(…). “Che cosa vale la pena di essere
insegnato?”, si chiedeva Reboul. “Ciò che libera e ciò che unisce”, rispondeva.
Quello che libera le vocazioni e nutre le intelligenze. Educare è portare al
bivio, indicare le strade, non scegliere al posto dell’allievo. L’insegnamento
indica la strada e il viaggio – (…) – ma la visione deve essere di colui che
apprende. Se l’educazione è un viaggio, se la vita stessa è un viaggio fatto di
incontri, l’incontro con un maestro è una tappa decisiva. Ma un vero viaggio di
scoperta non è cercare nuove terre ma – (…) – avere un occhio nuovo. E questo è
o un dono di natura oppure una conquista personale. Tratto da “Essere insegnanti, divenire maestri”
di Raniero Regni, pubblicato sulla rivista “School in Europe”.
“Educhiamo
alla felicità i nostri figli”, testo di Adam Gopnik - scrittore e
giornalista canadese - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, venerdì
7 di luglio 2023: Quando avevo 12 anni, scomparivo nella mia camera con una chitarra
acustica da 40 dollari e un canzoniere dei Beatles con diagrammi degli accordi
elementari, di quelli grandi, per le tastiere agevolate che usano i
principianti. Non avevo nessun talento per la musica, come avevo potuto
accertare attraverso fallimentari lezioni, e nessuna formazione in materia. Le
dita mi bruciavano quando cercavo di premerle sulle corde senza farle vibrare e
la mano sinistra mi faceva male quando cercavo di passarla sul manico della
chitarra per tutta la lunghezza delle corde. Nonostante tutto, (…) scoprii,
tutto da solo, l'emozione impareggiabile di un'armonia musicale fatta in
proprio. Nessuno mi aveva chiesto di farlo, e nessuno di sicuro si rammaricava
che la porta fosse chiusa mentre strimpellavo inseguendo a tastoni il nirvana
di queste canzoni semplificate. Ma il senso di felicità che provai quella
settimana - una felicità autentica, che nasceva dal sentirmi coinvolto in
qualcosa al di fuori di me - lo porto dietro ancora adesso. Cinquant'anni dopo
continuo a non essere un granché come chitarrista, ma il lavoro di quella
settimana, e i mesi e anni di pratica sullo strumento che vennero dopo, sono
diventati una specie di pietra di paragone per me, e un modello e un fondamento
per quasi tutto ciò che ho fatto di importante da allora. Mi diedero la
sicurezza - una sicurezza che spesso è stata messa a dura prova, ma non si è
mai estinta del tutto - che con la perseveranza, la passione e la pazienza si può
riuscire a fare qualsiasi cosa. Per questo mi sembra particolarmente appropriato
(…) parlare di una distinzione che colsi istintivamente per la prima volta in
quella stanza e in quei diagrammi di accordi: la differenza tra conseguire e
compiere qualcosa. Conseguire qualcosa significa portare a termine un compito
imposto da altri, e la ricompensa spesso è l'accesso a un percorso verso la
prossima cosa da conseguire. Compiere qualcosa è il punto conclusivo di un'attività
che abbiamo noi e la sua ricompensa sta nell’eccitazione improvvisa dell'appagamento,
quel senso di felicità che solo il fatto di essere coinvolti da qualcosa che è
al di fuori di noi può darci. Il nostro mondo sociale spesso fa di tutto per
scoraggiarci dal compiere e incoraggiarci a un'operazione meccanica come il
conseguire. Tutto quello che vediamo intorno a noi ci dice che i giovani, in
particolare, vengono spinti continuamente verso il prossimo esame, o verso la
scuola elementare, il liceo o il college migliore in cui riescono a entrare. Inventiamo
esami di profitto fatti in modo che nessuno possa preparare lo studente a
superarli, con la conseguenza che abbiamo preparatori sempre più costosi che
cercano inutilmente di trovare la chiave per decifrare esami di profitto non decifrabili.
