Sopra. "Totalitarismo 100" di Emilio Gentile
(Salerno editore, pagg. 208, euro 21).
Da
“Italica”
di Giacomo Papi – al capitolo
«La parola
"Resistenza" 1943», pagg. 161/165 -:
Tra
le Lettere di condannati a morte della Resistenza ita-liana, che Einaudi
pubblicò nel 1952, ci sono quelle di Sergio Papi, un cugino di mio nonno. La
breve biografia lo descrive così: «Di anni 20 - impiegato - nato a Milano il 2
r novembre 1923 - Telegrafista alla Stazione Centrale di Milano, dal 1942
decifra ordini di persecuzioni per motivi razziali e politici che trasmette
agli interessati - dopo il 25 luglio 1943 trafuga e distrugge telegrammi
relativi a trasporti militari; dopo l'8 settembre si unisce ai partigiani nella
zona di Intra (Lago Maggiore) ed aiuta prigionieri alleati ad evadere in
Svizzera tramite il valico di Viggiù». Poche righe che proseguono con il
racconto dell'arresto e la deportazione in Germania, il tentativo di fuga in
bicicletta verso l'Italia e l'ultima cattura, quando era quasi in Italia. Fu
«fucilato alle ore del 19 ottobre 1944 al campo di Musingen con Ugo Cellini,
Luigi Fossati e Franco Torelli». Anche se la sua storia era quella di un eroe,
da bambino rimanevo deluso perché le sue ultime lettere erano quelle di un
bravo ragazzo che amava la Patria, la mamma, spaventato e timoroso di Dio: «Dal
cielo al quale salgo, confessato e pentito, vi guarderò sempre e vi benedirò». La
cosa che più mi stupiva, però, era che nelle Lettere di condannali a morte
della Resistenza italiana la parola "Resistenza" non ci fosse mai:
Era la stessa parola, in fondo, a lasciarmi perplesso perché mi sembrava bella,
ma sbagliata. Non capivo come si potesse resistere a nemici - i fascisti - che
erano già al potere e a un esercito - quello tedesco - con cui eravamo già
alleati. Avrei preferito Liberazione, oppure Rinascita, Risorgimento,
Rivoluzione perché si resiste a un cattivo che ti invade, non se c'è già. Era
una parola più adatta a descrivere una lotta per impedire il male che per
produrre il bene. Chi aveva deciso di usarla? Alla questione hanno accennato
grandi storici come Claudio Pavone, Paolo Spriana e Nicola Matteucci, ma molte
risposte si trovano in uno studio di Riccardo Tesi intitolato Resistenza e
termini affini nel lessico politico degli anni 1943- 1945 e del dopoguerra
pubblicato nel 1994 sulla rivista «Lingua nostra». La resistenza italiana cominciò in Spagna nel
1936, dove 3.500 antifascisti italiani fecero le prove di quello che sarebbe
accaduto. È in Spagna, infatti, che la parola "Resistenza" compare. A
usarla per primo, ma senza maiuscola, fu Pietro Nenni: «Si tratta di sapere»
scrisse nel 1936 sul «Nuovo Avanti», «se volendo la resistenza al fascismo non
bisogna volere gli strumenti della resistenza». Il primo a diffonderla davvero
- "l'onomaturgo", lo definisce Tesi - fu il generale Charles De
Gaulle che il 18 giugno 1940, dopo la resa di Pétain a Hitler, inneggiò sulla
radio della BBC alla «fiamme de la Résistance française». Dalla Francia per
interposta Inghilterra, la parola emigrò in Italia, ancora tramite Nenni che,
come molti altri antifascisti, viveva in Francia, e per questa strada giunse a
comunisti, cattolici, azionisti e membri di Giustizia e libertà. Ma dilagò solo
dopo l'armistizio. Nel comunicato del 9 settembre 1943 si legge: «I partiti
antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale, per
chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza». Era ancora in minuscolo,
però, non egemone perché ai comunisti sembrava troppo passiva: nel 1943 Palmiro
Togliatti distingueva tra "resistenza popolare" e "lotta dei
partigiani" e Luigi Longo su «La nostra lotta» insisteva sull'azione: «Si
tratta per il nostro partito non solo di resistere, ma di lottare attivamente,
decisamente, con continuità, sino alla completa liberazione del nostro
territorio dalle orde hitleriane e dai briganti fascisti». Dal 1944 il sintagma
più diffuso era ancora "Guerra di liberazione nazionale", anche se
erano frequenti lotta, battaglia, movimento, guerriglia, moto, indipendenza,
