“Il palloncino rosso”, racconto di Ennio Flaiano riportato in “Italica” alle pagine 193/197 (Nota editoriale: “Uscì il 5 giugno 1948 sul «Corriere di Milano» nella rubrica Valigia romana con il titolo “Il palloncino rosso”. Scartato da Diario notturno, a cui era inizialmente destinato, fu selezionato da Flaiano, poco prima della morte per La solitudine del satiro che apparve postumo per Rizzoli nel 1973, m uscì in volume nella raccolta Autobiografia del Blu di Prussia, pubblicata nel 1974 da Rizzoli”): I due bambini, condotti per mano dalla madre, avevano ognuno un palloncino rosso legato col filo al polso della destra. Erano soddisfatti di possedere un palloncino ciascuno e ora stavano attraversando la piazza Colonna. La sera si annunziava dolcemente, come sempre a Roma di autunno, e le mura della vecchia piazza si coloravano di rosa mentre il cielo sbiadiva in un verde così tenero che il poeta Cardarelli ne rimase incantato. Il poeta Cardarelli usciva in quel momento da un cinema della Galleria, si fermò dunque a guardare il cielo, disegnò un largo gesto nell'aria con la mano e disse allo scultore Barbieri: «Con un cielo simile si può rinviare un suicidio». Non disse di quale suicidio intendesse parlare: un suicidio generico. Barbieri scosse la testa più volte, sorridendo, e i due scomparvero tra la folla che s'incanalava nel Corso verso piazza del Popolo. Fu in quel preciso istante che uno dei bambini si lasciò sfuggire il palloncino. Gridò, ma la madre non fece in tempo ad afferrare il filo che salì davanti ai suoi occhi con la lentezza che era la più tenue delle irrisioni. Il pallone ondeggiò e prese a salire. Non c'era vento, l'aria era dolcissima: salì a perpendicolo, come una mongolfiera in una stampa del Settecento. Un vetturino disse: «To', guarda er pallone». Subito altri vetturini si volsero e stettero con gli occhi al cielo, a guardare il pallone che saliva. Il pianto del bambino cominciò subito. Un conducente di taxi, che sopraggiungeva, chiese cos'era successo. Veramente, sapeva già che poteva trattarsi solo di una sciocchezza ma pure fece la domanda, così per noia o per abitudine. Gli indicarono il punto rosso che saliva e il conducente di taxi si infilò rapidamente gli occhiali, disse: «Ah, un pallone». Sapeva che non poteva essere niente di più. Intanto una piccola folla s'era radunata sul marciapiedi accanto alla fontana e un giovane rideva. La vista di un palloncino che vola mette infatti una inspiegabile euforia nei cuori giovani. Sotto il portico della Galleria, le voci dei venditori di giornali si confusero. Due venditori s'erano fatti sul marciapiedi e guardavano il pallone, tenendo nelle mani ognuno una copia del giornale che era arrivato mezz'ora prima da Milano. I pacchi dei giornali odoravano di inchiostro e i due venditori guardavano il piccolo globo rosso che saliva. Le loro bocche tacevano, semiaperte, sformate e quasi appesantite dal quotidiano gridare. Un'auto si arrestò di colpo per non investire due passanti che si erano fermati nel mezzo della strada. L'uomo che era al volante chiese cos'era successo. «Niente» gli risposero. «Un pallone è scappato.» Anche l'uomo che era al volante volse lo sguardo al cielo. Disse: «E per un pallone, tante storie!». «Circolate» disse allora la guardia, che s'era avvicinata attratta da quella confusione. I passanti salirono sul marciapiedi, senza mai abbandonare con lo sguardo il piccolo globo che saliva. L'auto invece restò ferma perché il motore non riprendeva. Tutto ciò era avvenuto in pochi secondi, e contemporaneamente. Il pallone non era salito più di una dozzina di metri quando il vento, che spirava di sopra i tetti delle case, lo portò di colpo vicino alla Colonna. Il suo improvviso cambiamento di rotta strappò un grido festoso ed esagerato ai due venditori di giornali, che sembrarono svegliarsi di colpo. I vetturini risposero in coro e il