Ma non tocca alla letteratura colmare questa sfasatura? «Gli scrittori non sono certo estranei a questo fenomeno, perché fa parte della vita, non della sua rappresentazione. Si avvicinano alla realtà e poi si allontanano, devono viverla e intanto metterla a fuoco. Non abbiamo ancora il libro che spieghi ciò che è accaduto negli anni Novanta: ma abbiamo tempi sconnessi, scrittori smarriti: e tutta questa crudeltà impossibile da capire».
Lei ha tre patrie, l'Ucraina dov'è nata come sua madre, la Bielorussia dov'è nato suo padre e dove è cresciuta, la Russia che è la sua cultura e la lingua in cui scrive. Cosa le dicono oggi le "voci" che ascolta nel disastro della guerra? A che punto siamo? «Quello che stiamo vivendo in Ucraina è un conflitto antico almeno di cento anni, e andrà avanti per decenni. Tuttavia la guerra guerreggiata ha cambiato molte cose nel profondo. Io incontro le donne che sono venute in Germania fuggendo dall'Ucraina, parlo con loro, le ascolto. Avverto il loro nuovo odio, cerco di capirne le ragioni, faccio domande, e cominciano dolorosamente a raccontare: quando ti distruggono la casa in cui abiti, quando tua madre vecchia non può vivere senza tetto ma non può nemmeno scappare, quando hai un bambino ma non hai nulla da dargli da mangiare, allora sì, finisci per odiare. Ma la crudeltà e l'aggressività del popolo russo, no, non riesco a comprendile. Da cosa nasce l'odio degli invasori? (…). Un nuovo odio attraversa l'anima russa e l'avvelena. Difficile da capire, difficile da raccontare».
Perché? «Quando hai toccato con mano questo sopravvento dell'odio è molto complicato mettersi a tavolino, scrivere qualcosa e soprattutto credere che la parola possa ancora contare. Pensi piuttosto il contrario: come siamo lontani dall'epoca dei volti luminosi degli anni '90, quando eravamo forti perché ci sentivamo uniti, credevamo nel cambiamento e persino la felicità sembrava possibile. Una domanda ci tormenta: com'è avvenuto? Quando si sono alzate queste forze oscure?»,
Sta dicendo che rinuncia a scrivere? «No, dico che tutto è tormentato. Io sto scrivendo un libro, ma è molto difficile andare avanti. In tutte le mie opere ho parlato in pratica sempre dei tempi feroci in cui finisce un impero. Questa volta avevo deciso di cambiare, di lasciare spazio ai sentimenti, di parlare di amore e di amicizia, della vecchiaia, della bellezza. E invece partendo dalla rivoluzione bielorussa precipito sull'Ucraina ed ecco, sto di nuovo studiando il Male. (…)».
Che cosa intende? «Stalin, per esempio. Sono rimasta sconvolta di quanto fosse presente Stalin nella nostra memoria genetica, e mi ha colpito quanto le persone erano convinte di aver bisogno di Stalin per fare una vita normale. Sono esattamente queste aspettative delle piccole persone che hanno fatto di Putin un piccolo Stalin. Perché le persone in fondo sono ciò che fa di loro la storia Soltanto grazie a Gorbaciov c'è stata una vera e propria esplosione, che però ha coinvolto solo una piccola parte delle persone, nelle città. L'immensa provincia russa è rimasta tale e quale. Si tratta di un Putin collettivo, o di una piccola parte di Putin che è insediata dentro ogni uomo comune in Russia».
Questo può spiegare li consenso russo per Putin? «Quando tornavo dai miei viaggi raccontavo agli amici moscoviti quanto mi spaventava questa mentalità. Ti stai sbagliando, mi rispondevano, ormai i cambiamenti sono irreversibili e andranno avanti. Cos'è successo? Abbiamo assistito sbalorditi alla velocità con cui hanno chiuso centinaia di siti e giornali: e molti attivisti sono stati costretti ad abbandonare la patria, a scappare. Se guardiamo a ritroso, è un ritorno al Medioevo. Rimango traumatizzata soprattutto dall'impotenza della nostra élite. Il popolo non ci sente: ma loro, che fanno? Possibile che non abbiano niente da dire, e che parlino solo figure come il filosofo Dughin?»