insurrezione, cospirazione e, perfino, Secondo Risorgimento. Si parlava anche
di "Guerra civile" - espressione che gli storici italiani avrebbero
ammesso soltanto a partire dal 1990 grazie a Claudio Pavone e Gian Enrico
Rusconi -, ma a volte l'aggettivo "civile" veniva utilizzato come un
sinonimo di civilizzato e il contrario di incivile. A battere sulla parola
"Resistenza" furono gli Alleati dopo la Liberazione che desideravano
ricondurre la lotta italiana nell'insieme delle resistenze europee occidentali,
allontanandola così dall'influenza anche linguistica dell'URSS. Dopo il 25
aprile, infatti, la parola "Resistenza" invase i documenti di tutte
le forze politiche, a cominciare dalla Democrazia cristiana. La parola diventò
identitaria e la battaglia consapevole. L'ultima resistenza, ancora una volta,
fu dei comunisti che smisero di usarla in massa, opponendo a questo tentativo un
silenzio intenzionale che si protrasse fino al 25 febbraio 1949 quando,
parlando alla Camera, Luigi Longo pronunciò "Resistenza" per accusare
le altre forze di averne vilipeso i valori. Il PCI scelse, cioè, di ergersi a
difensore della parola tradita, proclamando la propria fedeltà alla Repubblica
e insieme la propria nostalgia per una rivoluzione che non ci sarebbe mai
stata. Fu in quell'istante che la resistenza divenne una condizione e un
destino, come aveva scritto Elio Vittorini in Uomini e no, pubblicato nel 1945:
«Questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse
resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere». Ma non fu una
rinuncia facile. In nessuna delle Lettere di condannati' a morte della
Resistenza italiana la parola "Resistenza" compare. La cita (…) Enzo
Enriques Agnoletti proprio per negarla: «Non dimentichiamo mai che non è stata
una resistenza, ma è stata un attacco, una iniziativa, una innovazione ideale, non
un tentativo di conservare qualcosa». Insieme alla guerra reale si combatté,
cioè, un conflitto linguistico clandestino per il potere di dare i nomi a
quello che accadeva. La guerra accadde senza poter essere detta da una sola
parola. Anche "partigiano" si diffuse dopo un discorso di Stalin del
1941. Per tutto il conflitto dovette vedersela con guerrigliero, insorto,
ribelle e soprattutto "patriota". Nenni arrivò a usare "macchiaiuolo",
traducendo dal francese maquisard, chi si è dato alla macchia. È noto, per
esempio, che il titolo Il partigiano johnny, uscito per Einaudi nel 1968, non
fu di Beppe Fenoglio, ma della redazione. Nel racconto Nella valle di San
Benedetto, scritto tra il 1947 e il 1948, invece, la parola
"partigiano" è già dominante. «Eravamo entrati insieme nel movimento
quando i partigiani la gente li chiamava ancora i ribelli, eravamo tutt'e tre
studenti d'Università, avevamo intelligenza e virilità pressoché pari» scrive
Fenoglio presentando i tre personaggi principali, Giorgio, Bob e il narratore
senza nome, tre ragazzi allo sbando durante un rastrellamento dei nazifascisti
nelle Langhe nel novembre 1944. «Figure di soldati si materializzavano per un
attimo attraversando la luce dei fari e poi subito si disfacevano nel buio.» Le
porte e le finestre del paese sono sbarrate, gli uomini si sono nascosti
sottoterra. Come il protagonista che, dopo essere stato abbandonato dai due
compagni, è andato a seppellirsi in una tomba del cimitero di San Benedetto da
cui vede soltanto un pezzo di cielo attraverso lo spiraglio tra la terra e la
lapide, e intanto immagina, come in un racconto di Edgar Allan Poe, i resti
della «maestra Enrichetta Ghirardi morta nel 1928» e seppellita con lui, la
decomposizione che avanza e i vermi strisciare nel buio. La morte domina la
scena, la paura corrompe ogni cosa, anche il coraggio e il destino, come nelle
lettere dei condannati a morte. Le parole sono elastiche, non ci mettono molto
a cambiare significato. Sono gli uomini a farle parlare. La parola
"Resistenza" negli anni si è caricata di eroismo e azione che erano
assenti nel significato originario. Lo stesso vale per "partigiano".
