osteria non c'era nessuno, ma ad un tratto capitò Antonino Trabanda, che il diavolo ce l'aveva portato. Entrò e vide il tedesco che ballava con la Cagnaccetta, ballava intorno al tavo]o e cantava nella lingua sua. La Cagnaccetta quando vide Antonino gli strizzò gli occhi per dire di filarsela via. Antonino ridiscese svelto le scale e andò a prendere il suo fucile da caccia, che l'aveva sotterrato nell'orto per vedere se un giorno gli serviva. Da tanto tempo lui ne aveva voglia di ammazzare un tedesco, e ci pensava dal mattino alla sera, con una mania che non dava riposo. Ritornò col fucile e mirò dritto al tedesco, e quello cascò giù sul pavimento, rovesciando la bottiglia col vino. La Cagnaccetta si mise a gridare, e la ragazza chiusa dentro il cesso gridava anche lei, e batteva coi pugni nella porta. Arrivarono il brigadiere e Bissecolo, il fratello del prete e Loretuccio, e tutti stavano a guardare il tedesco e non sapevano che cosa fare. La Cagnaccetta urlava come il diavolo, e Antonino Trabanda se ne stava fermo tenendo stretto il fucile, e ad un tratto lo pigliò come un tremito, e gli cadde il fucile dalle mani. Tre ore dopo arrivava l'automobile della polizia, grigia e lucida come una trota, e due motociclisti con tanto di fucile mitragliatore. Dal paese erano scappati via tutti e s'erano sparsi nei campi, ma Giuliano della Torretta non s'era mosso, che a lui non gli piaceva di scappare, e della morte non aveva paura. Così restò ad aspettare la morte sulla soglia di casa sua, col berretto calato sugli occhi e la pipa tra i denti, ma quando venne l'ufficiale tedesco e lo pigliò per la giacca, tirò fuori ad un tratto la pistola e si mise a sparare. Per disgrazia non ne colse nessuno, e lo ammazzarono lì sulla soglia. Antonino Trabanda lo trovarono nella vigna del prete perché gli era mancato il tempo di andarsene più lontano con quel gran tremito che aveva addosso. Il brigadiere le trovarono invece sulla strada di Borgo San Giacomo insieme con la sorella, che era scappata portandosi dietro la trapunta del letto, e così si pigliarono anche lei e la portarono in piazza. Sulla piazza li ammazzarono tutti uno dopo l'altro, Antonino Trabanda e Spondò, il brigadiere e la sorella del brigadiere, Loretuccio e il fratello del prete, e per sbaglio ammazzarono anche Bissecolo, lui che parlava tanto bene in tedesco. Gli altri nei campi sentivano il rumore degli spari, e sussultavano col viso nell'erba, con la voglia di non tornare più a casa.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 19 luglio 2023
Memoriae. 64 Giacomo Papi: «La guerra divide l'umanità in amici e nemici, vincitori e vinti, vittime e carnefici, assassini e assassinati. Per questo è il contrario di umanità».
Ha scritto Giacomo Papi in “Italica” – alle pagine 179/181 -: (…). La guerra divide l'umanità
in amici e nemici, vincitori e vinti, vittime e carnefici, assassini e
assassinati. Per questo è il contrario di umanità. Anche chi vorrebbe starne
fuori, i pacifici, gli imboscati, i vigliacchi, è attraversato dalla furia
divaricatrice delle armi. Della resistenza in Val Trebbia faceva parte in
quegli stessi anni il poeta Giorgio Caproni, che fino al 1943 era stato il
maestro elementare di Loco di Rovegno, qualche decina di chilometri più a sud.
