"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 2 luglio 2023

Memoriae. 59 Giacomo Papi: «Nulla è conquistato per sempre perché la paura corrompe ogni cosa e tutto può disperdersi e sgretolarsi di nuovo».

Sopra. "Totalitarismo 100" di Emilio Gentile (Salerno editore, pagg. 208, euro 21).


Da “Italica” di Giacomo Papi – al capitolo «La parola "Resistenza" 1943», pagg. 161/165 -: Tra le Lettere di condannati a morte della Resistenza ita-liana, che Einaudi pubblicò nel 1952, ci sono quelle di Sergio Papi, un cugino di mio nonno. La breve biografia lo descrive così: «Di anni 20 - impiegato - nato a Milano il 2 r novembre 1923 - Telegrafista alla Stazione Centrale di Milano, dal 1942 decifra ordini di persecuzioni per motivi razziali e politici che trasmette agli interessati - dopo il 25 luglio 1943 trafuga e distrugge telegrammi relativi a trasporti militari; dopo l'8 settembre si unisce ai partigiani nella zona di Intra (Lago Maggiore) ed aiuta prigionieri alleati ad evadere in Svizzera tramite il valico di Viggiù». Poche righe che proseguono con il racconto dell'arresto e la deportazione in Germania, il tentativo di fuga in bicicletta verso l'Italia e l'ultima cattura, quando era quasi in Italia. Fu «fucilato alle ore del 19 ottobre 1944 al campo di Musingen con Ugo Cellini, Luigi Fossati e Franco Torelli». Anche se la sua storia era quella di un eroe, da bambino rimanevo deluso perché le sue ultime lettere erano quelle di un bravo ragazzo che amava la Patria, la mamma, spaventato e timoroso di Dio: «Dal cielo al quale salgo, confessato e pentito, vi guarderò sempre e vi benedirò». La cosa che più mi stupiva, però, era che nelle Lettere di condannali a morte della Resistenza italiana la parola "Resistenza" non ci fosse mai: Era la stessa parola, in fondo, a lasciarmi perplesso perché mi sembrava bella, ma sbagliata. Non capivo come si potesse resistere a nemici - i fascisti - che erano già al potere e a un esercito - quello tedesco - con cui eravamo già alleati. Avrei preferito Liberazione, oppure Rinascita, Risorgimento, Rivoluzione perché si resiste a un cattivo che ti invade, non se c'è già. Era una parola più adatta a descrivere una lotta per impedire il male che per produrre il bene. Chi aveva deciso di usarla? Alla questione hanno accennato grandi storici come Claudio Pavone, Paolo Spriana e Nicola Matteucci, ma molte risposte si trovano in uno studio di Riccardo Tesi intitolato Resistenza e termini affini nel lessico politico degli anni 1943- 1945 e del dopoguerra pubblicato nel 1994 sulla rivista «Lingua nostra». La resistenza italiana cominciò in Spagna nel 1936, dove 3.500 antifascisti italiani fecero le prove di quello che sarebbe accaduto. È in Spagna, infatti, che la parola "Resistenza" compare. A usarla per primo, ma senza maiuscola, fu Pietro Nenni: «Si tratta di sapere» scrisse nel 1936 sul «Nuovo Avanti», «se volendo la resistenza al fascismo non bisogna volere gli strumenti della resistenza». Il primo a diffonderla davvero - "l'onomaturgo", lo definisce Tesi - fu il generale Charles De Gaulle che il 18 giugno 1940, dopo la resa di Pétain a Hitler, inneggiò sulla radio della BBC alla «fiamme de la Résistance française». Dalla Francia per interposta Inghilterra, la parola emigrò in Italia, ancora tramite Nenni che, come molti altri antifascisti, viveva in Francia, e per questa strada giunse a comunisti, cattolici, azionisti e membri di Giustizia e libertà. Ma dilagò solo dopo l'armistizio. Nel comunicato del 9 settembre 1943 si legge: «I partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza». Era ancora in minuscolo, però, non egemone perché ai comunisti sembrava troppo passiva: nel 1943 Palmiro Togliatti distingueva tra "resistenza popolare" e "lotta dei partigiani" e Luigi Longo su «La nostra lotta» insisteva sull'azione: «Si tratta per il nostro partito non solo di resistere, ma di lottare attivamente, decisamente, con continuità, sino alla completa liberazione del nostro territorio dalle orde hitleriane e dai briganti fascisti». Dal 1944 il sintagma più diffuso era ancora "Guerra di liberazione nazionale", anche se erano frequenti lotta, battaglia, movimento, guerriglia, moto, indipendenza, insurrezione, cospirazione e, perfino, Secondo Risorgimento. Si parlava anche di "Guerra civile" - espressione che gli storici italiani avrebbero ammesso soltanto a partire dal 1990 grazie a Claudio Pavone e Gian Enrico Rusconi -, ma a volte l'aggettivo "civile" veniva utilizzato come un