I significati originari, però, forse non si spengono mai del tutto, continuano
a lottare nell'ombra, cercando di riportare le parole al senso che avevano da
giovani. Mi sto chiedendo, cioè, se la parola "Resistenza" non abbia
influenzato in segreto il modo con cui ci siamo abituati a pensare la politica,
a concepire l'avversario come un invasore, un intruso da scacciare, qualcuno a
cui "resistere resistere resistere". È una debolezza oppure una
forza? È stata la Resistenza a farci credere che basta resistere al peggio,
invece che immaginare il meglio? La parola "Resistenza", però, dice
una cosa preziosa che ha a che fare con l'attenzione e la cura. Dice che nulla
è conquistato per sempre perché la paura corrompe ogni cosa, come nel racconto
di Fenoglio, e tutto può disperdersi e sgretolarsi di nuovo.
“Così
rischiamo di banalizzare il fascismo”, intervista di Simonetta Fiori allo storico
Emilio Gentile pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 17 di giugno 2023:
(…).
"La mia potrebbe apparire una fissazione, soprattutto per chi ignora la
storia", (…). Per chi studia il fascismo da mezzo secolo, l'ignoranza
attuale è inquietante".
Da cosa nasce l'inquietudine? "Dopo i
grandi progressi fatti dalla storiografia italiana nell'ultimo mezzo secolo,
assistiamo a una grave regressione non solo nel campo della conoscenza ma anche
nella sensibilità collettiva verso i problemi storici analizzati nella loro
complessità e concretezza. Stiamo tornando alle interpretazioni del fascismo,
in voga dopo la guerra, quando cominciò quella che ho definito "la
defascistizzazione del fascismo", la sua riduzione a regime
involontariamente autoritario, che ha favorito la modernizzazione dell'Italia,
finito sulla cattiva strada solo con le leggi razziali e la persecuzione degli
ebrei. La "defascistizzazione" perdura, quando si ignora la realtà di
un regime che manifestò la sua novità totalitaria fin dal principio".
Totalitario fu l'aggettivo coniato dagli
antifascisti italiani fin dal 1923. "Per questo ho voluto sottolinearne
l'anniversario fin dal titolo del libro, Totalitarismo 100. Prima nacque
l'aggettivo, poi il sostantivo, proprio per indicare ciò che accadeva sotto lo
sguardo di don Sturzo, di Giovanni Amendola e di altri antifascisti. Gli stessi
che dal 1923 previdero, con straordinaria lucidità, le conseguenze del
"regime fascista", come già lo chiamavano: la distruzione del sistema
liberale, il potere assoluto del duce in uno Stato a partito unico, il destino
della guerra".
È nota la sua interpretazione secondo la
quale il fascismo è stato il primo esperimento totalitario della storia. Il
volerlo negare rischia di avere conseguenze civili? "Più che una
interpretazione, è una constatazione, fondata sui documenti e non su
elucubrazioni teoriche. Tuttora si continua ad ignorare quanto profonda sia
stata la penetrazione del fascismo nella società, nella cultura, nelle
istituzioni e nel costume, riducendolo a un regime da operetta. Ma se il
totalitarismo fascista fu solo un'abbronzatura in camicia nera, dissolta con il
cambio di stagione, perché torniamo continuamente a parlarne? Come è possibile
che il periodo più incisivo nella storia dell'Italia unita e nella coscienza
nazionale siano stati i ventitré anni di dominio fascista, e non i precedenti
sessant'anni di monarchia liberale o i successivi settantasette di democrazia
repubblicana?".
Lei dice in sostanza che il non aver fatto i
conti con la natura totalitaria del regime impedisce di consegnarlo alla
storia. "Io mi chiedo come sia possibile che ancora oggi si metta in
discussione la peculiarità storica del regime fascista, domandandosi se fu
veramente totalitario. È come domandarsi se la Chiesa di Roma sia veramente
cattolica, o se la democrazia ateniese fu veramente democratica. Significa
mettere in discussione la storia nelle sue realtà fondamentali. O semplicemente
ignorarla".
