Dal settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 21 di luglio ultimo “La grande mutanda italiana” di Michele Serra: (…). Mutazione antropologica Per giocare a carte scoperte, vi dico subito che sono moderatamente a favore della (…) tesi: ingessare un Paese e contenerne gli istinti è come tombare un fiume. Prima o poi saltano gli argini, la natura non è contenibile: quello che è successo, dunque, era inevitabile. I due “poteri forti” uguali e contrari, la Dc e il Pci, che si sono contesi e anche divisi il Paese per quasi mezzo secolo, erano comunque destinati a non reggere l’urto di una società in tumultuoso cambiamento, nella quale la soddisfazione dei desideri individuali e l’urgenza di autoaffermazione hanno travolto qualunque ideologia e ogni spirito di comunità (Pasolini la chiamò «mutazione antropologica», forse fu semplicemente la vittoria della società dei consumi sulla società dei doveri). Essendo l’Io, non il Noi, il target di ogni ufficio marketing e agenzia pubblicitaria che si rispetti, l’Io spodestò il Noi, quasi lo eliminò dalla scena. Per questo si sono estinti Dc e Pci: non servivano più alla nuova Italia Ego-centrica, al nuovo mondo fondato sui “consigli per gli acquisti” e non più sui consigli del parroco, o del segretario di sezione. Berlusconi, padre indubbio della sedicente Seconda Repubblica, non avrebbe mai potuto essere democristiano, non tollerando alcuna compressione delle proprie ambizioni personali. Nonché dei porci comodi. La Dc non fu mai – né avrebbe potuto essere – un partito personale. Era una comunità di potenti, nella quale la ragione sociale era il collettivo – certo non il singolo leader, anche se ne ebbe di molto rilevanti, da Aldo Moro a Giulio Andreotti. Senza inibizioni. Se dovessi riassumere la Democrazia Cristiana in un’immagine, penserei dunque a una gigantesca imbracatura – di quelle che si usano per bloccare le frane e le scarpate – che regge lo Stivale dalle Alpi alla Sicilia. Metafora più volgare: uno smisurato paio di mutande, levato il quale il corpo sociale si è come sciolto, mostrando liberamente tutte le sue vergogne. L’Italia senza Dc è un’Italia smutandata. Con eleganza si chiama secolarizzazione, ma la parola non basta a descrivere il crollo delle inibizioni (comprese quelle utili) che ha sconvolto la scena sociale e politica del Paese negli ultimi trent’anni. Non era migliore, l’Italia precedente. Il tasso di ignoranza e di grettezza (si pensi solo al razzismo antimeridionale degli anni dell’industrializzazione) non era inferiore a quello odierno, moltiplicato dai social. L’analfabetismo non era “di ritorno” ma una maledizione atavica come la fame. I fascisti sempre una moltitudine – Giorgio Bocca diceva: metà degli italiani – anche se “in sonno”. Non siamo mai stati un popolo a misura dei nostri valori costituzionali, magnifico dono di una minoranza ispirata, colta e soprattutto convinta che il fascismo fosse stato un mostro immondo, la democrazia un arcangelo giustiziere che portava luce dopo le tenebre. Ma tutte queste tare, deformità, mancanze, nella Prima Repubblica rimanevano imbrigliate. Contenute. Le si notava di meno perché la Dc, che era un partito-Stato dunque una parte che giocava il ruolo dell’intero, si portava tranquillamente in pancia tutto ma proprio tutto, anche le vergogne e i segreti, anche gli scandali e il sangue, conservando sempre intatto l’aplomb ministeriale e istituzionale. Per fare l’elogio della Dc si è dunque costretti a fare l’elogio dell’ipocrisia, della faccia di bronzo, dell’impermeabilità del potere ai sentimenti e all’emotività. Ma va anche aggiunto (…) che l’ipocrisia, di questi tempi, potrebbe anche avere i suoi pregi: in parecchie circostanze può assomigliare alla buona educazione, e rimediare all’orrendo rovescio di maleducazione e arroganza che ci circonda. L’ipocrisia è un ammortizzatore di tanti urti che, in sua assenza, possono amplificare i loro effetti nocivi. Difendere l’argenteria. Forse l’elenco è la forma retorica più