gruppetto dei passanti fermo sul marciapiedi scoppiò a ridere. «Circolate» disse la guardia. Aveva sino ad allora resistito alla tentazione di guardare in alto, persuaso che si stesse tentando uno scherzo ai suoi danni. Ma ormai cedeva. Si volse, scosse la testa e non disse nulla. Guardava il pallone e per un attimo dimenticò di tornare al suo posto ma quell'attimo bastò. Sandro De Feo, che in quel momento aveva acquistato un giornale, affrettò il passo per vedere cosa stava succedendo nella piazza. Probabilmente una dimostrazione che la polizia tentava invano di soffocare. Arrivò all'angolo della Galleria e vide che un autobus s'era fermato e il conducente premeva con forza sul clacson per far scansare la gente; ma l'auto eh, ostruiva il passaggio non poteva né proseguire né tornare indietro e l'uomo al volante imprecava, rosso in volto. Quando il conducente dell'autobus vide il pallone e capì, maledisse la folla. «Non hanno niente da fare!» urlò volgendosi all'uomo che staccava i biglietti. Costui non rispose nemmeno. Era pallido stanco, con la barba di due giorni e staccava i biglietti senza guardare in faccia i passeggeri. Del pallone non gli importava nulla, non l'aveva visto. In una sala del Circolo Bernini, due vecchi nobili stavano conversando vicino ad una finestra, seduti nelle loro poltrone «L'errore di Mussolini» diceva il conte D., «è stato quello di essersi messo contro i circoli. I circoli doveva lasciarli perdere.» Il barone N. annuiva col capo lentamente. «Non sapeva che in Italia i circoli vogliono dire prima di tutto il denaro, poi la tradizione, le glorie, no?, i carabinieri e l'esercito, l'aristocrazia, insomma tutto quanto c'è di vero e di solido.» «Giusto» rispose il suo amico. E poi aggiunse: «Vede, caro conte, quando io stavo in Inghilterra... Insomma, la differenza tra l'Italia e l'Inghilterra è questa: in Italia se lei cavando il fazzoletto di tasca per soffiarsi il naso perde dieci lire, be', ha perso dieci lire. In Inghilterra, lei, cavando il fazzoletto di tasca per soffiarsi il naso, non può perdere meno di uno scellino. Mi sono spiegato?». Il conte non rispose; dalla piazza stava giungendo un gridare improvviso. Si alzò, guardò oltre i vetri e quando si volse al suo interlocutore, disse: «Non è niente, è un pallone». «E uno scellino quanto fa? Uno scellino fa ottanta lire. Lei capisce la differenza» concluse il barone. Poi si alzò anche lui e restò alla finestra, gli occhi fissi al piccolo globo rosso che intanto aveva raggiunto il poggiolo della Colonna e, spinto dal vento, s'era fermato contro le sbarre di ferro della balaustra. Ondeggiava calmo, pronto a riprendere il volo appena si fosse disincagliato. La statua di bronzo di San Paolo, sul piedistallo terminale, si disegnava bruna nel cielo sempre più verde. I conducenti di taxi e i vetturini ridevano e cominciavano a darsi colpi nella schiena e scapaccioni, per scherzare. «Scommettiamo che non si stacca» disse un conducente. Un altro accettò. Scommetteva una sigaretta. Tutti e due stettero a guardare, diventati improvvisamente i veri proprietari del palloncino, convinti ognuno che il palloncino non avrebbe potuto tradirli. Sulle prime, i redattori del «Tempo» ch'erano usciti dalle loro stanze sulla loggia di Palazzo Wedekind non capirono cos'era successo, e perché giù nella piazza tutti guardavano la Colonna. Purtroppo, la stessa colonna impediva loro di vedere il pallone. «È qualcuno che si vuole ammazzare» disse un cronista, e di corsa raggiunse le scale. «Ora non mi meraviglierei» diceva intanto Sandro De Feo al filosofo Panfilo Gentile, mentre passeggiavano sotto la Galleria, «ora non mi meraviglierei che qualcuno vedesse la statua di San Paolo muovere la testa.» Panfilo Gentile rise cordialmente, ma poi disse: «Non è importante che le statue muovano la testa. È importante che la gente veda che la muovano. Il miracolo è in chi