A mettere in discussione la natura
totalitaria del fascismo sono esponenti di un partito politico oggi alla guida
del paese. "Purtroppo non è una loro esclusiva. È una banalizzazione diffusa
fra politici, intellettuali, accademici. E rivela l'inutilità del lavoro
storiografico per coloro che esercitano un ruolo dirigente in Italia. Le nostre
classi politiche non conoscono la storia. La divulgazione storica per il grande
pubblico è condita di storielle, pettegolezzi, effetti sensazionali. È un
racconto che coltiva i luoghi comuni o asseconda il nuovo potere. La
complessità annoia. O non interessa".
Ma è stato questo ritardo nel fare i conti
con la dittatura fascista ad aver favorito il successo di una forza politica
erede del neofascismo? "Non credo che gli elettori di Fratelli d'Italia
siano tutti nostalgici del fascismo. Sono piuttosto persone deluse dai partiti
degli ultimi governi. Mi chiedo però come sia stato possibile che settantasette
anni di democrazia repubblicana non siano valsi a convertire gli italiani ai
principi della Costituzione. La responsabilità non è dei fondatori antifascisti
ma dei loro continuatori, incapaci di trasformare la Costituzione in un costume
politico collettivo. Neppure la scuola ha trasformato la conoscenza
storiografica in una lezione civica sul significato e il valore delle libertà
democratiche. Ci hanno provato i presidenti della Repubblica, ma i partiti
politici li hanno seguiti solo con la retorica".
Resta il fatto che oggi molti italiani non
hanno alcun turbamento davanti ai simboli littori e alla fiamma del
neofascismo, che pure evocano morte e persecuzione. "Credo che questo accada perché la
Repubblica democratica ha consentito l'esistenza di un partito neofascista,
presente in tutte le competizioni elettorali. L'articolo XII delle disposizioni
transitorie e finali della Costituzione limitò solo per cinque anni "il
diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista".
Se Mussolini fosse sopravvissuto, nel 1953 avrebbe potuto candidarsi in
Parlamento".
Ci mancava solo questo. "Ma questa è
stata la grande vittoria dell'antifascismo, capace di includere nel proprio
sistema democratico anche i suoi avversari più temibili. E la democrazia
repubblicana, nonostante i suoi travagli, vive da settantasette anni,
cinquantaquattro in più del regime fascista".
L'antifascismo oggi non viene riconosciuto
come cultura politica fondativa né dalla presidente del Consiglio né dal
presidente del Senato. "Anche se venisse riconosciuto, basta la
professione antifascista a definire un'identità democratica? Per qualsiasi
partito, questa è definita dalla politica concreta. Probabilmente Giorgia
Meloni intende utilizzare tutte le possibilità del metodo democratico per
governare almeno vent'anni. Ma questa è la realtà della nuova democrazia
recitativa, ovunque prevalente: democratica nel metodo, ma senza l'effettiva
partecipazione di tutti i cittadini alla politica".
Non vede particolari rischi di
un'involuzione democratica, come ha lamentato una personalità misurata come
Romano Prodi? "Il rischio può esserci. Ma l'involuzione è cominciata
almeno da trent'anni, quando un partito personale che non era democratico al
suo interno ha egemonizzato la scena pubblica. Bisogna però constatare che la
democrazia naviga in cattive acque ovunque in Europa e nel mondo. Sopravvive il
metodo - tutti riconoscono la competizione elettorale per scegliere i
governanti - ma non serve più a realizzare l'ideale democratico, cioè governare
per emancipare il maggior numero di esseri umani. L'ideale democratico si sta
esaurendo un po' dappertutto".
Per chiudere con le alterne fortune della
parola "totalitarismo", c'è anche chi ha voluto cancellarne il lemma
dal lessico scientifico. "Nel 1968 il collaboratore di un'autorevole
Enciclopedia internazionale di scienze sociali propose di abolirne la voce.
Così avvenne. Nello stesso anno uno storico inglese propose di eliminare il
termine "fascismo" dalla storiografia. Non è mai accaduto che
qualcuno abbia chiesto la messa al bando di termini fondamentali come
"dittatura", "rivoluzione", "democrazia". Il
fatto che sia accaduto per "fascismo" e "totalitarismo" fa
riflettere, se ancora oggi c'è chi continua a negare le parole e le realtà
storiche ad esse associate. E io continuo a studiare e raccontare i fatti della
storia, anche a costo di apparire fuori moda".
Nessun commento:
Posta un commento