“GiornatadellaMemoria”. Ha scritto Enzo
Bianchi in “Shoah, le radici da non dimenticare”
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 23 di gennaio 2023: Chi
non sa quel che dice usa sovente l’espressione: “Occorre voltare pagina!”. (…).
Dunque voltare pagina rispetto agli eventi sintetizzati sotto il nome di Shoah,
della “catastrofe”, non può significare rimuovere il passato e smettere di
farne memoria, non può significare dimenticare. Se è vero che la colpa non è
ereditaria, rimane il fatto che il male compiuto ha lasciato tracce profonde e
che le sofferenze patite dagli ebrei negli anni della pianificazione del loro
sterminio in Europa sono ancora presenti nei figli e nei nipoti, che non
potranno mai cancellare ciò che in qualità di ebrei i loro padri e le loro
madri hanno dovuto patire nell’indifferenza generale dei popoli in mezzo ai
quali avevano vissuto per secoli. Oggi, settant’anni dopo, le iniziative per
una maggiore conoscenza degli ebrei, del loro rapporto gemellare con i
cristiani, e per rinnovare la memoria della Shoah sono ben attestate in Italia.
E tuttavia quella “catastrofe” rischia di diventare semplice narrazione, un
evento da ricordare tra i tanti, e di perdere la sua specificità: la
pianificazione di uno sterminio non di nemici, ma semplicemente di uomini,
donne e bambini solo perché ebrei, che anche noi in Italia imparammo a odiare
scegliendo di non vedere e di non insorgere di fronte a tanta barbarie. Come
non ammettere che neppure i vertici della chiesa cattolica hanno avuto la
parresia di difendere i primi fratelli dei cristiani? E si smetta di imputare
solo al Terzo Reich questo genocidio, perché noi italiani - vale anche per i
polacchi, i croati e gli ucraini - abbiamo collaborato perché gli ebrei fossero
perseguitati, catturati, sterminati. Un antigiudaismo dottrinale presente nel
cristianesimo fin dai padri della Chiesa si è insinuato in profondità nei
cristiani, paralizzandoli e rendendoli incapaci di discernere il “deicidio” che
essi stessi stavano compiendo, perché uccidendo Israele uccidevano il Dio
dell’alleanza: i cristiani invece imputavano questo delitto agli ebrei! E che
tristezza ancora oggi constatare che l’antigiudaismo resta presente nelle
omelie e nei commenti alle sante Scritture. Si strumentalizzano polemiche
interne al giudaismo del tempo di Gesù denigrando gli ebrei credenti e non
operando la necessaria interpretazione storico-critica dei testi. Resto
convinto che i cattolici, ancora infervorati nell’apologia della propria fede
in polemica con gli altri, ancora morsicati dal bisogno di giudicare e
condannare, non siano capaci di riconoscere fino in fondo gli ebrei come
fratelli gemelli: gemelli perché come noi generati al contempo dalle stesse
Scritture che chiamiamo Antico Testamento. Fratelli certo diversi, con i quali
si registrano differenze e rotture, ma che l’attesa potrebbe rendere convergenti:
l’attesa del Regno di Dio, regno di giustizia e di pace per tutti. Di
seguito, “Shlomo Venezia. Il lungo
viaggio del testimone”, “Memoria” di Marcello Pezzetti
(storico italiano, uno dei massimi studiosi italiani della Shoah, membro della
commissione della “Fondation pour la Mémoire de la Shoah” di Parigi e del consiglio
del “Centrum Edukacji” del Museo statale di Auschwitz-Birkenau n.d.r.)
pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 21 di
gennaio ultimo: Eravamo agli inizi degli anni '90. Giovani neofascisti avevano
imbrattato muri e porte nel ghetto di Roma con scritte antisemite, disegnando
anche Magen David di triste memoria, come nella Germania nazista. (…). Io ero
incollato al televisore ad ascoltare le voci dei sopravvissuti, che conoscevo
già, ma, a un certo punto, ecco comparire sul video un uomo distinto,
dall'aspetto gradevole, che però non sorrideva mai. Era "Bruno"
Venezia (Salonicco, 29 di dicembre dell’anno 1923 – Roma, 1º di ottobre
dell’anno 2012 n.d.r.), in realtà "Shlomo", non l'avevo
mai sentito nominare. Forse perché non compariva nell'elenco dei deportati
dall'Italia: durante il periodo dell'oppressione nazi-fascista era infatti
residente in Grecia, a Salonicco, ed era stato arrestato ad Atene. Ma era
italiano, così come tutta la sua famiglia. Alla domanda del giornalista «E lei
ad Auschwitz cosa faceva?» la risposta, secca, fu: «Ero nel Sonder-kommando!».
