"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 27 luglio 2023

Memoriae. 67 Anna Maria Ortese: «La città involontaria».


Da “Italica” – alle pagine 198/200 – di Giacomo Papi: (…). Nel triennio 1946-1948 nacque più di un milione di bambini all'anno, di cui circa 300 mila illegittimi, e cominciò a calare la mortalità infantile: dai 101 mila morti prima di compiere un anno del 1943 ai 58 mila del 1950. Cresceva l'età media della morte: 56,55 anni nel 1946, 64,13 nel 1950, 66,88 nel 1955. Dopo la guerra si impennarono i matrimoni, raddoppiarono le domande di separazione e gli omicidi che tra il 1945 e 1950 sfiorarono i 4 mila all'anno, più del doppio che negli anni Trenta. Aumentarono anche percosse, rapine e forti, ma dal 1948 i furti cominciarono a scendere. Le ore di sciopero, che secondo l'ISTAT nel 1949 furono 132 milioni e 622 mila, si dimezzarono nel 1950 (62 milioni e 87 mila) e di nuovo nel 1951 (32 milioni e 87 mila). Riprese l'emigrazione: tra il 1946 e il 1950 lasciarono l'Italia 1.127.720 persone di cui 415.208 donne, quasi il doppio degli emigrati tra il 1931 e il 1940. Soprattutto, però, ricominciò l'emigrazione interna che spostò masse di italiani dai paesi alle città, dalle campagne alle fabbriche, dal Sud, Isole e Nord-Est verso il Nord-Ovest, aumentando la ricchezza delle destinazioni, ma la miseria delle radici. E infatti dal 1946 il PlL pro capite, stabile durante il fascismo e crollato durante la guerra, crebbe in modo impetuoso, ma a una velocità doppia al Nord rispetto al Sud. Nel 1946, al suo primo congresso, la Democrazia cristiana aveva promesso «la casa in proprietà ad ogni famiglia di operai, impiegati e professionisti. Il podere, anzitutto nei luoghi di bonifica e colonizzazione, in proprietà ad ogni famiglia di contadini». Per realizzare l'annuncio bisognava costruire. Nel 1949 fu firmato il Piano nazionale INA-Casa, detto Piano Fanfani, per cui dal 1950 al 1962 lavorarono 40 mila persone. In dieci anni il numero di abitazioni costruite decuplicò: si passò dalle 27.453 case nel 1947 alle 273.535 del 1957. Il primo cantiere fu inaugurato il 7 luglio 1949 a Colleferro, in provincia di Roma, Il 31 ottobre dello stesso anno i cantieri sarebbero stati 649 e nel maggio 1950 1.049. A pieno regime si costruirono 2.800 alloggi a settimana. Per finanziare il Piano Fanfani lo Stato impose un prelievo dell'1,8 per cento mensile sullo stipendio di tutti i lavoratori dipendenti (di cui due terzi a carico del datore di lavoro). Qualche sindacato protestò, inutilmente. Lo slogan della DC prometteva "Non tutti proletari ma tutti proprietari", rispecchiando il desiderio comune di acqua potabile, di avere un bagno e l'elettricità (nel 1951 erano presenti soltanto nel 7,4 per cento delle case, nel 1961 nel 28,3 per cento), di non sentire il freddo in inverno e la puzza della miseria. Insomma di lasciarsi alle spalle le baracche, le grotte o le cantine dove, secondo un'indagine di INA-Casa, viveva il 40 per cento delle famiglie prima di trasferirsi nei nuovi alloggi. (…).