indovinata per descrivere ciò che fu la Dc. Con l’avvertenza che sarebbe un elenco interminabile, da qualunque parte lo si cominci già si sa che non finirà mai. Nel voto democristiano c’erano le pie donne e i sindacalisti della Cisl – spesso più oltranzisti dei comunisti della Cgil – i conservatori e i progressisti, i fascisti e i cattolici antifascisti, la Confindustria e la mafia, i contadini della Coldiretti e gli agrari, le parrocchie e la piccola borghesia laica di provincia. C’era il cattolicesimo sociale e c’erano i confindustriali che votavano Scudo crociato solo per «difendere l’argenteria» (come scriveva Fortebraccio sull’Unità), c’era Evangelisti con il suo greve traffico di favori e clientele e c’era la nobiltà solitaria di Dossetti, c’era la chiassosa volgarità del “tengo famiglia” e il silenzio claustrale dei conventi dove i capi andavano a fare esercizi spirituali, c’era il feticismo mussoliniano di Ciarrapico e il retaggio valorosamente democratico di don Sturzo e del Partito Popolare. Molto di più di un partito, era una composizione di parti apparentemente inconciliabili eppure legate a un patto politico molto preciso – tenere l’Italia bene al di qua del Muro di Berlino. Uno “scopo unico” che aiutò a semplificare, e di molto, quel guazzabuglio di interessi diversi e di culture anche contrastanti. La Dc era soprattutto un “modo”, un sistema per tenere insieme le cose in maniera che non si scollassero. Di cattolico – a parte l’interclassismo, che è naturale per ogni confessione religiosa – ebbe soprattutto il vigile paternalismo, la sfiducia negli uomini: da non lasciare mai sgovernati, sono troppo fragili e troppo peccatori, vanno guidati, vanno consigliati. Avrebbe forse potuto reggere meglio, grazie al cinismo, la secolarizzazione dell’Italia, la legalizzazione del divorzio e dell’aborto: se non poté farlo fu perché l’idea del gregge da non lasciare abbandonato a se stesso, senza i suoi pastori, per i cattolici è un riflesso inestirpabile. «Se votate a favore del divorzio vostro marito scapperà con una ballerina», disse Amintore Fanfani in quella memorabile campagna elettorale (1974), dimostrando la massima sfiducia nei mariti e una evidente sopravvalutazione del numero delle ballerine. La verità prima di tutto. L’irrigidimento democristiano sui temi civili, sonoramente sconfitto nelle urne, non fu però fatale a quella parrocchiona cui era stata affidata la tenuta atlantica dell’Italia, costasse quel che costasse. Ben altre spinte – proviamo a riassumerle in un solo concetto: bisogno di verità – squinternarono gli assetti della Prima Repubblica. Volarono tutte le carte, o quasi tutte, da tutti gli archivi, o quasi tutti (basta dire Ustica per capire che ci furono importanti eccezioni). Volarono dalle finestre dei Palazzi espugnati e finirono in mezzo alla strada, in mezzo alla folla. Se ne diede una lettura molto frettolosa e semplificata, si decise che il Palazzo era cattivo e gli italiani buoni, nacque il populismo che ancora scandisce il passo della politica italiana. Ai partiti si negò ogni potere di dissuasione o di indirizzo, si decise che ormai potevamo fare da soli. Eravamo grandicelli, non avevamo più bisogno di tutela, del parroco, dell’oratorio, della sezione di partito. Abbiamo preteso la verità su noi stessi, e in un certo senso l’abbiamo avuta. Non quella sul ruolo dello Stato (dunque della Dc) nelle stragi nere, non quella su Gladio. Ma quella su noi stessi, sì. E, tornando al gioco di cui sopra: a tratti ci prende la nostalgia di quando, chi siamo per davvero, non lo sapevamo. Non potevamo saperlo. Chi ha nostalgia per la Dc ha nostalgia dei lunghi anni nei quali qualcuno ci ha aiutato a non farci troppe domande su noi stessi. Ma è meglio farsele, no? Anche se le risposte possono essere dolorose.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 23 luglio 2023
Memoriae. 66 Michele Serra: «Non siamo mai stati un popolo a misura dei nostri valori costituzionali, magnifico dono di una minoranza ispirata, colta».
