"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 24 luglio 2023

MadreTerra. 13 Ezio Mauro: «Il grande oggetto smarrito di questi anni è il bene comune».


Ha scritto Tomaso Montanari in «“Fate chiasso”, dice Francesco. Invece il Vaticano li punisce» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, lunedì 24 di luglio 2023: In questi giorni terribili – giorni in cui viviamo un caldo che non ci affligge solo per la sua forza, non così ignota all’Italia, ma perché lo sappiamo esser parte di una estremizzazione del clima che annuncia una catastrofe imminente – siamo forse nella condizione più adatta per meditare sulle proteste dei militanti di Ultima generazione. Un mese fa il tribunale del Vaticano ha inflitto una condanna pesante (in due casi a nove mesi di reclusione, pur sospendendone gli effetti) a tre di loro che si erano incollati, durante l’altrettanto rovente estate dello scorso anno, al piedistallo del Laocoonte già nel Cortile del Belvedere, e oggi stella di prima grandezza dei Musei Vaticani. La condanna sembra davvero ingenerosa, e in flagrante contrasto con il magistero di papa Francesco, che ha invitato proprio quella generazione a “fare chiasso” contro il modello economico che produce ingiustizia sociale e distrugge il pianeta: “Una nuova economia, ispirata a Francesco d’Assisi, oggi può e deve essere un’economia amica della terra, un’economia di pace. Non basta fare il maquillage, bisogna mettere in discussione il modello di sviluppo. Fino a quando il nostro sistema produrrà scarti e noi opereremo secondo questo sistema, saremo complici di un’economia che uccide. Se non avete niente da dire almeno, fate chiasso!”. Nella sua mirabile enciclica del 2015, la Laudato sì, Francesco ha condannato con estrema forza l’idea “di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite”. Ha ricordato, contro ogni negazionismo climatico, che “esiste un consenso scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un preoccupante riscaldamento del sistema climatico. Negli ultimi decenni, tale riscaldamento è stato accompagnato dal costante innalzamento del livello del mare, e inoltre è difficile non metterlo in relazione con l’aumento degli eventi meteorologici estremi, a prescindere dal fatto che non si possa attribuire una causa scientificamente determinabile ad ogni fenomeno particolare. L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano”. Prendere coscienza è, dunque, il punto: e combattere contro chi ha tutto l’interesse a tenerla, invece, a dormire questa coscienza collettiva. I “molti … che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici. Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo” (così, ancora, il papa nella Laudato sì). Se le cose stanno così, è difficile scegliere un’opera più significativa del Laooconte, questo meraviglioso gruppo scultoreo ellenistico che, quando riemerse dal suolo di Roma, nel 1506, fu subito riconosciuto da Michelangelo in persona come “un portento dell’arte”. Il gruppo raffigura la terribile fine del sacerdote troiano e dei suoi figli, sbranati da mostruosi serpenti usciti dal mare per tappar loro per sempre la bocca: Laocoonte, infatti, aveva subodorato qualcosa dell’inganno di Ulisse, e si opponeva all’ingresso del grande Cavallo di legno dentro le mura di Troia. “Temo i greci anche quando portano doni”, disse: un motto perfetto per etichettare le campagne di greenwashing inscenate dai grandi inquinatori, le multinazionali delle energie fossili, e dai loro servi politici. Laocoonte – come un’altra troiana: Cassandra – dà l’allarme: ma non solo non viene creduto, viene anche orribilmente punito e ridotto al silenzio. Il tribunale della Città del Vaticano in questa storia si è dunque scelto la parte dei serpenti, assegnando ai tre attivisti condannati quello di Laooconte e dei suoi figli: ma papa Francesco non è uno dei vendicativi dèi dell’Eneide, e sono persuaso che prima o poi interverrà per sanare questa condanna, che colpisce proprio chi gli ha dato retta, facendo chiasso nel posto e nel modo più efficace. Qualunque cosa si pensi di una campagna di denuncia che usa il patrimonio (senza in realtà danneggiarlo affatto) per ricordarci che quel patrimonio, e l’ambiente da cui è inseparabile, stanno per essere distrutti, si dovrà riconoscere che non sono i giovani di Ultima generazione a far bollire la Sardegna a 50 gradi e contemporaneamente a far piovere chicchi di grandine grandi come palle da tennis (anche) sui tetti delle chiese monumentali del Veneto: il mondo è una macchina che corre contro un muro, senza autista e a folle velocità. Vogliamo discutere della grammatica di chi grida perché sia fermata, o provare a fermarla?

