"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 16 luglio 2023

Capitalismoedemocrazia. 77 Isaia Sales: «L’Italia non conosce sé stessa e non la vuole affatto conoscere: la cecità sociale è uno dei mali più ricorrenti delle nostre classi dirigenti».


Ha scritto Michele Serra in “Il massimo discrimine” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 23 di giugno 2023: (…). La demagogia e i giudizi faciloni vanno accuratamente evitati. Inevitabile, invece, è la constatazione che il massimo discrimine tra gli esseri umani sia a tutt’oggi quello costituito dalle condizioni economiche. Dal censo, dall’appartenenza di classe, dal rango sociale, molte sono le maniere per dirlo: stiamo parlando, comunque, dei ricchi e dei poveri. E stiamo parlando della distribuzione enormemente impari di risorse, di tecnologia, di volontà politica, nel soccorrere gli esseri umani, nel tutelarne la vita e la dignità, nell’avvolgerli di attenzione e di cura. Morire in una capsula sottomarina dev’essere terribile, altrettanto morire in una stiva che si riempie d’acqua mentre il guscio nel quale si credeva di poter galleggiare si inabissa. Capita soprattutto ai bambini – centinaia, migliaia – che sono in fondo al Mediterraneo (“ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek”…) a meno che una pietosa risacca li deponga su una spiaggia. Pensatela come volete: ma qualcosa non quadra, e molti conti non tornano, nel 2023, sul pianeta Terra. A tutte le diseguaglianze e le ingiustizie si riuscirà forse a porre rimedio: l’unico percorso di transizione che sembra destinato al divieto perenne è quello tra i poveri cristi e i ricchi.

“Il salto indietro al tempo dei lazzari l’occupazione non salva dall’indigenza”, testo di Isaia Sales pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, domenica 16 di luglio: Quando Wolfgang Goethe arrivò a Napoli nel 1787 capovolse le valutazioni che i viaggiatori e i saggisti dell’epoca riservavano al modo di vivere dei napoletani. Fino a quando non fu pubblicato Viaggio in Italia, il convincimento generale era che la città partenopea fosse abitata da un numero sproporzionato di oziosi, sfaccendati e nullafacenti (definiti “lazzaroni”) che si aggiravano per le strade apparentemente senza fare un mestiere preciso, perennemente in cerca di qualche piccolo guadagno per sfamarsi. Goethe fu il primo a non confondere povertà e oziosità, precarietà del lavoro e scarsa voglia di faticare, ma a guardare stupito il fatto che quelle migliaia di miseri si muovessero di continuo per svolgere lavori così improbabili e così poco redditizi da suscitare simpatia e ammirazione. Per Goethe, dunque, i poveri napoletani non erano incalliti scansafatiche, incoscienti cantori del dolce far niente, ma al contrario incessanti cercatori di opportunità di guadagno per mantenere la propria famiglia. Un popolo di formiche e non di cicale, con la differenza di non poter accumulare niente di solido per gli inverni delle loro vite. (…). …ai tempi delle acute riflessioni di Goethe su Napoli la precarietà, la marginalità del lavoro e la miseria coincidevano, e lo scrittore ci teneva a separare questa identificazione dai tanti gratuiti giudizi morali, perché la povertà in nessuna epoca può essere considerata una scelta soggettiva. Solo persone gonfie di pregiudizi e di disprezzo sociale possono immaginare che si scelga di restare poveri, o che la miseria sia solo l’altra faccia della mancata volontà di sollevarsi dal bisogno. Nei due secoli successivi, è avvenuto (…) che miseria e lavoro si sono nettamente separati, anzi si sono addirittura contrapposti: chi aveva un lavoro non era più povero e chi era povero non aveva ancora un lavoro. Grazie allo sviluppo della società industriale e alla dignità che il lavoro di fabbrica e nei campi aveva conquistato con gli apostoli del socialismo e poi con le organizzazioni sindacali, il lavoratore si è separato definitivamente dai paria della società. Lavorare voleva dire non essere confuso con la marginalità, acquisire dignità e considerazione di sé, e la dignità equivaleva alla possibilità di mangiare, vestirsi decentemente, pagare l’affitto, fare studiare e curare i figli, impegnarsi per la difesa dei propri diritti e, per alcuni anni (soprattutto nel trentennio sessanta-novanta del Novecento) permettersi anche qualche settimana di vacanza in estate. E anche se si svolgeva un lavoro precario, esso non coincideva immediatamente con la povertà, perché si poteva entrare nel mondo del lavoro con posti precari e poi via via si saliva lungo una strada che ti emancipava dai bisogni materiali della vita. La precarietà era comunque il primo scalino su cui si saliva per uscire dall’anonimato sociale. Oggi, invece, il lavoro non garantisce l’incolumità dall’indigenza; precarietà e insignificanza sociale tornano a essere sinonimi. Certo, dipende dai lavori svolti o da quanti, diversi, bisogna farne al giorno, mettendo insieme salari veri a pagamenti in nero, sostegni pubblici e familiari, mischiando situazioni lavorative complicate da classificare. Insomma, si può essere occupati e non farcela a vivere dignitosamente, si possono fare più lavori nella stessa giornata senza che ciò protegga dalla mancanza di un reddito sufficiente a sopravvivere. Siamo tornati indietro e ce ne accorgiamo con impressionante ritardo. Questa nostra nazione piena di percettori di reddito di cittadinanza, oziosi beneficiari di sostegni pubblici che impedivano di trovare persone disponibili a fare lavori ben pagati, non corrisponde minimamente alla realtà. L’alternativa al reddito di cittadinanza è fatta di tanti lavori mal pagati e mal tutelati. L’Italia non conosce sé stessa e non la vuole affatto conoscere: la cecità sociale è uno dei mali più ricorrenti delle nostre classi dirigenti. Negli ultimi anni questa cecità ha coinvolto purtroppo anche la sinistra. Indubbiamente, è venuta meno la volontà del passato di riflettere sul malessere sociale, di provare a governarlo e ad attutirlo piuttosto che a disprezzarlo, come è prassi di oggi. Ad esempio, andrebbe fatta una seria valutazione su come l’esternalizzazione di diversi servizi che prima si svolgevano all’interno delle amministrazioni pubbliche e delle aziende hanno creato un mercato secondario che ha nei fatti legittimato sottoccupazione e sotto salario: risparmio economico ma danno sociale. Parafrasando Corrado Alvaro si potrebbe dire che la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società basata sul lavoro è il dubbio che il lavoro non tuteli più dalla indigenza e dalla precarietà del vivere.

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