«23 di luglio dell’anno 1993:
si avviava la “fine” della DC e di un pezzo di italica Storia».
Da “Ultim’ora mettiamoci una croce sopra”,
testo di Concetto Vecchio pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica”
di venerdì 21 di luglio 2023:"Che Dio ti aiuti, Mino”. L’invocazione di
Ciriaco De Mita riecheggia nel palazzo dei congressi dell’Eur. Sono le dieci
del mattino del 26 luglio 1993 e la Democrazia cristiana sta morendo.
Cinquecento delegati. Un’afa spaventosa. I peones si fanno aria sventolando i
giornali. È il funerale alla storia d’Italia. È durata 50 anni e 129 giorni,
secondo il calcolo dello storico Gabriele De Rosa. Mino è Martinazzoli, il
segretario della Dc. Da mesi nel suo studio disadorno a piazza del Gesù 46
tiene la tv accesa sul televideo e ad ogni ultim’ora emette un grugnito.
Tangentopoli porta solo cattive notizie. Andreotti indagato per mafia.
Inquisiti Forlani, Gava, Sbardella, Scotti. Enzo Carra arrestato. Mario Segni,
la grande speranza, se n’è andato a marzo. Leoluca Orlando ha fondato la Rete.
Il politico del momento è Umberto Bossi, il boss della Lega, la cui ascesa al
Nord sembra irresistibile. Il Paese ribolle, di colpo incontrollabile alla
pedagogia scudocrociata. E la mafia piazza bombe, ai Georgofili, contro
Maurizio Costanzo. È “l’anno dei barbari”, nella definizione di un grande
cronista, Giampaolo Pansa. I sondaggi dicono che sarà Achille Occhetto, il
leader del Pds, ad ereditare i consensi in libera uscita quando si andrà a
votare. Martinazzoli è stato eletto un anno prima, nell’ottobre 1992,
succedendo ad Arnaldo Forlani, come ennesimo segno di rinnovamento. Il partito
Stato ha occupato ogni ganglio vitale. E alle politiche dell’aprile ’92 è
risultato ancora il primo partito col 29,66 per cento, ma sembrano trascorsi
secoli. Ora è il naufragio. Alle amministrative del giugno 1993 è passata da
210 a 55 seggi, persino al Sud non regge più, a Pozzuoli è piombata dal 40 al
18 per cento, a Portici dal 39 all’8 per cento. Due settimane dopo, ai
ballottaggi, su 61 sfide ne vince appena nove. I giornali titolano: “Tracollo
Dc nel Salento”. “In Sicilia la Dc perde i confronti con Rete e Pds”; “Solo un
sindaco per la Dc nel Tarantino”; “A Oderzo la Dc all’opposizione dopo 47
anni”. “La Dc perde Assisi”. Persino l’Osservatore romano usa toni
apocalittici: “È un terremoto politico. Milioni di italiani hanno detto basta”.
Anche Martinazzoli dice basta. “Rinnovare senza rinnegare”, è il suo motto. Una
frase edulcorata per dire che bisogna sciogliere il partito, come ha fatto il
Pci quattro anni prima dopo il crollo del Muro. Fissa il congresso costituente
dal 23 al 26 luglio. La Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi cambierà
nome. Possibile? Cosa ricorda oggi di quei giorni Gianbattista Groli, l’ombra
di Martinazzoli? “A piazza del Gesù ritiravo i fax che sgorgavano a ritmo
continuo. Recitavano: “Suicidatevi!” “Ladri!”, “A casa!”. Mino godeva ancora
della generale considerazione per la sua onestà, ma quando andavamo in giro,
specie al Nord, c’era anche chi gli gettava addosso le monetine e gli urlava
“Lega!”. Per sfuggire a quel clima ci rifugiavamo a casa mia in val Daone, in
Trentino. Camminava tra i boschi e fumava. Non aveva figli e mi aveva adottato.