“La città involontaria”, racconto di Anna Maria Ortese riportato in “Italica” alle pagine 204/208: (…). Avevo segnato su una scatoletta di fiammiferi, che dopo mi servì per altre ragioni, il nome della signora Antonia Lo Savio. Con nessun altro indirizzo, una mattina di questo novembre, varcai la soglia del grande ingresso che si apre sul lato destro del III e IV Granili (antico complesso costruito in Napoli nell’anno 1779 riadattato a scopo abitativo n.d.r).  Quando la portinaia, seduta dietro una grande pentola nera in cui bollivano dei vestiti, dopo avermi esaminata freddamente, mi disse che non sapeva chi fosse questa Lo Savio, e andassi a domandare al primo piano, provai la tentazione di rimandare tutto a un altro giorno. Era una tentazione violenta come una nausea di fronte a un'operazione chirurgica. Dietro di me, sullo spiazzo che precede l'edificio, giuocavano una decina di ragazzi, senza quasi parlare, lanciandosi delle pietre; alcuni, vedendomi, avevano smesso di giocare, in silenzio si accostavano. Di fronte, vedevo il corridoio del pianoterra, per una lunghezza, (…), di trecento metri, ma che in quell'attimo sembrò incalcolabile. Nel centro e verso la fine di questo condotto, si muovevano senza alcuna precisione, come molecole in un raggio, delle ombre; brillava qualche piccolo fuoco; veniva, da dietro una di quelle porte, una ostinata, rauca nenia, Ventate di un odore acre, fatto soprattutto di latrina, giungevano continuamente fin sulla soglia, mescolate a quello più cupo dell'umidità. Pareva impossibile potersi inoltrare di dieci metri in quel tunnel, senza svenire. Fatti pochi passi, vidi cadere a destra un po' di luce, e scopersi una di quelle scale dai gradini larghissimi e non più alti di un dito, che un tempo avevano permesso ai cavalli, istallati al pianoterra, di raggiungere coi loro carichi il primo piano. Forse faceva meno freddo di quanto avessi temuto, ma l'oscurità era quasi assoluta. Rischiai d'inciampare, e accesi un cerino, ma subito lo spensi: ecco alcune, piccolissime lampade, nel cui interno tremano e si torcono continuamente dei fili rossastri: a questo barlume, si delineava il corridoio del primo piano. Qualcuno, verso il fondo di questa strada, stava abbrustolendo del caffè perché, all’odore di orina e di umidità, si mescolava ora anche quello più grato dei chicchi bruciati. Il fumo, però, faceva lacrimare gli occhi, e metteva intorno alle lampade, minuscole come spilli, un alone più roseo. Passai davanti, non vedendoli che quando mi furono vicini, a un gruppo di ragazzi che giuocavano a girotondo, tenendosi per le mani molto distante, e rovesciando indietro le teste arruffate, con una voluttà più forte di quella di un giuoco normale. Sfiorai ciocche di capelli duri, come incollati, e alcune braccia dalla carne fredda. Vidi finalmente la donna che abbrustoliva il caffè, seduta sulla soglia di casa sua. Nell'interno c'era un disordine e un chiarore selvaggio, dato da un imprevedibile raggio di sole, che si buttava dalla finestra (aperta sul dietro dell'edificio), attraverso vasi e cenci, sulle materasse. C'era anche del sangue. La donna, nera e asciutta, seduta su una sedia completamente spagliata, girava di continuo, con una specie di orgoglio, il manico di legno del cilindro di ferro, dal cui portellino una nuvola di fumo saliva a isolarle la testa. In piedi vicino a lei, altre tre o quattro ragazze, in vesti nere, aperte sul petto bianco, seguivano con gli occhi seri e accesi la danza dei chicchi nel cilindro. Vedendomi, si scostarono, e la donna smise di far saltare il cilindro sul fuoco, che per un momento cessò quasi d'illuminare. Il nome di Antonia Lo Savio le lasciò silenziose. Mi accorsi dopo, durante le successive visite, che questo silenzio, piuttosto che indicare perplessità o indecisione, manifestava curiosità e un sentimento più sinistro, anche se debole: il desiderio di coinvolgere per un attimo, nella oscurità in cui dominavano, lo straniero di cui era evidente l'abitudine alla luce. Per lo meno, molte di queste persone hanno giuocato, durante le mie visite, a non rispondere o a indirizzarmi verso