La critica radicale di Dughin ai valori liberali dell'Occidente ha ispirato Putin? «Sì, e per me è incomprensibile che persone intelligenti ascoltino sciocchezze sull'Occidente popolato da soli gay o lesbiche, e ne parlino seriamente. Ogni mattina quando apro il computer vedo che la caduta nel precipizio continua».
A suo giudizio «il vero capitale della Russia non è il petrolio, non è il gas: è il dolore, l'unica cosa che produciamo costantemente». Ma perché tanto dolore - lei si domanda - non si converte in libertà? Ha trovato una risposta? «No. Perché la nostra sofferenza in Russia non si trasforma mai in qualcosa di qualità? Non lo so, ma vedo che da noi la liberazione può avvenire solo dall'alto, come è successo con Gorbaciov. La Russia è diventata un Paese militare, in ogni angolo si vedono questi manifesti di guerra: noi vinceremo. Non è più il Paese che amavamo. Mi colpiscono soprattutto i negozi per bambini dove si vendono le tutine mimetiche, le coperte per neonati con i simboli militari. Poi i bambini crescono e vanno a scuola, dove si insegna non come costruire un futuro migliore, ma come "morire per la patria"».
La letteratura russa si è divisa sul concetto di dolore: per Solzenicyn la sofferenza degli anni sovietici rende l'uomo migliore, mentre per Shalamov il campo di concentramento lo fa degenerare. Chi ha ragione? «Quella famosa discussione... Shalamov diceva che il campo di concentramento fa degenerare anche l'aguzzino, non solo la vittima, Solzenicyn aveva una visione mistica della sofferenza, con Dostoevskij sosteneva che il dolore ci purifica. Io non posso credere che una persona sia nata per morire davanti al reattore di Chernobyl o nella fossa comune di Bucha, certo il progetto divino era diverso, puntava sul valore della vita umana Un valore smarrito, persino per la Chiesa».
Perché la Chiesa ortodossa è diventata una struttura di propaganda? «In passato a Mosca ho assistito a celebrazioni per santificare le armi atomiche russe, poi ho visto in una stazione i familiari che salutavano i volontari in partenza per la guerra contro Kiev con un sacerdote che li benediva Il risultato è che oggi molte persone si allontanano, non credono più in questa Chiesa».
«Contro il male bisogna essere vaccinati, e noi siamo cresciuti tra carnefici e vittime». Perché allora il popolo russo non riesce a distinguere tra l'aggredito e l'aggressore? «Vivo in Germania, e ho imparato qui che non è mai semplice liberarsi. Dopo la fine del fascismo o del comunismo la società resta malata, non è in grado di emanciparsi da sola. Succede la stessa cosa quando una persona esce dal campo di concentramento, è liberata ma non è immediatamente libera».
Lei ricorda che Dostoevskij spiega come l'umanità sappia di sé molto più di quanto riesce a esprimere nei libri: è un atto di sfiducia nella letteratura? «Affatto, significa che la vita è stupefacente. Tolstoj diceva che è vergognoso scrivere inventando la vita, bisogna raccontare ciò che avviene veramente. Questo si traduce in uno sbalordimento della vita, perché è davvero infinita».
La guerra in Ucraina, lei racconta, le ha fatto scoprire come la cultura sia in realtà soltanto una buccia di mela sopra il caos incandescente, secondo Nietzsche. Vede oggi riemergere gli "spettri del caos" di Andrej Belyj? «Sì. Oggi il mondo intero fissa le sue rovine, abbiamo bisogno di nuovi concetti per ridefinire gli avvenimenti. Osservi i carri armati che vanno verso i villaggi ucraini, a migliaia: vedrà due realtà parallele, da una parte una dimensione del futuro, dall'altra quella del Medioevo. Coesistono. Di fronte a questa sovrapposizione lo scrittore non può più limitarsi a documentare la realtà, deve creare una nuova interpretazione del mondo, cercare nuovi significati. Altrimenti c'è solo l'ipnosi del caos».