(Quelli che non possono permettersi questi lussi semplicemente vengono lasciati
indietro). Spingiamo questi ragazzi e ragazze a conseguire, a portare a termine
compiti che portano solo ad altri compiti, in un meccanismo che assomiglia, più
che alla corsa del topo, al labirinto del topo, con un altro sorso di acqua zuccherata
che ci aspetta dietro l'angolo, ma senza mai che si riesca a vedere il percorso
verso il centro (o lo scopo di tutto quanto). La mia esperienza di compiere
qualcosa (…) sembra trovare eco nell'esperienza di quasi tutte le persone che
conosco. Mia moglie ricorda di aver imparato a cucirsi gli abiti da sola
seguendo lo stesso processo mio, cioè scomponendo il compito in diversi compiti
più piccoli e gestibili: trovare lo schema, scegliere il tessuto, usare la
macchina fino a quando non arrivi a fare qualcosa che assomiglia a della
musica. Quell'esperienza di scomposizione e costruzione che ha appreso allora
si è riversata poi nella sua carriera professionale come montatrice e
produttrice di film. A volte, questo processo produce effettivamente una
vocazione: un altro amico ricorda che da bambino faticava a disegnare qualunque
cosa (Superman, Spider-Man) e di essere rimasto sbalordito vedendo come
migliorava la sua abilità settimana dopo settimana, mentre decrittava su carta
un pezzo di mondo in più ogni volta; è diventato un pittore realista. Il più
delle volte, però, queste ossessioni non sfociano in un lavoro con cui guadagnare,
ma in un trampolino da cui lanciarsi: producono, attraverso una perseveranza
appassionata, un senso di gratificazione che si riversa in imprese e progetti
che apparentemente non c'entrano nulla. Come genitore, adesso, ho visto
emergere nei miei figli la soddisfazione pura e semplice del compiere qualcosa,
di una passione ben precisa perseguita strenuamente. Ma ho visto anche come
viene scoraggiata, con le migliori intenzioni, dalle scuole che frequentano:
più di un decennio fa mio figlio Luke, che all'epoca aveva 12 anni ed era un ragazzino
incantato dai giochi di prestigio, ché aveva sempre un mazzo di carte in mano,
scoprì che tutte le ore che aveva dedicato a imparare a padroneggiarle non
erano necessariamente premiate in terza media. Mi battei in suo nome per
ottenere una riduzione dei compiti a casa, perché stavano interferendo con i
suoi esercizi di magia. Magari sono ingenuo, ma sono sicuro che non avevo del
tutto torto; le scelte che ha fatto nella vita, che alla fine lo hanno portato
a una laurea in filosofia, sono cominciate con la passione per quelle
illusioni. L'origine della concentrazione e della sottigliezza di pensiero
necessarie per padroneggiare le enigmatiche parabole gnomiche di Wittgenstein
si può rintracciare più facilmente nell'arte di "girare gli assi" che
in una pagella con tutti 9. Mettersi sotto per compiere qualcosa con le nostre
forze, per quanto assurdo possa sembrare a chi guarda da fuori, o per quanto
parziale possa essere, può diventare la base della percezione che abbiamo di
noi stessi e del nostro senso di possibilità. Perdendoci in un'azione che ci
assorbe completamente, diventiamo noi stessi. Sono consapevole che esistono
delle obiezioni a questa visione: a un certo punto, questa cosa che fai deve
diventare professionale, lucrativa, reale. Non possiamo giocare in eterno con
le carte, o con gli accordi. Ed è indubbio che molte delle cose che viene
chiesto di conseguire ai nostri figli possono portare a scoprire sé stessi: se
hanno buoni insegnanti, possono imparare ad amare cose nuove e inaspettate. Il
trucco probabilmente sta nel come si insegna. Mia sorella Alison Gopnik, che è
psicologa dell'età evolutiva e scrittrice, lo dice alla perfezione: se insegnassimo
ai nostri figli il softball come gli insegniamo la scienza, odierebbero il
softball come odiano la scienza; ma se gli insegnassimo la scienza come gli
insegniamo il softball, attraverso la pratica e il coinvolgimento, potrebbero
amare tutti e due. Un'altra obiezione è che compiere qualcosa è solo il modo in
cui le persone fortunate definiscono quelle cose che hanno il privilegio di
fare, e che possono fare grazie alle cose che prima hanno conseguito. Ma questo
significa accettare inconsciamente proprio quella distinzione fra compiti
maggiori e minori, importanti e insignificanti, che la coercizione sociale è
sempre stata pronta a perpetuare. Quando una persona, a qualsiasi età, si
impegna in un compito arduo, se persevera con ostinazione e passione, anche
solo per un breve periodo, genera un oppiaceo cognitivo che non ha eguali. Sono
tante le droghe che ingoiamo o ci iniettiamo nelle vene: questa è una droga che
produciamo nel nostro cervello, ed è una droga che ci fa bene. Il pensionato o
l'appassionato che seguono un corso di batik o di yoga magari vengono guardati
con sufficienza da quelli che conseguono le cose, ma quella passione è carburante
per razzi. Il paradosso, meraviglioso, è che impegnarci in cose che magari non
siamo capaci di fare bene può produrre quel senso di coinvolgimento che è
l'essenza della felicità, mentre persistere nelle cose che già sappiamo fare
bene non ha lo stesso effetto.
"Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa, alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona ( ...). La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezza e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene ". (James Hillman). " L'amore è il nostro vero destino. Non troviamo il significato della vita da soli. Lo troviamo insieme a qualcun altro ". (Thomas Merton). Ma, aggiungerei, bisogna accostarsi alla realtà con occhi sempre nuovi... Grazie per questo stupendo post che pone l'accento su interessanti concetti che condivido e considero fondamentali. Buona continuazione.
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