"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 8 luglio 2023

Dell’essere. 92 Adam Gopnik: «Perdendoci in un'azione che ci assorbe completamente, diventiamo noi stessi».


(…). “Che cosa vale la pena di essere insegnato?”, si chiedeva Reboul. “Ciò che libera e ciò che unisce”, rispondeva. Quello che libera le vocazioni e nutre le intelligenze. Educare è portare al bivio, indicare le strade, non scegliere al posto dell’allievo. L’insegnamento indica la strada e il viaggio – (…) – ma la visione deve essere di colui che apprende. Se l’educazione è un viaggio, se la vita stessa è un viaggio fatto di incontri, l’incontro con un maestro è una tappa decisiva. Ma un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre ma – (…) – avere un occhio nuovo. E questo è o un dono di natura oppure una conquista personale. Tratto da “Essere insegnanti, divenire maestri” di Raniero Regni, pubblicato sulla rivista “School in Europe”.

“Educhiamo alla felicità i nostri figli”, testo di Adam Gopnik - scrittore e giornalista canadese - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, venerdì 7 di luglio 2023: Quando avevo 12 anni, scomparivo nella mia camera con una chitarra acustica da 40 dollari e un canzoniere dei Beatles con diagrammi degli accordi elementari, di quelli grandi, per le tastiere agevolate che usano i principianti. Non avevo nessun talento per la musica, come avevo potuto accertare attraverso fallimentari lezioni, e nessuna formazione in materia. Le dita mi bruciavano quando cercavo di premerle sulle corde senza farle vibrare e la mano sinistra mi faceva male quando cercavo di passarla sul manico della chitarra per tutta la lunghezza delle corde. Nonostante tutto, (…) scoprii, tutto da solo, l'emozione impareggiabile di un'armonia musicale fatta in proprio. Nessuno mi aveva chiesto di farlo, e nessuno di sicuro si rammaricava che la porta fosse chiusa mentre strimpellavo inseguendo a tastoni il nirvana di queste canzoni semplificate. Ma il senso di felicità che provai quella settimana - una felicità autentica, che nasceva dal sentirmi coinvolto in qualcosa al di fuori di me - lo porto dietro ancora adesso. Cinquant'anni dopo continuo a non essere un granché come chitarrista, ma il lavoro di quella settimana, e i mesi e anni di pratica sullo strumento che vennero dopo, sono diventati una specie di pietra di paragone per me, e un modello e un fondamento per quasi tutto ciò che ho fatto di importante da allora. Mi diedero la sicurezza - una sicurezza che spesso è stata messa a dura prova, ma non si è mai estinta del tutto - che con la perseveranza, la passione e la pazienza si può riuscire a fare qualsiasi cosa. Per questo mi sembra particolarmente appropriato (…) parlare di una distinzione che colsi istintivamente per la prima volta in quella stanza e in quei diagrammi di accordi: la differenza tra conseguire e compiere qualcosa. Conseguire qualcosa significa portare a termine un compito imposto da altri, e la ricompensa spesso è l'accesso a un percorso verso la prossima cosa da conseguire. Compiere qualcosa è il punto conclusivo di un'attività che abbiamo noi e la sua ricompensa sta nell’eccitazione improvvisa dell'appagamento, quel senso di felicità che solo il fatto di essere coinvolti da qualcosa che è al di fuori di noi può darci. Il nostro mondo sociale spesso fa di tutto per scoraggiarci dal compiere e incoraggiarci a un'operazione meccanica come il conseguire. Tutto quello che vediamo intorno a noi ci dice che i giovani, in particolare, vengono spinti continuamente verso il prossimo esame, o verso la scuola elementare, il liceo o il college migliore in cui riescono a entrare. Inventiamo esami di profitto fatti in modo che nessuno possa preparare lo studente a superarli, con la conseguenza che abbiamo preparatori sempre più costosi che cercano inutilmente di trovare la chiave per decifrare esami di profitto non decifrabili. (Quelli che non possono permettersi questi lussi semplicemente vengono lasciati indietro). Spingiamo questi ragazzi e ragazze a conseguire, a portare a termine compiti che portano solo ad altri compiti, in un meccanismo che assomiglia, più che alla corsa del topo, al labirinto del topo, con un altro sorso di acqua zuccherata che ci aspetta dietro l'angolo, ma senza mai che si riesca a vedere il percorso verso il centro (o lo scopo di tutto quanto). La mia esperienza di compiere qualcosa (…) sembra trovare eco nell'esperienza di quasi tutte le persone che conosco. Mia moglie ricorda di aver imparato a cucirsi gli abiti da sola seguendo lo stesso processo mio, cioè scomponendo il compito in diversi compiti più piccoli e gestibili: trovare lo schema, scegliere il tessuto, usare la macchina fino a quando non arrivi a fare qualcosa che assomiglia a della musica. Quell'esperienza di scomposizione e costruzione che ha appreso allora si è riversata