Lei lancia un allarme sulla percezione della realtà: oggi non c'è più un confine tra fatto e finzione, che trapassano l'uno nell'altra. Ma allora, che ne è della verità? «Ognuno di noi oggi ha bisogno di molto coraggio per conservare più o meno intatto se stesso, per mantenere uno sguardo puro e autentico verso la realtà. Sa chi è il personaggio principale di questa tragedia? Il maestro, un semplice maestro di scuola. Se dice la verità sulla guerra va in carcere. Se non la dice, tradisce la sua missione».
Secondo lei l'occasione della libertà per la Russia è arrivata negli anni '90, ed è andata perduta perché davanti alla scelta tra un Paese più forte o un Paese più degno i Russi hanno scelto la forza. Perché resiste questo culto atavico? «Tutta la cultura russa si bassa sulla glorificazione della forza. I soldati sono sempre stati i nostri eroi più popolari, il culto di Marte vive nella cultura russa da secoli. Sarà molto difficile sottrarre il giocattolo della guerra agli uomini, perché la guerra è anche una cosa maschile: maschi, e vecchi. Metta insieme Putin, Lukashenko e Zelensky e vedrà subito che noi stiamo combattendo il passato».
Il sentimento popolare russo si sta allontanando dall'Europa? Ma Russia e Europa possono fare a meno l'una dell'altra? «No. Questo allontanamento tragico durerà ancora, poi ci sarà una caduta molto dolorosa e infine la Russia tornerà indietro, nell'Europa».
A suo parere il comunismo non è morto, perché il cadavere ancora si muove. Ma Putin è un anticomunista, i suoi filosofi di riferimento sono ultra-conservatori: la Russia è già diventata essa stessa l'ultima ideologia? «Il punto è proprio questo. "Basta schiacciarci il muso contro il tavolo - ripete la gente - noi siamo la Grande Russia". E Putin cavalca la stessa idea messianica: è la nostra tragedia».
Ma il suo consenso può resistere? Vede segni di logoramento del potere di Putin? «Per ora no. Ha seminato una grande paura nell'élite, la terrorizza con pene mostruose. Così assistiamo a una battaglia di singoli contro il sistema, Navalny, Kara-Murza, Yashin, le poche persone che si sono ribellate al sistema e non sono rimaste in cucina a criticarlo. Il popolo tace».
Non pesano sull'opinione pubblica russa i morti in guerra? «La Russia è grande, non si vede l'insieme del fenomeno, anche se visitando i piccoli paesi ho visto spuntare nuovi cimiteri, con tumuli freschi. Ai funerali di Stato, poi, le madri piangono ma non parlano, perché perderebbero il sussidio per la vittima».
Il Male, lei scrive, «c'era sempre, non ci perdeva di vista, appestava l'aria stessa che respiravamo»: come può la Russia liberarsi da questa dannazione? «Oggi il Male ha talmente tante facce che è difficile definirlo. Ma non è invincibile, e la democrazia può essere un antidoto. È necessario cercare la luce, uscire dal buio».
Ma Dostoevskij ci avverte: «Perché diavolo abbiamo bisogno di discernere il bene dal male se ci costa così caro?». Non crede che qui risieda invece la libertà dell'uomo? «Sì. Ma prima ancora la possibilità di rimanere umani, di conservare una coscienza».
Lei però sostiene che il Male «non è mai chimicamente puro»: vuol dire che anche nel Male si conserva un residuo di luce? Ricordiamoci che Mikhail Bulgakov ha scritto sulla prima pagina de "Il maestro e Margherita" queste parole del Faust: «Io sono una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene». Dunque anche nel buio la letteratura troverà la speranza? «Il Male oggi è nell'aria, sembra un assedio. Ma la cosa grandiosa è che ognuno può sfidarlo. La partita è aperta: tocca a noi».
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