"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 9 luglio 2023

Memoriae. 61 La guerra è un’infamia. Sempre.


Ha scritto Luigi Manconi in “Separarsi per l’Ucraina” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, domenica 9 di luglio 2023: (…). …questa abitudine alla guerra, (…) mi sembra un segnale distintivo del tempo presente. L’assuefazione è un istinto terribilmente “umano troppo umano”: corrisponde a una irriducibile pulsione di sopravvivenza e a quella strategia di adattamento che costituisce la principale risorsa delle creature nel loro tempestoso rapporto con il mondo, la natura, gli altri viventi. Ma porta con sé la consuetudine al male, all’ingiustizia, alla sofferenza. Nemmeno la vicenda di Victoria Amelina sembra aver intaccato la nostra sostanziale indifferenza. Amelina, considerata una tra le voci più autorevoli della letteratura ucraina, aveva 37 anni e un figlio. Aveva smesso di scrivere romanzi per dedicarsi al racconto di quanto stava accadendo nella sua terra. È stata colpita da un missile russo in un ristorante a Kramatorsk ed è morta insieme a due gemelle di 14 anni. È una storia grandiosa e tragica, di quelle che – ci si aspetterebbe – incidono sul sentimento collettivo e sull’immaginario comune, portano gli individui a mobilitarsi e a riunirsi in preghiera, inducono a riprodurre sulle t-shirt dei ragazzi le foto delle vittime, a intitolare loro un parco, a elaborarne il mito. Nemmeno lo strazio del corpo di Victoria ha determinato un simile soprassalto emotivo. Così come non era accaduto quando, nel marzo del 2022, si scoprì l’eccidio della città di Buča. E, per contro, le migliori menti di un’intera generazione di giornalisti, anche di sinistra (?), si impegnarono per dimostrare che si trattava di una montatura a opera delle stesse vittime: gli ucraini, appunto. Poi, non uno che abbia chiesto scusa per la propria quota-parte di ignominia. Infine, anche il grottesco putsch di Evgenij Prigozhin non viene interpretato per ciò che effettivamente è stato (il segnale di un regime in crisi verticale), bensì come una manifestazione di potenza della Russia. (…). Insomma, mi sembra che quanti contestano la scelta di stare incondizionatamente dalla parte dell’Ucraina sottovalutano il ruolo delle vittime. La premessa di cui leggiadramente ci si fregia (sia chiaro: l’aggressore è la Russia) è diventata una clausola di stile o, peggio, frusta retorica. Nei fatti, ciò che si attua è l’equiparazione tra le vittime ucraine e quelle russe. Certo, anche queste ultime sono vittime ed esigono rispetto e carità. Ma ciò non deve comportare l’azzeramento delle responsabilità prioritarie e presenti in nome di quelle “di tutti” e “di sempre” e la rimozione delle colpe congiunturali e immanenti: per ricondurre ogni cosa a una “complessità” della situazione generale e a una genealogia delle cause che, riandando indietro nella storia, dissolvono le ragioni e i torti dell’oggi. Ciò che conta in Ucraina è proprio l’attualità della condizione delle vittime: sono i corpi di Amelina e degli abitanti di Buča. E il discrimine intorno al quale ci è chiesto di schierarci è rappresentato da quella vittima ucraina che, fino al 24 febbraio del 2022, riteneva di essere al riparo dalle bombe. Ciò che traccia il confine è, come scriveva Johann Baptist Metz, “l’autorità dei sofferenti”. Attenzione: non la sofferenza come categoria astratta e universale, bensì proprio quella dei titolari in carne e ossa di un dolore irreparabile. (…).