sinonimo di civilizzato e il contrario di incivile. A battere sulla parola "Resistenza" furono gli Alleati dopo la Liberazione che desideravano ricondurre la lotta italiana nell'insieme delle resistenze europee occidentali, allontanandola così dall'influenza anche linguistica dell'URSS. Dopo il 25 aprile, infatti, la parola "Resistenza" invase i documenti di tutte le forze politiche, a cominciare dalla Democrazia cristiana. La parola diventò identitaria e la battaglia consapevole. L'ultima resistenza, ancora una volta, fu dei comunisti che smisero di usarla in massa, opponendo a questo tentativo un silenzio intenzionale che si protrasse fino al 25 febbraio 1949 quando, parlando alla Camera, Luigi Longo pronunciò "Resistenza" per accusare le altre forze di averne vilipeso i valori. Il PCI scelse, cioè, di ergersi a difensore della parola tradita, proclamando la propria fedeltà alla Repubblica e insieme la propria nostalgia per una rivoluzione che non ci sarebbe mai stata. Fu in quell'istante che la resistenza divenne una condizione e un destino, come aveva scritto Elio Vittorini in Uomini e no, pubblicato nel 1945: «Questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere». Ma non fu una rinuncia facile. In nessuna delle Lettere di condannati' a morte della Resistenza italiana la parola "Resistenza" compare. La cita (…) Enzo Enriques Agnoletti proprio per negarla: «Non dimentichiamo mai che non è stata una resistenza, ma è stata un attacco, una iniziativa, una innovazione ideale, non un tentativo di conservare qualcosa». Insieme alla guerra reale si combatté, cioè, un conflitto linguistico clandestino per il potere di dare i nomi a quello che accadeva. La guerra accadde senza poter essere detta da una sola parola. Anche "partigiano" si diffuse dopo un discorso di Stalin del 1941. Per tutto il conflitto dovette vedersela con guerrigliero, insorto, ribelle e soprattutto "patriota". Nenni arrivò a usare "macchiaiuolo", traducendo dal francese maquisard, chi si è dato alla macchia. È noto, per esempio, che il titolo Il partigiano johnny, uscito per Einaudi nel 1968, non fu di Beppe Fenoglio, ma della redazione. Nel racconto Nella valle di San Benedetto, scritto tra il 1947 e il 1948, invece, la parola "partigiano" è già dominante. «Eravamo entrati insieme nel movimento quando i partigiani la gente li chiamava ancora i ribelli, eravamo tutt'e tre studenti d'Università, avevamo intelligenza e virilità pressoché pari» scrive Fenoglio presentando i tre personaggi principali, Giorgio, Bob e il narratore senza nome, tre ragazzi allo sbando durante un rastrellamento dei nazifascisti nelle Langhe nel novembre 1944. «Figure di soldati si materializzavano per un attimo attraversando la luce dei fari e poi subito si disfacevano nel buio.» Le porte e le finestre del paese sono sbarrate, gli uomini si sono nascosti sottoterra. Come il protagonista che, dopo essere stato abbandonato dai due compagni, è andato a seppellirsi in una tomba del cimitero di San Benedetto da cui vede soltanto un pezzo di cielo attraverso lo spiraglio tra la terra e la lapide, e intanto immagina, come in un racconto di Edgar Allan Poe, i resti della «maestra Enrichetta Ghirardi morta nel 1928» e seppellita con lui, la decomposizione che avanza e i vermi strisciare nel buio. La morte domina la scena, la paura corrompe ogni cosa, anche il coraggio e il destino, come nelle lettere dei condannati a morte. Le parole sono elastiche, non ci mettono molto a cambiare significato. Sono gli uomini a farle parlare. La parola "Resistenza" negli anni si è caricata di eroismo e azione che erano assenti nel significato originario. Lo stesso vale per "partigiano". I significati originari, però, forse non si spengono mai del tutto, continuano a lottare nell'ombra, cercando di riportare le parole al senso che avevano da giovani. Mi sto chiedendo, cioè, se la parola "Resistenza" non abbia influenzato in segreto il modo con cui ci siamo abituati a pensare la politica, a concepire l'avversario come un invasore, un intruso da scacciare, qualcuno a cui "resistere resistere resistere". È una debolezza oppure una forza? È stata la Resistenza a farci credere che basta resistere al peggio, invece che immaginare il meglio? La parola "Resistenza", però, dice una cosa preziosa che ha a che fare con l'attenzione e la cura. Dice che nulla è conquistato per sempre perché la paura corrompe ogni cosa, come nel racconto di Fenoglio, e tutto può disperdersi e sgretolarsi di nuovo.

