"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 21 luglio 2023

Dell’essere. 94 Italo Calvino: «L'identità di gruppo è definita rispetto a chi non s'identifica col gruppo, cioè il resto dell'umanità».


Ha scritto Italo Calvino in “Cosa vuol dire avere un’identità” pubblicato nell’anno 1977 sulla rivista “Civiltà delle macchine”  e riportato sul quotidiano “la Repubblica” – nella ricorrenza del centenario della nascita dello Scrittore – del 20 di aprile 2023: Dell'identità si parla molto oggi come d'un valore che deve essere continuamente affermato, garantito contro la minaccia di perderlo, sia in senso individuale che in senso di gruppo: identità personale o identità nazionale etnica linguistica ecc. Cominciamo a stabilire bene il significato di questa parola. Per prima cosa la mia identità è fondata su qualcosa che non cambia nella mia vita. Certo potrei anche essere un vagabondo che vive ogni giorno in un paese diverso, incontra persone diverse, linguaggi diversi, potrei venir chiamato ogni giorno con un nome diverso, adattarmi ogni giorno a un mestiere diverso per guadagnarmi cibi sempre diversi. Potrei dire d'avere ancora un'identità? Certamente sì, perché resterebbero i miei ricordi, la continuità del mio passato. Se però fossi affetto da amnesia e non ricordassi niente da un giorno all'altro? Ebbene resterebbero sul mio corpo delle cicatrici, lividi di bastonate, morsi di cani, carie dentarie, tic nervosi, allergie, che mi persuaderebbero d'esser sempre io, purché da una volta all'altra non mi dimentichi d'averli. Certo se io non mi ricordo d'essere io e quelli che s'incontrano sono sempre degli altri, che mi vedono una volta sola e mai più, allora la mia identità si perde. Diciamo dunque che le condizioni necessarie dell'identità sono due: prima, che io sia in grado di ripetere un'esperienza, sapendo di ripeterla, per esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; seconda, che gli altri siano in grado di capire da una volta all'altra che io sono sempre io. Perché c'è anche la possibilità che io da un giorno all'altro cambi talmente, sia un giorno grasso un giorno magro, oggi tranquillo domani agitato, oggi balbuziente domani di fluente loquela, da risultare agli altri irriconoscibile, e in questo caso la mia identità è difficile sostenere che esista. Poi c'è ancora una condizione, ed è che io sia uno, e non resti sempre il dubbio che invece di me si tratti del mio gemello omozigote indistinguibile da me, che una sera ritorno a casa io e una sera ritorna lui e mia moglie non sa mai quale dei due è in casa. Oppure che io non sia certe sere il rispettabile Dr. Jekyll e certe altre l'abominevole Mr. Hyde, nel qual caso avrei due identità invece di una. Oppure se avessi un mio fratello siamese indissolubilmente saldato al mio fianco per cui non potessimo far niente separati, allora l'identità non riguarderebbe più me bensì noi. A pensarci bene, nei lunghi anni di guerre pestilenze cataclismi che ho vissuto, ho visto tante cose cambiare, molte volte ho dovuto cambiare le mie abitudini, le mie opinioni, i miei gusti, il mio vocabolario: sarò veramente sempre la stessa persona? La carta d'identità dovrebbe provarlo, ma adesso che sono diventato calvo, che mi sono fatto crescere una folta barba bianca, adesso che porto gli occhiali, la dentiera e il cornetto acustico, la carta d'identità non è più valida. Poi, come è noto io non sono soltanto io ma insieme all'io devo considerare la presenza d'un super-io e d'un inconscio che vanno per conto loro: adesso per esempio questa pagina non si sa fino a che punto la sto scrivendo io e fino a che punto non è il mio super-io o il mio inconscio a scriverla, e l'inconscio poi può anche essere non mio ma un inconscio collettivo bello e buono. A proposito di collettivo, queste cose che sto scrivendo sono in gran parte il prodotto d'una cultura non mia individuale che mette in circolazione le idee di cui io mi servo, perché è chiaro che ciò che sto esprimendo è già stato elaborato masticato digerito dalla nostra epoca nel suo complesso. Credo d'usare uno stile tanto personale, invece è un linguaggio elaborato da tutti quelli che parlano e scrivono in italiano e le possibilità di scelta che mi si offrono all'interno di questo sistema linguistico sono limitate e anche quelle sottoposte a vari condizionamenti che vanno al di là della mia identità individuale. Per esempio sono io che scrivo, d'accordo, ma c'è anche la classe borghese cui appartengo anima e corpo che s'esprime attraverso di me proprio quando io più me ne dimentico o più m'illudo d'essere qualcosa di diverso da un borghese, per esempio un feudatario junker o un monaco trappista. A scrivere sono io, certo, ma in questo io bisogna riconoscere la parte che ha il fatto che sono un bianco eurocentrico consumista petrolifago e alfabetifero, perché se appartenessi a un altro tipo di cultura, con o senza scrittura, con ordinamento