osserva». E così dicendo si chinò ad aggiustare la museruola alla sua cagnetta. Il pallone ondeggiava sempre più lentamente, ma la folla non s'era ancora distratta da quello spettacolo. Vicino alla fontana, anche il bambino s'era calmato e guardava. La mamma gli aveva promesso un altro pallone, benché oggi un pallone costi cento lire. Una volta, nei negozi, li regalavano. «Cos'è successo?» chiese Saragat a Tremelloni, che in quel momento entrava nella sede del partito socialista dei lavoratori, su all'ultimo piano di Palazzo Wedekind. «Sciocchezze» rispose Tremelloni. «Stanno tutti a bocca aperta a guardare un pallone, un palloncino colorato.» Saragat ebbe un gesto di noia e fissò lo sguardo miope nel soffitto. Forse ricordava che una volta da giovane aveva scritto e pubblicato dei versi. Infine disse: «Se il pallone parlasse, lo applaudirebbero» Tutti e due andarono alla finestra e restarono a guardare il panorama. La piazza brulicava di gente. Oltre le terrazze e i tetti, sulla torretta del Quirinale, la grande bandiera tricolore stava calando lungo l'asta, a brevi scatti. Il chiasso del traffico impedì a Saragat e a Tremelloni di udire il segnale dell'attenti che il vento portava dal cortile del Palazzo. Nemmeno il conte Sforza udì il segnale della tromba. «M piace questa gente che sta ferma a guardare un pallone» disse il giovane segretario Calef. Stavano tutti e due nel vano della finestra, al primo piano di Palazzo Chigi e guardavano la piazza «Sì, eccellenza» disse Calef. Sforza continuò: «È segno che la gente è ancora curiosa, che sa distrarsi e divertirsi con poco. È un segno di saggezza». Calef annuì e aggiunse: «E che altre facce hanno le persone quando non stanno ferme a guardare un oratore». Ma il conte Sforza non rispose, guardava il palloncino che ondeggiava, adesso più forte, e sembrava sul punto d liberarsi: «Ecco, ora si stacca!» esclamò. Un gridare confuso dalla piazza - erano i vetturini- confermò che il pallone s'era staccato e riprendeva il suo volo. Ora il vento lo spingeva verse Montecitorio: passò davanti alle finestre dell'appartamento del Presidente. Gronchi era al suo tavolo e alzò gli occhi proprio mentre il pallone passava. «To'» disse, «un pallone» Ma rimase al tavolo. Il pallone superò le ultime finestre e scomparve oltre il tetto. Il conducente del taxi che aveva vinto la scommessa rimise gli occhiali nel taschino e accese la sigaretta. Fu lui a raccontarmi cos'era successo e perché il traffico s'era fermato.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 22 luglio 2023
Memoriae. 65 Giacomo Papi: «La Seconda guerra mondiale era finita come la Prima, con la paura dei comunisti».
Ha scritto Giacomo Papi alle pagine 190/192 di “Italica”: (…). La Seconda guerra mondiale
era finita come la Prima, con la paura dei comunisti. Le Brigate Garibaldi e
Matteotti avevano ridato forza alla speranza nella rivoluzione. Nelle fabbriche
gli operai pretendevano di prendere parte alle decisioni, nelle campagne i
contadini occupavano le terre incolte. Rispetto al 1938 i consumi erano
crollati del 40 per cento, c'era rabbia e fame. Nel gennaio 1946, su pressione
degli industriali, fu sospeso il blocco dei licenziamenti e 240 mila operai, il
13 per cento degli occupati delle industrie del Nord, si ritrovarono senza
lavoro. Intanto, i partiti che avevano combattuto la Resistenza dovevano ridare
una forma allo Stato, in una società che cambiava. Il 2 e 3 giugno 1946, per la
prima volta, votarono tutti, anche le donne. A porre la questione era stato il
PCI, ma la DC era stata subito d'accordo perché il papa si era espresso a
favore e perché a riempire le chiese erano soprattutto le donne. Per questo
liberali, azionisti e repubblicani votarono contro. Il 30 gennaio 1945, ancor
prima che la guerra finisse, «Umberto di Savoia, Principe di Piemonte,
Luogotenente Generale del Regno» emanò il decreto legislativo luogotenenziale