“Così rischiamo di banalizzare il fascismo”, intervista di Simonetta Fiori allo storico Emilio Gentile pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 17 di giugno 2023: (…). "La mia potrebbe apparire una fissazione, soprattutto per chi ignora la storia", (…). Per chi studia il fascismo da mezzo secolo, l'ignoranza attuale è inquietante".

Da cosa nasce l'inquietudine? "Dopo i grandi progressi fatti dalla storiografia italiana nell'ultimo mezzo secolo, assistiamo a una grave regressione non solo nel campo della conoscenza ma anche nella sensibilità collettiva verso i problemi storici analizzati nella loro complessità e concretezza. Stiamo tornando alle interpretazioni del fascismo, in voga dopo la guerra, quando cominciò quella che ho definito "la defascistizzazione del fascismo", la sua riduzione a regime involontariamente autoritario, che ha favorito la modernizzazione dell'Italia, finito sulla cattiva strada solo con le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei. La "defascistizzazione" perdura, quando si ignora la realtà di un regime che manifestò la sua novità totalitaria fin dal principio".

Totalitario fu l'aggettivo coniato dagli antifascisti italiani fin dal 1923. "Per questo ho voluto sottolinearne l'anniversario fin dal titolo del libro, Totalitarismo 100. Prima nacque l'aggettivo, poi il sostantivo, proprio per indicare ciò che accadeva sotto lo sguardo di don Sturzo, di Giovanni Amendola e di altri antifascisti. Gli stessi che dal 1923 previdero, con straordinaria lucidità, le conseguenze del "regime fascista", come già lo chiamavano: la distruzione del sistema liberale, il potere assoluto del duce in uno Stato a partito unico, il destino della guerra".

È nota la sua interpretazione secondo la quale il fascismo è stato il primo esperimento totalitario della storia. Il volerlo negare rischia di avere conseguenze civili? "Più che una interpretazione, è una constatazione, fondata sui documenti e non su elucubrazioni teoriche. Tuttora si continua ad ignorare quanto profonda sia stata la penetrazione del fascismo nella società, nella cultura, nelle istituzioni e nel costume, riducendolo a un regime da operetta. Ma se il totalitarismo fascista fu solo un'abbronzatura in camicia nera, dissolta con il cambio di stagione, perché torniamo continuamente a parlarne? Come è possibile che il periodo più incisivo nella storia dell'Italia unita e nella coscienza nazionale siano stati i ventitré anni di dominio fascista, e non i precedenti sessant'anni di monarchia liberale o i successivi settantasette di democrazia repubblicana?".

Lei dice in sostanza che il non aver fatto i conti con la natura totalitaria del regime impedisce di consegnarlo alla storia. "Io mi chiedo come sia possibile che ancora oggi si metta in discussione la peculiarità storica del regime fascista, domandandosi se fu veramente totalitario. È come domandarsi se la Chiesa di Roma sia veramente cattolica, o se la democrazia ateniese fu veramente democratica. Significa mettere in discussione la storia nelle sue realtà fondamentali. O semplicemente ignorarla".