tribale o di clan, praticante culto vegetale o animale o degli antenati patrilineari o matrilineari, allora quello che scrivo dell'identità sarebbe completamente differente. Così come in ciò che scrivo gratta gratta puoi sempre riconoscere il sesso maschile fallocratico patriarcale, a meno che non sia in atto in me un cambiamento di sesso perché in fondo la mia identità è sempre in balia d'un equilibrio ormonale e basta un'oscillazione statistica da un momento all'altro per rimettere tutto in gioco. Aggiungi che la mia identità ha le sue fondamenta in una colonia di cromosomi che abitano le mie cellule e se la sociobiologia dice il vero i cromosomi affini d'individui diversi sentono una solidarietà e comunanza tra loro mentre un rapporto d'aggressività esiste tra cromosomi avversi: ebbene la mia identità individuale è attraversata dalla continuità genetica che si frantuma e si mescola in individui apparentemente separati. Insomma l'identità più affermata e sicura di sé, non è altro che una specie di sacco o di tubo in cui vorticano materiali eterogenei cui si può attribuire un'identità separata e a loro volta questi frammenti d'identità sono parte d'identità d'ordine superiore via via sempre più vaste. E se questo è vero per gli individui figuriamoci per le identità di gruppo. Detto questo non voglio naturalmente scoraggiare nessuno. Lo strumento più raffinato per definire l'identità mi sembra il sistema dei Samo, popolazione africana dell'Alto Volta, che nella persona umana distinguono nove componenti: 1) il corpo, che si riceve dalla madre, 2) il sangue, che si riceve dal padre, 3) l'ombra che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particella della vita, che è un'entità in cui tutti gli esseri viventi sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale, che può compiere e subire le stregonerie (si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da morto, e finalmente s'incarnerà in un albero), 9) il destino individuale. A questi nove elementi s'aggiungono quattro attributi: il nome, l'omonimo soprannaturale, il segno dell'eredità che indica che una componente d'un antenato s'è incarnata nel neonato, e la presenza d'una coppia di geni, della brousse o domestici, ostili o benefici. Così gli elementi in gioco diventano tredici e anche quattordici, e collegano l'individuo all'universo (dio trascendente e geni della brousse) e all'umanità (antenati e genitori). L'identità è dunque un fascio di linee divergenti che trovano nell'individuo il punto d'intersezione. Il vero supporto dell'identità è dato dal nome (nome di lignaggio e nome individuale) definendo il posto e il ruolo sociale che l'individuo ha in ragione della sua situazione genealogica: è il nome a indicare se un dato individuo dipende dalle potenze della terra o da quelle della pioggia, se farà il fabbro o il becchino, se è uomo o donna, primogenito o cadetto. Mi pare che il modello dei Samo s'avvicini più di qualunque altro a quello che potrebbe servirci, qui e ora nella nostra civiltà d'oggi. E non penso soltanto all'identità individuale ma anche all'identità di gruppo, definita sia nello spazio (permanenza in un dato territorio) sia nel tempo (genealogia o continuità storica) sia nell'omogeneità linguistico-culturale. La difficoltà di caratterizzare per esempio le identità nazionali sta nel fatto che la territorialità è sottomessa alle discontinuità temporali perché tutti i territori prima o poi sono stati invasi da popolazioni venute non si sa donde, e la storia o la genealogia etnica esplodono in discontinuità spaziali, la storia percorsa da popoli che tutt'a un tratto spariscono come inghiottiti dalle crepe del terreno e neanche dei Romani dominatori del mondo si sa in che misura una loro discendenza si prolunghi in popoli attualmente viventi; e nelle lingue e nelle culture più si cerca d'isolare l' elemento differenziale più si risale a tratti che non differenziano nulla perché ricompaiono uguali a enormi distanze di spazio e di tempo, nodi in cui l'identità circoscritta coincide con l'identità della specie, dell'anthropos. E così come l'identità dell'individuo è definita soprattutto dal nome che gli viene attribuito cioè dal suo posto nella società intorno a lui e nella catena genealogica e storica prima di lui e dopo di lui, così l'identità di gruppo è definita dal rapporto in cui si situa rispetto a chi non s'identifica col gruppo, cioè il resto dell'umanità, il mondo esterno in cui la presenza del gruppo fa breccia, il campo d'influenze e d'onde che partono e arrivano. È il fuori che definisce il dentro, nell'orizzontalità dello spazio così come nella dimensione verticale del tempo: rispetto al passato, di prima che l'identità del gruppo si staccasse dal pulviscolo del fondo; e rispetto al futuro, al crepuscolo o metamorfosi o esplosione di supernova che prima o poi attende popoli e civiltà e linguaggi e sapienze nel melting-pot universale.