poi nella sua carriera professionale come montatrice e produttrice di film. A volte, questo processo produce effettivamente una vocazione: un altro amico ricorda che da bambino faticava a disegnare qualunque cosa (Superman, Spider-Man) e di essere rimasto sbalordito vedendo come migliorava la sua abilità settimana dopo settimana, mentre decrittava su carta un pezzo di mondo in più ogni volta; è diventato un pittore realista. Il più delle volte, però, queste ossessioni non sfociano in un lavoro con cui guadagnare, ma in un trampolino da cui lanciarsi: producono, attraverso una perseveranza appassionata, un senso di gratificazione che si riversa in imprese e progetti che apparentemente non c'entrano nulla. Come genitore, adesso, ho visto emergere nei miei figli la soddisfazione pura e semplice del compiere qualcosa, di una passione ben precisa perseguita strenuamente. Ma ho visto anche come viene scoraggiata, con le migliori intenzioni, dalle scuole che frequentano: più di un decennio fa mio figlio Luke, che all'epoca aveva 12 anni ed era un ragazzino incantato dai giochi di prestigio, ché aveva sempre un mazzo di carte in mano, scoprì che tutte le ore che aveva dedicato a imparare a padroneggiarle non erano necessariamente premiate in terza media. Mi battei in suo nome per ottenere una riduzione dei compiti a casa, perché stavano interferendo con i suoi esercizi di magia. Magari sono ingenuo, ma sono sicuro che non avevo del tutto torto; le scelte che ha fatto nella vita, che alla fine lo hanno portato a una laurea in filosofia, sono cominciate con la passione per quelle illusioni. L'origine della concentrazione e della sottigliezza di pensiero necessarie per padroneggiare le enigmatiche parabole gnomiche di Wittgenstein si può rintracciare più facilmente nell'arte di "girare gli assi" che in una pagella con tutti 9. Mettersi sotto per compiere qualcosa con le nostre forze, per quanto assurdo possa sembrare a chi guarda da fuori, o per quanto parziale possa essere, può diventare la base della percezione che abbiamo di noi stessi e del nostro senso di possibilità. Perdendoci in un'azione che ci assorbe completamente, diventiamo noi stessi. Sono consapevole che esistono delle obiezioni a questa visione: a un certo punto, questa cosa che fai deve diventare professionale, lucrativa, reale. Non possiamo giocare in eterno con le carte, o con gli accordi. Ed è indubbio che molte delle cose che viene chiesto di conseguire ai nostri figli possono portare a scoprire sé stessi: se hanno buoni insegnanti, possono imparare ad amare cose nuove e inaspettate. Il trucco probabilmente sta nel come si insegna. Mia sorella Alison Gopnik, che è psicologa dell'età evolutiva e scrittrice, lo dice alla perfezione: se insegnassimo ai nostri figli il softball come gli insegniamo la scienza, odierebbero il softball come odiano la scienza; ma se gli insegnassimo la scienza come gli insegniamo il softball, attraverso la pratica e il coinvolgimento, potrebbero amare tutti e due. Un'altra obiezione è che compiere qualcosa è solo il modo in cui le persone fortunate definiscono quelle cose che hanno il privilegio di fare, e che possono fare grazie alle cose che prima hanno conseguito. Ma questo significa accettare inconsciamente proprio quella distinzione fra compiti maggiori e minori, importanti e insignificanti, che la coercizione sociale è sempre stata pronta a perpetuare. Quando una persona, a qualsiasi età, si impegna in un compito arduo, se persevera con ostinazione e passione, anche solo per un breve periodo, genera un oppiaceo cognitivo che non ha eguali. Sono tante le droghe che ingoiamo o ci iniettiamo nelle vene: questa è una droga che produciamo nel nostro cervello, ed è una droga che ci fa bene. Il pensionato o l'appassionato che seguono un corso di batik o di yoga magari vengono guardati con sufficienza da quelli che conseguono le cose, ma quella passione è carburante per razzi. Il paradosso, meraviglioso, è che impegnarci in cose che magari non siamo capaci di fare bene può produrre quel senso di coinvolgimento che è l'essenza della felicità, mentre persistere nelle cose che già sappiamo fare bene non ha lo stesso effetto.

1 commento:

  1. "Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa, alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona ( ...). La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezza e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene ". (James Hillman). " L'amore è il nostro vero destino. Non troviamo il significato della vita da soli. Lo troviamo insieme a qualcun altro ". (Thomas Merton). Ma, aggiungerei, bisogna accostarsi alla realtà con occhi sempre nuovi... Grazie per questo stupendo post che pone l'accento su interessanti concetti che condivido e considero fondamentali. Buona continuazione.

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