"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 4 luglio 2023

Memoriae. 60 Antonio Scurati: «Berlusconi non è stato un grande uomo di Stato ma un trasgressore abituale delle sue leggi».

                        Sopra. Francisco Goya, "El Bobalicòn" (1815-20). 

Ha scritto Tomaso Montanari in “Gli incubi di Goya assomigliano ai nostri” – ri-pubblicato dopo un decennio, dalla “prima volta”, sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 30 di giugno 2023: Francisco Goya è un mago che possiede uno specchio incantato: uno specchio che fa il contrario di quello che di solito fanno gli specchi. Quello specchio - i suoi quadri, le sue incisioni, i suoi disegni - deforma la realtà per permetterti di comprenderla più a fondo. Questo modo di procedere rende la vita un po' difficile a chi studia le sue opere (perché la scommessa è quella di capire, più esattamente possibile, cosa avesse in mente davvero l'artista quando realizzava una sua certa opera), ma rende Goya familiare, vicino, contemporaneo a tutti noi. Prendiamo questa magnifica incisione, la quarta della serie Disparates, eseguita da un Goya alla fine della vita, ormai del tutto immerso nelle sue visioni. Un nano gigante dai capelli di asfalto inalbera un ghigno diabolico: il sorriso vorrebbe conquistare, ma svela denti da carnivoro. Si finge affabile, divertente: suona le nacchere. Il suo pubblico è una ragazza ingenua, credula, che pende dalle sue labbra come in trance, inchiodata da una creatura orribile che la afferra alle spalle. Cosa rappresenta questa immagine? È certamente una scena notturna, che parla del filo sottile che divide la paura dallo scherzo: forse ha a che fare con le figure mostruose del carnevale spagnolo. Ma, in verità, nessuno lo sa. E dunque ciascuno di noi può vederci quel che vuole: può proiettarci le sue paure, innestarlo sui suoi incubi. Certo farò inarcare il sopracciglio di tizio, caio o di un mastrociliegia qualunque, ma a me quel nano coi capelli asfaltati ricorda invincibilmente un incubo del nostro Paese: un incubo che non finisce mai, come i mostri dei film dell'orrore. E quella ragazza mi ricorda l'Italia: prigioniera dell'ignoranza, dell'egoismo, della paura. L’osceno pagliaccio danza, vuol apparire innocuo. Ma dai suoi lombi spuntano teste mostruose, che lo tradiscono. Quei mostri possono rappresentare lo scempio dell'etica pubblica e della legalità, il disprezzo della donna, l'arbitrio del denaro, l'alleanza con la mafia. Goya tutto questo l'aveva visto in sogno: ne aveva visto perfino il volto, in un incubo profetico di duecento anni fa. Noi, in quell'incubo, ci siamo sprofondati da quasi venti. Quando arriverà l'alba?

“M. tornerà ma solo in un libro”, intervista di Marco Bracconi allo scrittore Antonio Scurati pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 30 di giugno ultimo: (…). Nel 2018 lei disse (…) che aveva scritto M. per la caduta della pregiudiziale antifascista. «Se non fosse stato così non avrei potuto immaginare di raccontare il fascismo dal punto di vista dei fascisti. E ciò che è successo dopo dimostra che sì, quella pregiudiziale è stata spazzata via».

Però s’è aperto un dibattito attorno ai rischi di un ritorno del fascismo. «Temo sia una discussione fasulla. Intanto perché la parte politica che proviene dalla rielaborazione di quella storia rifiuta il confronto, mentre un vero dibattito può partire solo dall’assunzione di responsabilità e dalla colpa, dal riconoscimento che gli italiani sono stati fascisti».

È anche conseguenza del mito della Resistenza? «In parte sì. Il fascismo è stato narrato dal punto di vista delle vittime, cosa giusta e necessaria, ma è innegabile che ciò abbia intralciato un processo di “superamento del passato” come quello che c’è stato in Germania».

Siamo tutti figli del fascismo, come dice La Russa? «Lui lo dice dando alla frase un significato odioso e sbagliato, ma dice una cosa vera, da cui la Destra dovrebbe trarre le necessarie conseguenze».

I dibattiti però si fanno almeno in due. E gli antifascisti? «Mi pare che in molti abbiano un’attitudine narcisistica, che punta a quello che Foucault chiamava il “beneficio del locutore”: assumere posizioni estreme per ragioni autoreferenziali».

Il fascismo non torna, insomma. «No. Ed è argomento fuorviante. Il Duce è stato il fondatore del Fascismo ma anche l’inventore del populismo, vera cifra contemporanea. È questo che dovrebbe inquietarci. Il ritorno, mutatis mutandis, del populismo di Mussolini. La caratteristica di questi movimenti non è la violenza. Guardiamo a Trump, Orban e simili. Non discendono da una cultura politica fascista, ma quando analizziamo le loro mosse ci rendiamo conto che esse riproducono il dispositivo populista di Mussolini».