A Roma abitava in un appartamento a palazzo Taverna, in via del Governo
Vecchio, e io dormivo lì con lui. La sera tardi bisognava sempre rimediare una
trattoria aperta, si andava da Vibo in piazza Santa Apostoli, dalla Pollarola
nell’omonima piazza. Mino ordinava una margherita e la birra. Mangiava
silenzioso, divorato dal nervosismo”. Gianbattista Groli, da Castenedolo, nel
luglio 1993 ha venticinque anni. È uno dei più intraprendenti fra i giovani dc,
gran frequentatore della sede della sinistra interna di Brescia in via Luigi
Apollonio: ogni corrente ha un suo bastione in città, e le correnti - i
dorotei, gli andreottiani, i pontieri, la sinistra, i fanfaniani, Forze nuove -
sono fiumi affluenti verso il vasto mare nel quale galleggia, eterna e
inaffondabile, la Balena bianca. Un giorno del 1987, colpito dalla sua
intraprendenza, Martinazzoli gli chiede di dargli una mano in segreteria. Non
ha la patente ed ha il terrore degli aerei. Groli allora lo scorrazza lungo lo
Stivale a bordo di una Citroen Ds 23 IE. Assurge al ruolo di autista e
confidente, entra con lui perfino nella stanza di Giulio Andreotti. Dalla Thema
alla Tipo. Il rubinetto delle dazioni e delle tangenti, che l’ipocrisia
corrente chiama “contributi”, si è improvvisamente chiuso. Il notabile deve
cambiare macchina, passa dalla Thema ministeriale alla Tipo. A piazza del Gesù
hanno deciso di vendere i quadri, il palazzo è di proprietà dell’università di
Roma, sennò alienerebbero pure quello, il partito ha prepensionato un centinaio
di dipendenti, sui pianerottoli è tutto un gran parlare di scivoli,
licenziamenti, blocco delle assunzioni. “Largo al volontariato”, è la nuova
parola d’ordine. Il nuovo segretario amministrativo, Emilio Rubbi, succeduto a
Severino Citaristi, un uomo onesto seppellito dagli avvisi di garanzia per il
ruolo ricoperto, ha annunciato che “un’epoca si è chiusa”. L’ha detto al
Popolo, l’organo di partito, che ha sede in piazza delle Cinque Lune 113 dietro
piazza Navona, i quaranta giornalisti tremano anch’essi per il loro posto di
lavoro: nessun italiano del resto ha mai incontrato un lettore con il loro
giornale sottobraccio. Il Popolo è diretto da Sergio Mattarella, 52 anni,
direttore politico, ma il giornale lo fa materialmente Pio Cerocchi, direttore
responsabile. Ogni sera, per chiudere l’edizione, scende in tipografia passando
tra i ruderi dell’antico stadio Diocelaziano. “Ogni volta – racconta -
bisognava stare attenti a non piombare nel vuoto”. Il baratro che si spalanca:
perfetta istantanea. Cosa ricorda di quel congresso? “Quasi nulla nel
dettaglio”, ammette. “Però trovavo sbagliato sospendere un dirigente per un
avviso di garanzia. Cambiare nome è stato un errore, perché fatto sotto
schiaffo”. E com’era stare nella Dc? “Un mondo selettivo, malfidato, durissimo,
l’ubbidienza contava più della militanza. Se andavi in un posto non bastava
dire che eri della Dc, dovevi dire di chi eri amico. Tutto era vincolato alle
correnti”. Anche Cerocchi rappresenta una corrente, quella della sinistra
interna. “Quando i capi mi convocavano a piazza del Gesù mi allarmavo. De Mita
non faceva certo l’amicone, Martinazzoli aveva un caratteraccio, Donat Cattin
incuteva un gran timore. Mio padre, morto nel 1970, era amico di Aldo Moro, e
così da ragazzo iniziai a collaborare al Popolo, ma quando mi proposero
l’assunzione l’allora segretario Amintore Fanfani si oppose. Non ero dei suoi. Moro
la prese come uno sgarbo, scrisse una lettera di credenziali per Avvenire,
un’altra la scrisse Vittorio Bachelet, e così venni assunto al giornale dei vescovi
a Milano grazie a due statisti poi uccisi dalle Brigate Rosse. Anni dopo il
padre di David Sassoli, Domenico, mi chiamò alla Discussione. Col nuovo corso
di Martinazzoli, Sergio Mattarella mi volle con sé: direttore del Popolo. Avevo
47 anni”. L’avvocato Martinazzoli aveva detto che avrebbe lasciato la politica
a 60 anni, invece a 61 è diventato segretario. Nodoso, solitario, colto, ama
Manzoni e le poesie di Mario Luzi. Viene da Orzinuovi, Bassa Bresciana, terra
di contadini svegli e nebbie fitte, compaesano del calciatore Cesare Prandelli.
