“Maguardacosacitocca”. A guardare bene
bene i protagonisti del teatrino dell’avanspettacolo viene proprio da commiserarci
con la sempiterna esclamazione: “maguardacosacitocca”. Come se tutto fosse
ascrivibile ad un dio molesto e bizzarro. Ha scritto Stefania Rossini in “Nostalgia” pubblicato sul settimanale “L’Espresso”
del 4 di dicembre dell’anno 2022: Un sentimento potente si va insinuando nella
confusione di una scena pubblica affollata di idee deboli e proposte incerte:
la nostalgia. È un sentimento che ha tante facce: nostalgia di casa per i
milioni di persone che hanno lasciato la loro terra in cerca di una vita
migliore; nostalgia di sicurezza per coloro che proprio da questi si sentono
minacciati; nostalgia di un progresso economico che si immaginava garantito a
tutti, ma anche, e forse soprattutto, nostalgia di una politica in cui credere
e riconoscersi. Si sente crescere la fatica di vivere e si pensa che tornare
indietro sarebbe il modo migliore per andare avanti. Vengono rimpianti, così,
uomini e idee di tempi conclusi: (…), con l'utile dimenticanza di scandali e
ombre per non compromettere apologie tardive. E si guardano i nuovi politici
con la diffidenza che in verità si meritano, soprattutto quelli che, a lungo
nostalgici di un'epoca tragica, cercano oggi di mostrarsi liberi
dall'imprinting del fascismo. Esercizio inutile, perché la nostalgia ai nostri
giorni è un impulso scomposto che invade la comunicazione, inondando la Rete di
parole pronunciate nel passato o anche strumento di personaggi come Trump che
l'hanno sfruttata per vendere un passato mai esistito. (…). Tra il passato
idealizzato e il futuro minaccioso manca, però, un protagonista centrale: il
presente. Non piace a nessuno perché ha annientato il vecchio e l'ha sostituito
con il peggio. Anche se forse è proprio quella del presente la nostalgia più
dolorosa. Di seguito, «L’ex citrullo in braghe
verdi ora si è tatuato la “piccola secessione”» di
Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di gennaio 2023: Nato
citrullo di Padania, Roberto Calderoli s’è fatto col tempo statista. Portento
paragonabile a quello dell’Evoluzione che ha trasformato il pitecantropo di
Giava che governava il fuoco, nel ragioniere con la Panda che oggi vive lungo
le pianure del Raccordo Anulare. Per farlo, la Natura ha impiegato mezzo
milione di anni. Nel caso di Calderoli ne sono bastati 30 di legislature, tre
ministeri, due matrimoni, il primo di rito celtico con il braciere, il sidro e
Marco Formentini, all’epoca druido di Milano. Il secondo con una principessa
degli spumanti, dinastia Gancia, con la sola scenografia di quattro cani lupo
fuori dalla trattoria stellata di Cherasco, dove arrostivano il pesce e le
rispettive promesse sentimentali. Ai tempi del Dio Po, l’antico Calderoli
credeva per davvero alla Sacra Ampolla e al suo sacerdote in canottiera, il
Bossi Umberto da Gemonio. Oggi che si è emancipato in tutto, tranne che nel
vestire braghe e cravatte verdi, discetta di valori costituzionali e di statuti
delle Regioni italiane alle quali – con la proposta della Riforma delle
autonomie differenziate – vorrebbe imprimere il tatuaggio della piccola
secessione, dopo avere abbandonato quella grande, suddividendo in parti
diseguali il bottino fiscale raccolto ogni anno da Roma ladrona, un migliaio di
miliardi di euro all’ingrosso. Da consegnare alle singole Regioni secondo la
loro spesa storica. Il che vorrebbe dire consolidare i privilegi delle più
ricche a scapito delle più povere con perequazioni ancora da studiare. L’importante
è farla in fretta, visto che i governatori di Veneto e Lombardia scalpitano
insieme con il loro cospicuo elettorato legaiolo. Indizio di un interesse non
del tutto compatibile con il dovere costituzionale dell’unità e
dell’uguaglianza dei cittadini, ma chi se ne importa: il vero scalpo di guerra
preteso dalla Lega declinante di Matteo Salvini è proprio la diseguaglianza del
Nord dai pelandroni del Sud, perennemente assistiti. Avventurosa è stata la sua
evoluzione. Calderoli nasce nel mese (del pesce) d’aprile, anno 1956 a Bergamo,
provincia di Bergamo, primo slogan: “Bergamo nazione, tutto il resto
Meridione”. Nasce predestinato a un’altra storia professionale: figlio, nipote
e fratello di odontotecnici e dentisti. Si appassiona anche lui ai molari
cariati dalla masticazione. E mentre sfascia automobili nei rally d’Appennino,
nel 1982 si laurea chirurgo maxillofacciale. L’incontro fatale con Bossi – “un
tizio che veniva da Varese e diceva: passerò alla Storia” – avviene durante la
festa più adatta, quella del Carnevale. La maschera secessionista gli va a
pennello, anche lui predica la supremazia della “razza padana, razza pura,
razza eletta”. Lo fa nel primo comizio della sua vita in bergamasco stretto.