L’anima populista di Benito vive in Meloni e Trump allo stesso modo, ergo. «Sì e ovunque si rafforzi l’idea di leadership fondata sul lodo “io sono il popolo e il popolo sono io”, schiacciando su posizioni antipopolari e antinazionali chi non si identifica. Si torna a dire “o con me o contro di me”, sostituendo la speranza con la paura. Come Mussolini che dal Sol dell’Avvenire passò, appunto, alla scommessa della paura».

Oggi che nessuno vuole più espropriare i mezzi di produzione, si scommette sui migranti? «Lo schema del gioco è lo stesso. La complessità della vita moderna viene ridotta a un unico problema, quel problema a un nemico, quel nemico a straniero invasore. Anche allora i socialisti erano presentati come “stranieri” invasori, portatori della“peste asiatica” perché fautori della rivoluzione russa».

Nel processo di connessione con le masse, il corpo del leader è decisivo. «Mussolini fu il primo a mettere il corpo del leader al centro della scena politica. Il primo di tanti».

E il corpo di Meloni, sostenuto dal brand “Io sono Giorgia, io sono una madre”? «Quella è appunto la scena madre. Per quanto il suo corpo sia minuto, è assolutamente centrale e per questa via comunica con il popolo attraverso fattori emozionali che innescano processi di identificazione».

Il progressismo fatica a capire l’importanza di tutto questo. «Su questi temi l’atteggiamento di sufficienza è una stupidità. L’errore è ragionare “esteticamente”, mentre il corpo di queste leadership non vince perché “bello” o “elegante”, vince perché è centrale».

E dopo aver vinto vuole l’egemonia culturale. «Se parliamo di cultura in senso antropologico, l’egemonia dagli anni 80 ce l’ha il berlusconismo. Se intendiamo invece la cultura intellettuale, letteraria, artistica, allora la volontà di imporre “per decreto” un’egemonia è un tratto autoritario ma anche velleitario. L’egemonia matura all’interno della sfera culturale, non si conquista facendone obiettivo politico. L’arte non è priva di ideologia ma con l’ideologia si fa arte scadente».

Ci torniamo subito. Ma intanto mi dica cosa pensa dell’operazione lutto nazionale per l’addio, appunto, a Berlusconi. «Si è trattato di un provvedimento tipicamente autoritario. Il governo ha deciso di ignorare il fatto che per metà degli italiani Berlusconi non è stato un grande uomo di Stato ma un trasgressore abituale delle sue leggi. Celebrando Berlusconi con una propaganda da regime autoritario, impermeabile a ogni critica e alla realtà stessa, ha detto a milioni di italiani: voi non esistete, non meritate nessuna considerazione, nessuna rappresentanza sulla scena pubblica».

Giordano Bruno Guerri dice che nelle retrovie è pronto un esercito di intellettuali e artisti di destra. «La volpe e l’uva. Quando avverti il bisogno di fare annunci simili vuol dire che questo esercito non c’è. Non esiste al momento una generazione di intellettuali e artisti di destra riconosciuta dal pubblico e dal mondo».

Elly Schlein non parla di fascismo, concentra la sua polemica anti-autoritaria sul tema dei diritti. Fa bene? «Io penso che se una politica progressista dà centralità alla battaglia pur sacrosanta sui diritti individuali, si condanna ad essere marginale. La tutela delle minoranze è il sale della democrazia, ma se ti dimentichi delle maggioranze sei finito».

La sento pessimista assai. «Sì. Non sta arrivando il fascismo ma il degrado populista delle democrazie è destinato a durare».

Da quando c’è Meloni al governo, cosa le chiedono i giornalisti stranieri? «Vogliono sapere se gli italiani sono nostalgici del fascismo e se rimpiangono Mussolini…».

(…). Rieccoci alla querelle sull’egemonia… «Appunto. Noi che l’abbiamo realizzata siamo antifascisti, ma soprattutto siamo degli artisti. Altri da questa parte avrebbero potuto farla, ma di là? (…). Ma prima di chiudere mi faccia dire una cosa».

Prego. «Più che sulla parola fascismo mi piacerebbe che ci interrogassimo sulla parola antifascismo. Voglio dire: dobbiamo farci eredi dell’antifascismo novecentesco coinvolgendo e accogliendo sotto le bandiere della cultura compiutamente democratica anche chi è di destra. Questo è il compito che abbiamo davanti per non continuare, come spesso facciamo, a predicare ai convertiti».

Nessun commento:

Posta un commento