luoghi da cui non avrei potuto facilmente risalire. Stavo per proseguire la mia strada, sforzandomi di apparire tranquilla, quando una delle ragazze, volgendosi verso una porta, disse lentamente, senza guardarmi: «Vedite lloco». Una donnetta tutta gonfia, come un uccello moribondo, coi neri capelli spioventi sulla gobba e un viso color limone, dominato da un grande naso a punta che cadeva sul labbro leporino, stava pettinandosi davanti a un frammento di specchio, e tra i denti stringeva qualche forcina. Sorrise, vedendomi, e disse; «Nu minuto». La mia felicità nel vedere un sorriso simile in un luogo simile m’indusse a riflettere qualche attimo se fosse o no sconveniente rivolgerle il titolo di signora. Non era che un enorme pidocchio, ma quale grazia e bontà animavano gli occhi suoi piccolissimi. «Signora» dissi accostandomi a lei rapidamente, e le feci il nome del dottor De Luca, direttore dell'ambulatorio per i poveri dei Granili, che mi aveva mandata da lei perché mi accompagnasse un po' in giro. «Nu minuto... abbiate compiacenza» ripeté continuando a sorridere e a pettinarsi, e mi accorsi allora che la sua voce, in fondo al rantolo del catarro, era dolce. Credo fosse questa sensazione, inconsciamente avvertita, a restituirmi un po' di coraggio. Mi addossai alla porta, aspettando che quella creatura finisse di acconciarsi, e intanto sbirciavo il gruppo delle caffettiere. Il fumo si era diradato, e in quell'improvviso grigiore esse apparivano ancora più pallide. Mormorarono qualche parola, in cui risuonò il nome della Lo Savio, con un riso silenzioso, colmo di disprezzo, e mi turbavano quelle che pensavo essere le ragioni di tanta ostilità. La Lo Savio, sulla soglia di casa sua, finiva di pettinarsi, con un certo indugio di ragazza, come se maggio, ed ella stesse pensando al suo amore, quando si accostò, con le mani in tasca, i capelli diritti in testa, un'aria spavalda e tetra, un bambino. Procedé, con un'esitazione impercettibile, verso il centro della stanza, e andò a sedersi sulle tavole del letto (non vidi mai, in questa grande Casa, un letto rifatto, solo materasse distese o ammonticchiate, al più con una coperta gettata sopra). Una volta seduto, e dondolando le gambe sottili, cominciò a canticchiare: «E ce steva 'na vota 'na reggina, che teneva i capille anella anella» con una voce afona. S'interruppe a un tratto per rivolgersi alla Lo Savio: «Signò, tenèsseve nu pucurillo 'e pane?» e da questo capii che non era suo parente. Mentre la Lo Savio, con in bocca l'ultima forcina, gli rispondeva qualcosa, mi accostai al bambino, e gli domandai come si chiamasse. Rispose: «Luigino». Gli feci altre domande, e non rispose più nulla. Gli era apparso su tutta la faccia un sorriso ambiguo, sprezzante, che contrastava bizzarramente con l'espressione assente e morta degli occhi. Sentendomi imbarazzata, come se il suo sorriso, misteriosamente maturo, non già più di bambino, ma di uomo, e di uomo avvezzo a trattare solo con prostitute, contenesse un giudizio, una valutazione atroce della mia stessa persona, mi allontanai di qualche passo. Ed ecco la Lo Savio accostarsi col pane, che il ragazzo cominciò a mangiare. «Questo povero figlio» diceva adesso la Lo Savio, «non tiene padre né madre. Sta qui dal '46, con una mia cugina, alla porta accanto. Per giunta, è pure cecato.» Il ragazzo rimase un attimo in silenzio, e in quell'attimo le mani che stringevano il pane gli scivolarono fino alle ginocchia. In qualche modo mi osservava. «Nu pucurillo ce veco; mo' veco 'n'ombra che acala 'a capa. Ve ne jate, signò?» Risposi di sì, dopo qualche momento, e mi avviai con la Lo Savio. «V'acumpagnasse, ma aspetto 'n amico» proseguì con una nuova intonazione, dove la spavalderia della menzogna, necessaria a salvarlo, moriva in una specie di stupefatta pietà, d'intenerito calore. Riadagiò la testa, che per un momento aveva sollevata, sul pagliericcio, e riprese a cantare: «E 'na barca arrivaie alla marina» con un filo di voce, una fissità; che dovevano avere lo scopo, ogni mattina, di persuaderlo nuovamente al sonno. (…).

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