Gli credono. Entra in Consiglio comunale nel 1990. Due anni dopo è in
Parlamento. L’armamentario che maneggia è sempre il peggiore: rastrellamento ed
espulsione degli albanesi, castrazione con forbici per i pedofili, fuoco sugli
scafisti. Ce l’ha con “i nazisti rossi”. Con “la civiltà gay che sta
trasformando la Padania in un ricettacolo di culattoni”. Ma specialmente con
Berlusconi, “il mafioso di Arcore”, “il re dei debiti”, “l’uomo della P2”,
“l’assassino dell’economia italiana”. Ma quando Berlusconi ripiana i debiti
della Lega, cambia musica. Con tutta la nomenclatura entra nella stanza dei
bottoni. Bossi diventa ministro delle Riforme, anno 2001, semplificate ogni
anno nei raduni di Pontida e Venezia con l’ostensione del Tricolore: “Lo uso
per pulirmi il culo!”. Calderoli ascende tra i velluti dei senatori e si mette
a studiare le geometrie dei regolamenti, come fossero le arcate dentali. Alle
quali imprime la sua nuova scienza che consiste nel creare danni parlamentari
ove possibile, moltiplicare gli inciampi, fino al capolavoro degli 82 milioni
di emendamenti presentati per rallentare la discussione sulla legge elettorale,
il cosiddetto Italicum: “Ho un programmino che da un testo base è in grado di
comporre centinaia di migliaia di varianti”. A forza di applausi e risate dal
circo mediatico, si avventura con bermuda, polenta e grappa in una baita di
Lorenzago del Cadore a scrivere in latinorum la Riforma Federalista, anno 2004,
bruciata a stretto giro da un apposito referendum. Non contento si incarica di
redigere la nuova legge elettorale, battezzandola da sé “una porcata”, in una
celebre intervista a Matrix, che tra veti e contro-veti è rimasta intoccata per
tre legislature, fino a quando la Corte costituzionale l’ha destinata alle
mandibole della trita-documenti. Di guai ne ha combinati parecchi. Celebre la
sua passeggiata con maialino su un terreno che il Comune di Lodi voleva
destinare alla costruzione di una moschea, rendendolo infetto. Addirittura
memorabile la maglietta anti Maometto che in veste ministeriale esibì al Tg1,
scatenando fuochi di guerriglia in Libia. Provò a rimediare con le scuse. Disse
al Corriere che non aveva dormito “per una intera notte”, significando di avere
dormito benissimo tutte le altre, pazienza per gli undici morti durante gli
scontri davanti al nostro consolato di Bengasi. Una mezza dozzina di volte ha
avuto grattacapi dalla magistratura. A Verona per le Guardie Padane. A Milano
per gli scontri in via Bellerio, sede della Lega. A Lodi per il fallimento
della banca leghista, la Credieuronord e i finanziamenti ricevuto dalla
Popolare di Lodi, la banca di Giuseppe Fiorani. A Napoli, quando gli uomini del
Capitano Ultimo indagarono sui conti della Lega, i diamanti comprati in
Tanzania dal tesoriere Francesco Belsito, i soldi girati in nero a “The
Family”, cioè a Bossi, i 49 milioni di euro incassati con i rimborsi elettorali
e spariti nel nulla. E poi a Bergamo per avere insultato la ministra di colore
Cécile Kyenge: “Amo, com’è noto, gli animali, gli orsi, i lupi, ma quando vedo
la ministra non posso non pensare alle sembianze di un orango”: 18 mesi di
condanna per diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale. “Non avrei scommesso un euro su di me”, dichiarò quando
diventò per la prima volta ministro, anno 2004. Da allora è ancora lì. A
dimostrazione che al netto del suo portento evolutivo, i veri citrulli siamo
noi.
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