È stato un rispettato ministro della giustizia. Ma soprattutto è una categoria
dello spirito, si dice tra i notabili. La sua ruvidezza mette soggezione. È ossessionato
dall’estetica del discorso, infatti parla per parabole e citazioni, ma quando
gli girano non le manda a dire: “Non mi rompere il cavolo!”, è sbottato una
volta contro Maria Elettra Martini. Di sé dice: “Ho un’irresistibile tendenza
al fallimento”. Il sociologo Franco Ferrarotti l’ha dipinto così: “Non conosco
Martinazzoli, ma ne apprezzo il pessimismo non escatologico”. I politici hanno
iniziato a dotarsi di un telefonino, pesanti aggeggi che pesano due chili,
Martinazzoli il suo lo tiene spento. Ha definito la Dc così: “Siamo un partito
che passa le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le
encicliche”. Propone di tornare al Partito Popolare di Luigi Sturzo. Martinazzoli
sogna un partito senza più sezioni, né congressi di corrente, candidature
selezionate con le primarie, pensionati i capi storici, la direzione composta
dai segretari regionali e dai rappresentanti dei gruppi parlamentari e da
alcune eminenti personalità, gli intellettuali esterni, contro cui la pancia
della Balena bianca presto si ribella. È un complesso mondo diviso in tre
tronconi, grosso modo. Ci sono i martinazzoliani, che annoverano Castagnetti, Marini,
Andreatta, Mancino, Buttiglione, Mattarella. L’ala sinistra è rappresentata
Rosy Bindi, l’astro nascente. Ha 42 anni. Governa la Dc veneta, dove ha messo
alla porta gli inquisiti, tra cui il potente capo doroteo Carlo Bernini,
avviando anzitempo la costituente per cambiare nome, una mossa giudicata
illegale dai vecchi ras. E poi ci sono i centristi, i grandi avversari della
Bindi, (“vuol fare un partito dell’otto per cento!”), che annoverano vecchie
volpi come Casini, Giovanardi, Mastella, Sandro Fontana, D’Onofrio, Gargani,
Tabacci. Cosa li ha tenuti insieme finora? Marco Follini ha 39 anni nel 1993. È
consigliere in Rai, momentaneamente fuori dal partito, dopo avere guidato il
movimento giovanile negli anni Settanta, al tempo di Moro. Ha il passo dello
scrittore. Martinazzoli gli chiede perciò di scrivere il discorso con cui
annuncerà la fine della Dc. “Mi disse: non posso offrirti niente, ma ti chiedo
di darmi una mano. Mino aveva capito che la nostra storia era arrivata al
capolinea”. Follini si mette al lavoro. E dopo qualche giorno gli consegna
trenta cartelle. Bandiere e ultrà. I congressi dc sono difficili da immaginare
oggi. Era l’Italia profonda che si dava convegno nel catino di un palasport,
gli spalti divisi per correnti sventolanti bandiere, claque, tifoserie, ultrà.
La torcida più rumorosa è quella irpina di De Mita, le truppe mastellate che
Clemente Mastella stipa in decine e decine di torpedoni da ogni contrada del
Sud. Ma stavolta il congresso fatica incredibilmente a guadagnare le prime
pagine dei giornali. Sono i giorni più drammatici di Mani Pulite. Il 20 luglio,
infilandosi un sacchetto di plastica in testa, si uccide in carcere a San
Vittore il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Tre giorni dopo, alle 8 del
mattino del 23 luglio, appena sette ore prima del fatidico discorso di Martinazzoli,
si toglie la vita l’imprenditore Raul Gardini, sparandosi un colpo alla tempia.