“Abbiamo bisogno di pace, ma non a qualsiasi costo”, testo di Fabio Mini – già generale di Corpo d’Armata – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di sabato primo di luglio: (…). Oggi l’Europa è in guerra: sia perché la ospita entro i suoi confini geografici, sia perché partecipa attivamente con il sostegno politico, economico e militare a uno dei belligeranti. Il nostro Paese è in guerra e ne subisce le conseguenze con la prospettiva di doverne subire di peggiori. La guerra in tutte le sue forme sembra l’unica via d’uscita. Non la guerra metaforica, ma quella reale, materiale, cinetica come diciamo noi militari, che poi siamo chiamati ad affrontare. Si dice che occorre aiutare l’Ucraina a difendersi e che la difesa dell’Ucraina è la difesa dell’Europa. Che è una battaglia di civiltà e libertà. Ho molti dubbi in proposito e mi domando come mai non ci siamo preoccupati prima delle minacce alla libertà di quegli stessi ucraini quando erano soggetti a una guerra da parte del loro stesso governo. E come mai la preoccupazione della libertà dei popoli non si estenda ad altre popolazioni soggette alle guerre e alle repressioni. La guerra in Ucraina è un obbligo nei confronti di un Paese aggredito: è vero, ma il ricorso alla forza deve essere approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e questo non c’è ancora stato. La Nato si sta solo difendendo: è vero ma per vent’anni ha condotto un attacco subdolo alla Russia e senza autorizzazione ha già attaccato uno stato sovrano membro delle Nazioni Unite. La guerra riguarda Russia e Ucraina: non è vero, riguarda Stati Uniti e Russia e soprattutto riguarda l’intera sicurezza europea. L’Ucraina nella Nato rafforzerà l’alleanza e porterà alla vittoria: non è vero, l’Ucraina è un Paese in guerra e l’inclusione nella Nato porterà al coinvolgimento diretto della Nato e quindi degli Stati Uniti nella guerra. Una clausola fondamentale del trattato atlantico stabilisce che i nuovi membri debbano contribuire alla sicurezza dell’Alleanza. L’Ucraina in guerra contribuirà alla sicurezza in peggio. Il sostegno all’Ucraina è imposto dalla Nato: è vero, ma le norme del trattato stabiliscono che le decisioni siano prese all’unanimità e questa non c’è. E quando ci dovesse essere sarebbe l’unanimità nella rinuncia a esprimere e far valere la sovranità dei Paesi membri. Si dice che la partecipazione alla guerra è un interesse nazionale che coincide con quello della Nato: non è vero, l’interesse nazionale di Paesi come l’Italia è la cooperazione, la competizione se si vuole, ma non il conflitto. Se la Nato, come ora, si schiera in guerra fa solo gli interessi di qualche Paese in particolare. L’Italia sta pensando agli interessi nella produzione di armi e nella ricostruzione post bellica dell’Ucraina: vero, il mondo intero sta pensando a questo e oggi occorre valutare quanta parte potrà avere nella ricostruzione. Riuscirà questa parte a compensare le perdite secche che ora stiamo subendo in materiali, economia e finanza? Abbiamo bisogno di pace: è vero, ma non a qualsiasi costo e nemmeno una pace temporanea che contenga, come tutti i trattati di pace, i semi del successivo conflitto. Le scelte politiche di questo periodo sono importanti e una soluzione del conflitto è possibile sul piano politico-diplomatico come era possibile evitarlo del tutto o interromperlo in qualsiasi momento. Oggi è sempre più difficile negoziare e per farlo occorre rinunciare a qualcosa. Non servono soltanto le rinunce della Russia e dell’Ucraina: serve un compromesso che salvaguardi la sicurezza europea. La politica deve rispolverare concezioni vecchie, ma collaudate. Per esempio, la de-militarizzazione del conflitto, come quando Iran e Iraq in guerra per dieci anni furono privati degli aiuti esterni; la smilitarizzazione di una fascia di sicurezza in Ucraina e Russia e la neutralità di quei Paesi avviati al conflitto come strumento per diminuire la percezione d’insicurezza dei vicini. Sono tutte cose che sembrano inefficaci e inattuabili e quindi sono state eliminate dalla visione politica orientata in un unico senso: la guerra. Occorre ribaltare l’approccio e considerarle possibili perché la soluzione militare sul campo non solo è impossibile, ma pericolosa qualunque essa sia. Un’ultima riflessione: “Magari perderò voti, ma il mio programma di governo è: 1. Finire il conflitto in Donbass; 2. Parlare con i russi; 3. Neutralità ucraina”. Era il 2019 e il neoeletto presidente Zelensky lo dichiarò al Parlamento. Dall’estrema destra gli arrivò un avvertimento: “Non perderà solo voti”. E i comandanti delle milizie in Donbass gli dissero che finire lì e parlare coi russi sarebbe stato alto tradimento. Cambiò idea. Oggi, forse, con le stesse milizie decimate e con la guerra che va avanti solo con il supporto occidentale, si apre paradossalmente la via della demilitarizzazione agendo semplicemente sul sostegno esterno. E si apre la via per il ritorno alle intenzioni di quattro anni fa, con 200mila morti in più.

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