n. 23 che conferiva il diritto di voto alle italiane con più di ventun anni. Le
uniche a cui fu negato furono le donne schedate che esercitavano «il meretricio
fuori dei locali autorizzati». Per non lasciare segni sulla scheda e
invalidarla, il «Corriere della Sera» consigliò di andare a votare senza
rossetto. Votò 1'89,1 per cento delle donne, appena più dei maschi (ma le donne
erano 12.998.131, i maschi 11.949.056). Vinse la repubblica con 12.718.641
voti, il 54,27 per cento, contro i 10.718.502 che andarono alla monarchia (ma
tra Nord repubblicano e Sud monarchico le percentuali nano ribaltate). Si votò
anche per l'Assemblea costituente. Il Partito socialista di unità proletaria
(4.758.129) e Partito comunista d'Italia (4.356.686) si presentarono divisi e
la Democrazia cristiana vinse con 8.101.004 voti (35,2 per cento). Dei 556
eletti all'Assemblea costituente 21 erano donne (9 della Dc, 9 del Pci, 2
socialiste e una donna qualunque). Cinque entrarono nella Commissione dei 75
che scrisse la Costituzione in modo che fosse «breve, semplice e chiara; tale
che tutto il popolo la possa comprendere», come prescritto dal presidente
dell'Assemblea, Meuccio Ruini del Gruppo misto. Bisognava provare a governare
insieme e mettersi alle spalle la guerra. Il 22 giugno entrò in vigore
l'amnistia voluta come segno di riconciliazione nazionale dal ministro di
Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista
d'Italia, che voleva accreditare il partito agli occhi degli Alleati. Tutti i
reati commessi fino al 18 giugno furono cancellati, circa 10 mila fascisti
uscirono dal carcere e molti furono reintegrati ai vertici delle forze armate e
dei ministeri, dei servizi segreti, delle questure, dell'amministrazione. Ci furono
rivolte e insurrezioni, soprattutto in Piemonte, ma furono sedate. Il potere
degli apparati burocratici, l'eredità più duratura e forse originale del
fascismo, sopravvisse dentro la Repubblica. Tra il 25 e il 26 marzo 1947 i
comunisti votarono anche per assorbire nell'articolo 7 della Costituzione i
Patti lateranensi firmati da Mussolini e dal Vaticano nel 1929. Nessuno si
tranquillizzò, anche perché il 12 marzo il presidente americano Harry Truman
aveva denunciato l'espansionismo sovietico. Il 20 aprile 1947 alle elezioni
regionali siciliane la DC crollò al 20,5 per cento. La presenza delle sinistre
al governo spingeva i preti, e quindi i fedeli, ad abbandonare il partito. Gli
scioperi spingevano ancora più a destra industriali e proprietari terrieri. Il
1° maggio, a Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, gli uomini del
bandito Salvatore Giuliano mitragliarono la folla di contadini arrivata per la
Festa del lavoro. Morirono in 11, di cui 5 erano ragazzi e bambini. Dodici
giorni dopo Alcide De Gasperi, segretario della DC, aprì la crisi di governo.
Il suo quarto governo ottenne la fiducia il 21 giugno grazie ai voti di
monarchici, Uomo qualunque e socialdemocratici di Giuseppe Saragat, che si era
scisso dai socialisti per dissenso sull'URSS. Nelle fabbriche e nelle campagne
ritornarono i fronti popolari. Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la
Costituzione. Alle elezioni del 18 aprile 1948 comunisti e socialisti si
presentarono uniti, ma non fu sufficiente. La DC prese il 48,5 per cento, il
Fronte popolare soltanto il 30. Per la sinistra fu una catastrofe. Per tutti
gli altri un immenso sospiro di sollievo. Il 12 maggio 1948 fu eletto
presidente della Repubblica Luigi Einaudi, liberale e monarchico. L'inflazione
tornò sotto controllo, ma la disoccupazione esplose. I soldi del Piano Marshall
cominciarono ad arrivare. Comunisti e democristiani si sarebbero sorvegliati a
vicenda, il PCI affinché la DC non andasse troppo a destra, la DC affinché il
PCI non andasse troppo sinistra. (…). Era cominciata la Guerra fredda.
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