Lo stavano per arrestare per i fondi neri Montedison. Quando Martinazzoli, alle
cinque del pomeriggio inizia a leggere le sue 33 cartelle, gli italiani insomma
parlano d’altro. “Sangue sul regime”, titolerà Repubblica. E di taglio basso,
appena un titoletto: “Addio Dc, rinasce il Partito popolare”. Follini, per un
problema familiare non ha potuto raggiungere l’Eur. Segue la relazione di
Martinazzoli da Radio Radicale. Quando sente che si rivolge “ai democristiani
umili e ardimentosi” scopre che il suo intervento è stato capovolto. “Aveva
tenuto il ragionamento, ma cambiato le parole”. È un congresso pieno di
angoscia, il fotografo che per 15mila lire l’una fa la foto-ricordo ai
partecipanti ne vende pochissime. I rimborsi di ogni natura ai partecipanti
sono aboliti, non è stato pagato il biglietto per arrivare a Roma, e nemmeno
l’albergo. È stato diramato un elenco di hotel a tre stelle, convenzionati. Il
ministro dell’Interno Nicola Mancino e la presidente Rosa Russo Jervolino
all’ingresso versano un milione ciascuno per l’autofinanziamento del Partito
popolare. Monsignor Ruppi, vescovo di Lecce, ha scritto una preghiera per il
partito morente. Il mite Mattarella attacca i centristi: “Si illudono di
ereditare le macerie del pentapartito”. Casini, Mastella, Gargani, Fumagalli
Carulli, Sandro Fontana in una velenosa nota gli danno del “Gattopardo manicheo,
inquisitorio e arrogante”. “È una cosa così bassa che non merita risposta”,
replica Mattarella. “Tutti i parlamentari non devono più essere candidati alle
prossime politiche”, mette le mani avanti Mastella, temendo epurazioni
selettive. Le liti su come collocarsi divampano. Martinazzoli col fido Groli è
andato in Germania per convincere Helmut Kohl a presenziare all’Eur. E il
grande Kohl ha accettato. In prima fila sono seduti Andreatta, De Mita,
Fanfani. In sala ci sono Pippo Baudo, Gianni Letta, Elisabetta Gardini, un
tempo c’era la fila di starlette, vip, parastato e bellimbusti. Pierluigi
Castagnetti, il capo della segreteria di Martinazzoli, è ripreso teso accanto a
un giovanissimo Enrico Letta. “Facciano una bocciofila e poi spariscano: in un
altro Paese sarebbero stati messi al muro”, ghigna Bossi. Dopo tre giorni viene
messa ai voti la rifondazione proposta da Martinazzoli. Magicamente votano
tutti a favore, salvo uno, Ermanno Gorrieri, che poi fonderà i Cristiano
sociali. La Balena Bianca affonda tra le note della Rapsodia europea. “Io ci
credevo ancora”, dice oggi Pio Cerocchi, che ha scritto un libro su Mattarella.
“Siamo stati arrendevoli, avrei combattuto di più”. “La fine era inevitabile,
ma è stato la caduta del Muro, non Tangentopoli a farci precipitare”, riflette
Groli, che poi ha fatto il sindaco di Castenedolo, e oggi è renziano. “Sul
rinnovamento Mino aveva ragione, sul cambio del nome torto”, è la tesi di
Follini. Cosa è rimasto, trent’anni
dopo? La parola democristiano non è scomparsa dal vocabolario politico,
talvolta con accezione positiva. La Dc è volta nel mito, con venature di
nostalgismo: “Ah, quando c’erano loro!”. Il rimpianto per la Prima Repubblica
affiora spesso, come un mondo nel quale ogni cosa era ancora al suo posto. E i
dc? Sergio Mattarella è il nostro presidente della Repubblica, Casini e Tabacci
sono ancora in Parlamento, Mastella è sindaco di Benevento, Bindi, Castagnetti,
Pomicino animano il dibattito pubblico. Fitto e Crosetto sono diventati
ministri di Giorgia Meloni. Gianni Letta è il misterioso Richelieu del piccolo
mondo romano. Suo nipote Enrico è stato premier e poi segretario del Pd. La Dc
è morta quel giorno, ma i democristiani lottano insieme a noi.
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