“L’era della paura e della regressione”, testo di Dacia Maraini pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, 21 di luglio: (…). William Reich lo psicoanalista ebreo austriaco fuggito dal nazismo negli anni Trenta del secolo scorso, analizzando l’ascesa del nazionalismo razzista ci dice che quando i popoli sono presi dalla paura tendono a fare branco, creando una solidarietà fra simili basata sul rifiuto dell’altro. Il branco ha bisogno di un capo, non importa se canaglia, violento, rapace. Il branco obbedisce a un primitivo bisogno di difendere l’identità minacciata contro tutto e tutti senza elaborare strategie o pensieri politici, spinto solo dal desiderio di sopravvivere. Il capo prescelto deve sapere reprimere la libido personale per suscitare gli istinti più arcaici di rapacità collettiva. La libido deve trasformarsi in voglia di guerra. L’uomo impaurito insegue promesse fasulle, facendo tacere perfino i suoi più realistici interessi, per rincorrere un menzognero sogno di gloria e di rivendicazione. Le paure, dice Reich, sono collettive e sono prodotte da pandemie, crisi economiche, guerre perdute, spostamenti di popoli o gravi cambiamenti sociali. Possiamo dire che, per lo meno per quanto riguarda la pandemia e la crisi economica ci siamo. (…). Paura della pandemia e paura della crisi economica stanno creando grossi problemi di identità, (…). L’Identità, ovvero il diffuso sentimento di sé, è determinante per un popolo. Il nazionalismo si riconosce in una identità monolitica, ferma nel tempo e riconducibile a formule fisse, mentre la conoscenza della storia, il dialogo politico e culturale tendono a creare un sentimento di identità plurale e diffuso. Tanto per citare me stessa, io sono italiana, ma sono anche europea, sono anche un poco giapponese per avere vissuto la mia infanzia in quel Paese, e sono siciliana, ma anche toscana e un poco inglese perché ho una nonna anglosassone e anche perfino un pochino svizzera visto che i Maraini sono di origine ticinesi. Dobbiamo pensare che le molteplici identità sono in conflitto fra di loro oppure creano una ricchezza interiore che aiuta ad affrontare i cambiamenti più inquietanti con spirito aperto e libertario? (…). Non potrebbe essere, come suggerisce Reich, che i giovani, sensibili al proprio tempo, prendano sul serio la frustrazione della loro epoca e pensino di rivendicarne il malessere agendo da piccoli eroi della resistenza identitaria di genere? Nell’idea della restrizione di identità monolitica entrano come diverse e pericolose anche le donne, che vengono viste come le rappresentanti di una umanità inquietante e pericolosa, da tenere sotto guida e controllo, soprattutto nel momento in cui pretendono di avere un proprio desiderio e una propria volontà erotica e comportamentale. È una forma di razzismo inconsapevole, nato dalla tradizione storica che vede il mondo femminile come fatto di creature deboli, sacre come madri ma da punire appena escono dal ruolo a loro affidato: insomma, cosa vogliono queste diavolesse che pretendono di essere diverse e migliori, ma nello stesso tempo vogliono occupare tutte le professioni tradizionalmente praticate dai figli prediletti di un Dio padre con tanto di barba? E così il corpo femminile diventa, come succede da secoli, il campo di battaglia di tutte le guerre. Il nemico si uccide, la donna considerata proprietà del nemico si stupra. Il che vuol dire inserire nel ventre e quindi nel futuro del vinto il proprio seme vincitore. È chiaro che negli stupri di oggi questo atteggiamento resiste solo in forma simbolica, ma resiste. Da scrittrice posso dire inoltre che inseguo con apprensione il processo del degrado linguistico che ammala il nostro Paese. L’incapacità di adeguarsi alle novità, il servilismo nei riguardi della lingua internazionale prevalente stanno diventando una prassi quotidiana. Le macchine parlano inglese e quindi io sarò all’avanguardia usando in continuazione termini anglosassoni. Inoltre l’uso continuo dell’insulto, della parola escrementizia per colpire l’avversario, la voglia di umiliare anziché confrontarsi: tutto questo indica una rinuncia alla limpidezza e alla forza del pensiero. L’intelletto ha bisogno di un linguaggio complesso e creativo. Gli insulti e le minacce raccontano di una semplificazione dell’intelligenza che porta il Paese a svilire se stesso e il proprio bisogno di stimarsi. Il nazionalismo, inteso come chiusura delle porte del pensiero e del commercio, anziché suscitare amore per il proprio Paese, crea forme di disprezzo e odio per i diversi. Da questo dovremmo cercare di guardarci perché rischiamo un isolamento mortale e un precipizio nella inconsistenza etica.

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