“Dove porta il Grande Dubbio”, testo di Ezio Mauro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi: (…). La crisi climatica è infatti un’esperienza sensoriale immediata e banale, in cui ognuno diventa metro di se stesso e giudice del quadro generale, e il concorso degli esperti aggiunge spiegazioni e previsioni, dati, confronti, variabili, costruendo un contesto attorno a ciò che l’individuo percepisce da solo. Si può discutere sul livello di gravità della crisi, naturalmente, sull’opportunità e la convenienza delle diverse misure di contrasto, sull’integralismo che trasforma l’ambientalismo in una nuova fede, annullando la politica. Ma l’emergenza climatica non è una visione di parte, a cui si chiede di aderire, bensì una condizione oggettiva, che non si può ignorare: salvo uscire senza l’ombrello sotto un nubifragio, per negare ad ogni costo che stia piovendo. E invece proprio qui, sulla questione ambientale, sta prendendo forma l’ultima gigantesca frattura del Paese, una spaccatura politica, sociale, economica e culturale, che nei prossimi mesi trasformerà il triangolo tra la natura, il clima e gli esseri viventi in un campo di battaglia, con lampi di regressione antimoderna rispetto agli obblighi della generazione dei padri rispetto al futuro dei figli. È bastato il voto del parlamento europeo sulla Nature Restoration Law (che punta al recupero entro il 2030 del 20 per cento delle aree terrestri e marine degradate) per far capire a tutti che il Green Deal con il suo obiettivo di raggiungere la neutralità climatica per il 2050 sta diventando il nuovo totem dello scetticismo universale, raccogliendo contro di sé tutte le obiezioni antiscientifiche, tutte le diffidenze nei confronti delle prescrizioni di Bruxelles, tutti i pregiudizi antieuropei, tutte le moderne credenze che sostituiscono la realtà e che abbiamo già visto coalizzarsi per fare fronte contro i vaccini negli anni del Covid. (…). …la resistenza culturale che rischia di diventare movimento transnazionale contro il Green Deal è in realtà l’ultima manifestazione di un fenomeno che attraversa tutte le democrazie occidentali, e che potremmo chiamare il Grande Dubbio. Un meccanismo che indebolisce ogni livello di governance perché disabilita la capacità delle democrazie di fare sistema, esercitando il comando e capitalizzando il consenso, naturalmente nella distinzione tra maggioranza e opposizione. Non si riesce più a coalizzare l’opinione pubblica attorno all’interesse generale della comunità, sia questa europea, nazionale, addirittura regionale o cittadina. E tutto ciò accade perché il grande oggetto smarrito di questi anni è il bene comune. (…). È come se il potere si fosse spogliato di quella potestà metafisica che gli riconosceva la capacità di dare un nome alle cose, dunque di interpretarle, di rappresentarle e di risolverle davanti al popolo: un autentico retaggio di antica maestà, cancellato dalla ribellione nei confronti dell’élite, che è la vera anima trasversale dei populismi di varia natura. Questo ribellismo del ceto medio espropriato, del nuovo proletariato scartato, della piccola borghesia precipitata e retrocessa è il nucleo di consenso e di successo per le forze che investono nell’antipolitica, finché vincendo non portano il populismo al governo diventando classe dirigente dissimulata, col rischio di essere assorbiti nei fatti dall’élite agli occhi dei loro stessi sostenitori. Per questa ragione il populismo è costretto a muoversi sul filo scomodo del rasoio antipolitico, in equilibrio sulla sua doppia natura, con un piede dentro il sistema e uno fuori. La responsabilità del governo impone infatti degli obblighi, e delle scelte. Dopo aver eccitato il risentimento dei cittadini contro le istituzioni, i centri decisionali, l’organizzazione del sapere, i poteri forti, le comunità scientifiche, quando governa il populismo deve fronteggiare quella stessa diffidenza che ha suscitato e alimentato, e che si deposita nel Paese con un sentimento diffuso di confisca. È la sensazione dell’esproprio di un pezzo di realtà, di un’esclusiva-privativa del meccanismo decisionale, l’esercizio di un monopolio della conoscenza, a esclusivo beneficio dei soggetti garantiti. Un abuso di posizione dominante. Si tratta di ceti attaccati dalla crisi che si sentono esclusi, marginalizzati o anche soltanto ingiustamente penalizzati, e hanno ormai rinunciato a ogni vincolo di solidarietà e di comunità, rifugiandosi in una concezione individuale della cittadinanza limitata alla categoria, al gruppo, all’interesse: e intanto hanno accumulato una pesante cambiale di rancore privato inesigibile in pubblico, un credito impolitico che non riusciranno mai a riscuotere. Figli della crisi, non accettano soprattutto la decretazione dell’emergenza, da quella sanitaria a quella climatica. Nell’emergenza non vedono l’interesse generale da tutelare, ma gli interessi particolari da regolamentare. In sostanza, rifiutano le misure disciplinari che necessariamente nascono da una situazione di allarme, per garantire la libertà collettiva del sistema. Ma l’unica libertà che oggi sembra avere ancora un senso è quella egoista del singolo, deciso a respingere vincoli sociali legati a ragioni generali che non riconosce più. Anzi, dopo aver denunciato le nuove regole come costrizioni, fa infine un passo in più, l’ultimo: cancella la realtà che impone di far fronte al pericolo, e nega che il problema climatico esista, come ieri negava il vaccino, o addirittura il virus. Se si accetta di entrare in questa realtà parallela ogni cosa si ricompone, in una deforme coerenza col Grande Dubbio da cui tutto è incominciato: il potere inganna, la politica è succube, i media sono complici, il sistema è il complotto. Manca l’ultimo centimetro, che è la dichiarazione di rifiuto della democrazia come suprema truffa: ma basta aspettare, ci siamo vicini.

Nessun commento:

Posta un commento