Nel racconto Un discorso infinito del 1946, Caproni fa dire al partigiano
Athos: «I morti rimangono con la bocca aperta per esalare perfino l'ultima parola
ch'è in noi. Quando non rimane in essi nemmeno una minima parola, è allora che
i morti parlano alfine. Bisogna cominciare ad ascoltarli quando anche l'ultima
parola è esalata dalla loro bocca». L'ISTAT calcola che durante la Seconda
guerra mondiale in Italia ci furono 309.453 morti, di cui 159.597 militari e
145.996 civili. I dispersi furono 135.070. La maggioranza morì dopo l'8
settembre 1943, perché è quando la guerra sembra finita che bisogna correre a
rintanarsi. Dall'aprile al settembre 1945, sempre per l'ISTAT, morirono 13.245
militari e 23.547 civili: 36.792 persone. Secondo Mirco Dondi, autore dello
studio La lunga liberazione, il più attendibile sulla violenza postbellica,
dall'aprile 1945 all'autunno del 1946 le vittime delle vendette dei vincitori
furono tra 9 e 10 mila. Scrive Dondi: «È pressoché impossibile individuare, da
questo ingarbugliato contesto, il numero di individui realmente fascisti che
sono stati soppressi tanto più che, nel disordinato flusso della violenza,
periscono anche figure che non sono identificabili dai loro trascorsi politici;
uomini e donne dentro a quella zona grigia della neutralità oscillante,
colpevoli di un legame di parentela o, più spesso, smascherati- o accusati - di
attività delatoria». Le zone dove si uccise di più furono quelle dove le
violenze e le rappresaglie di tedeschi e fascisti erano state più cruente. In
Storia della resistenza, un libro fondamentale sul tema, Marcello Flores e
Mimmo Franzinelli scrivono: «Da settembre 1943 a inizio maggio 1945 sono stati
calcolati oltre 10 mila civili uccisi dai nazifascisti, in uno stillicidio di
episodi cruenti che vanno dalle esecuzioni pubbliche in piazze cittadine ai
massacri nel corso di rastrellamenti in zone fuori mano». È una sfilata che
sembra non finire mai. I morti sono vecchi, donne, neonati fucilati a decine o
centinaia, senza ragione o per rappresaglia, moltiplicando per dieci i morti
tedeschi, a Boves, Trasaghis, Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, piazzale
Loreto a Milano, via Rasella e Fosse Ardeatine a Roma, via Ghega a Trieste,
Civitella, San Pancrazio e Cornia in Val di Chiana, Guardistallo, Niccioletta,
San Terenzo Monte... Dopo la liberazione scattarono le vendette, sarebbe stato
strano il contrario, dove si mischiarono motivi politici, rivalità di paese,
risentimenti personali, questioni di corna o di soldi. Le guerre civili, e
quella italiana fu anche una guerra civile, ci mettono molto a spegnersi. E
dopo gli spari continuano per decenni sotto forma di contabilità, per
rivendicare i propri morti e ricordare le efferatezze subite. Succede anche in
Italia dove, da settant'anni, riaffiora periodicamente la voce di chi vuole
pietà per chi quella guerra la dichiarò e la combatté con i nazisti e
aiutandoli nella loro metodica politica di stragi contro la popolazione civile,
oltre che a caricare sui treni migliaia di oppositori politici e di italiani di
origine ebraica. La pietà è per tutti, ma non ci si può stupire che anche chi
era dalla parte giusta abbia sparato e ammazzato, e che non lo abbia sempre
fatto per nobili motivi. Nella primavera del 1945 Natalia Ginzburg pubblicò
Passaggio di tedeschi a Erra, il racconto di una rappresaglia nazista avvenuta
in Abruzzo dopo l'8 settembre 1943. Un mese prima, il 5 agosto, suo marito
Leone era partito per Roma, lasciandola con tre bambini a Pizzoli, il paese sul
Gran Sasso dove si erano trasferiti nel 1940 dopo che il fascismo lo aveva
mandato al confino per motivi politici e razziali. Il 5 febbraio 1944 Leone
Ginzburg morì per le torture subite nel carcere di Regina Coeli.
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