A mettere in discussione la natura totalitaria del fascismo sono esponenti di un partito politico oggi alla guida del paese. "Purtroppo non è una loro esclusiva. È una banalizzazione diffusa fra politici, intellettuali, accademici. E rivela l'inutilità del lavoro storiografico per coloro che esercitano un ruolo dirigente in Italia. Le nostre classi politiche non conoscono la storia. La divulgazione storica per il grande pubblico è condita di storielle, pettegolezzi, effetti sensazionali. È un racconto che coltiva i luoghi comuni o asseconda il nuovo potere. La complessità annoia. O non interessa".

Ma è stato questo ritardo nel fare i conti con la dittatura fascista ad aver favorito il successo di una forza politica erede del neofascismo? "Non credo che gli elettori di Fratelli d'Italia siano tutti nostalgici del fascismo. Sono piuttosto persone deluse dai partiti degli ultimi governi. Mi chiedo però come sia stato possibile che settantasette anni di democrazia repubblicana non siano valsi a convertire gli italiani ai principi della Costituzione. La responsabilità non è dei fondatori antifascisti ma dei loro continuatori, incapaci di trasformare la Costituzione in un costume politico collettivo. Neppure la scuola ha trasformato la conoscenza storiografica in una lezione civica sul significato e il valore delle libertà democratiche. Ci hanno provato i presidenti della Repubblica, ma i partiti politici li hanno seguiti solo con la retorica".

Resta il fatto che oggi molti italiani non hanno alcun turbamento davanti ai simboli littori e alla fiamma del neofascismo, che pure evocano morte e persecuzione.  "Credo che questo accada perché la Repubblica democratica ha consentito l'esistenza di un partito neofascista, presente in tutte le competizioni elettorali. L'articolo XII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione limitò solo per cinque anni "il diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista". Se Mussolini fosse sopravvissuto, nel 1953 avrebbe potuto candidarsi in Parlamento".

Ci mancava solo questo. "Ma questa è stata la grande vittoria dell'antifascismo, capace di includere nel proprio sistema democratico anche i suoi avversari più temibili. E la democrazia repubblicana, nonostante i suoi travagli, vive da settantasette anni, cinquantaquattro in più del regime fascista".

L'antifascismo oggi non viene riconosciuto come cultura politica fondativa né dalla presidente del Consiglio né dal presidente del Senato. "Anche se venisse riconosciuto, basta la professione antifascista a definire un'identità democratica? Per qualsiasi partito, questa è definita dalla politica concreta. Probabilmente Giorgia Meloni intende utilizzare tutte le possibilità del metodo democratico per governare almeno vent'anni. Ma questa è la realtà della nuova democrazia recitativa, ovunque prevalente: democratica nel metodo, ma senza l'effettiva partecipazione di tutti i cittadini alla politica".

Non vede particolari rischi di un'involuzione democratica, come ha lamentato una personalità misurata come Romano Prodi? "Il rischio può esserci. Ma l'involuzione è cominciata almeno da trent'anni, quando un partito personale che non era democratico al suo interno ha egemonizzato la scena pubblica. Bisogna però constatare che la democrazia naviga in cattive acque ovunque in Europa e nel mondo. Sopravvive il metodo - tutti riconoscono la competizione elettorale per scegliere i governanti - ma non serve più a realizzare l'ideale democratico, cioè governare per emancipare il maggior numero di esseri umani. L'ideale democratico si sta esaurendo un po' dappertutto".

Per chiudere con le alterne fortune della parola "totalitarismo", c'è anche chi ha voluto cancellarne il lemma dal lessico scientifico. "Nel 1968 il collaboratore di un'autorevole Enciclopedia internazionale di scienze sociali propose di abolirne la voce. Così avvenne. Nello stesso anno uno storico inglese propose di eliminare il termine "fascismo" dalla storiografia. Non è mai accaduto che qualcuno abbia chiesto la messa al bando di termini fondamentali come "dittatura", "rivoluzione", "democrazia". Il fatto che sia accaduto per "fascismo" e "totalitarismo" fa riflettere, se ancora oggi c'è chi continua a negare le parole e le realtà storiche ad esse associate. E io continuo a studiare e raccontare i fatti della storia, anche a costo di apparire fuori moda".

Nessun commento:

Posta un commento