«Cos'era?». «Lavoravamo nei crematori, tra le camere a gas e i forni, dovevamo
occuparci dello smaltimento dei cadaveri». Il giornalista si limitò a dire:
«Bene, questo signore lavorava nei crematori» e passò velocemente la parola a
un altro testimone. Feci un balzo dalla sedia: quel cronista non aveva compreso
la situazione, ma soprattutto non aveva capito di trovarsi davanti a un
personaggio che aveva rivestito un ruolo di primaria importanza nella storia di
Auschwitz. Poco tempo dopo ero da lui, e subito mi resi conto di essere a
contatto con "La Storia", non con un semplice testimone. Da quel
momento, per molti aspetti, la vita di entrambi non sarebbe stata più la
stessa. Un "Sonderkommando”, per di più italiano! Ad Auschwitz-Birkenau,
fin dall'inizio dello sterminio sistematico della popolazione ebraica
dell'Europa occidentale e del Sud, i nazisti avevano obbligato gli stessi
ebrei, generalmente giovani e forti, a effettuare quello che veniva chiamato lo
"sporco lavoro", ovvero tutte le operazioni legate all'uccisione col
gas degli ebrei deportati e alla liquidazione dei loro cadaveri. Tutte le
operazioni, tranne, però, quella di "dare" concretamente la morte, di
uccidere. Ciò era riservato ai soli nazisti. La vita media di questi giovani
era brevissima: tranne alcuni "specialisti", ritenuti indispensabili
al funzionamento della macchina di sterminio, essi venivano periodicamente
eliminati. Tuttavia, nel 1944, a causa del numero altissimo di convogli inviati
ad Auschwitz, essi vennero tenuti in vita per diversi mesi, fino al 7 ottobre,
quando scatenarono un'eroica rivolta che mise fuori uso un intero crematorio.
Per loro fu la fine: di circa 900 persone rimasero in vita meno di 100,
momentaneamente risparmiate per occuparsi degli ultimi convogli e per
smantellare le installazioni omicide. Alcuni di questi sopravvissero alla
guerra, ma cosa si sapeva di loro? Molto poco, e in Italia nulla. Tutti gli
storici, però, sapevano che essi rappresentavano una "fonte"
assolutamente necessaria per ricostruire il meccanismo di distruzione
dell'ebraismo europeo. Tre di essi avevano rilasciato la loro preziosa
testimonianza - quasi inaccessibile - subito dopo la guerra, in processi tenuti
a Varsavia e a Cracovia, e negli anni '60 altri tre a Francoforte. Esistevano
dei manoscritti nascosti sotto terra, nei pressi dei crematori, e che erano
stati, in parte, ritrovati, ma questo materiale era scarsamente conosciuto
anche dagli storici (sarebbero stati tradotti in francese solo nel 1977). Ma
soprattutto i vecchi componenti del Sonderkommando non comparivano mai in
pubblico. Il solo volto conosciuto era quello di Filip Milller, portato sugli
schermi da Claude Lanzmann nel suo monumentale film, Shoah. Questo silenzio,
quasi totale, era causato dal fatto che la società europea, ma anche quella
israeliana, considerava questi uomini quasi dei "collaborazionisti",
come se avessero "partecipato", in qualche misura, alle pratiche di
annientamento naziste (si pensi, per esempio, al giudizio, in questo caso del
tutto scorretto, di Primo Levi, che li aveva definiti i "corvi neri"
dei crematori). Ora, durante il primo incontro con Shlomo, io ero certo di
trovarmi di fronte a un testimone di immenso valore, tuttavia, lui non sapeva
chi aveva davanti. I primi incontri furono molto complicati: era lui a
interrogare me. Quando pensò che possedevo le conoscenze necessarie per
affrontare le vicende del Sonderkommando, allora decidemmo di procedere con una
vera intervista, addirittura filmata. Fu un incontro intenso, senza sosta. Lui
era un diluvio di informazioni. Da subito fu chiara quale fosse la sua più
grande dote: si limitava a descrivere solo ciò di cui era stato testimone
diretto. Non una parola su ciò che non aveva visto con i suoi occhi. Nessun
commento, solo fatti esposti con impressionante precisione. Nessuna reticenza,
nemmeno di fronte alle domande più imbarazzanti. Quel giorno nacque un'intesa
che sarebbe durata fino alla fine della sua vita, e che ci avrebbe portato ad
effettuare insieme 57 viaggi solo ad Auschwitz (era lui che teneva il conto).
Shlomo era nato il 29 dicembre 1923 a Salonicco, ed era un italiano residente
all'estero, come tutti i componenti della sua famiglia; la madre Dudun, il
fratello Maurice, le sorelle Rachel, Marika e Marta. Il padre, Isacco, era
morto giovanissimo. Shlomo fin da adolescente dovette darsi da fare per aiutare
la madre a mantenere tutto il gruppo familiare, arrivando a fare mercato nero
con i soldati tedeschi che avevano occupato la città. È in quel periodo che si
rese conto di possedere due preziose qualità: quella di apprendere facilmente
le lingue - ne conosceva bene già tre: l'italiano, il ladino e il greco, ora
parlava anche in tedesco, e ciò sarebbe risultato fondamentale per la sua
sopravvivenza ad Auschwitz - e quella di capire sempre prima degli altri cosa
sarebbe successo nelle situazioni più complicate e difficili; intuiva sempre
cosa poteva o non poteva fare e di chi potersi fidare. Nel 1943 la famiglia
Venezia, essendo di nazionalità italiana, evitò di essere rinchiusa nel ghetto
istituito dai nazisti in città e la successiva deportazione ad Auschwitz, ma in
luglio Shlomo capì che la situazione stava diventando estremamente pericolosa
anche per loro, quindi, grazie all'aiuto del Consolato italiano, si rifugiò,
con altre famiglie, ad Atene. Nella capitale lui e il fratello entrarono nella
resistenza compiendo sabotaggi e aiutando soldati italiani a nascondersi presso
famiglie greche, ma alla fine di marzo del 1944 furono arrestati e imprigionati
nel carcere di Haidari. Con tutta la sua famiglia fu deportato ad
Auschwitz-Birkenau, dove arrivò dopo undici giorni di viaggio. Lui e altri
giovani tentarono di fuggire dal treno, ma le implorazioni degli "anziani",
la presenza delle sorelline e la paura di rappresaglie bloccarono questo
disperato tentativo. Giunti a destinazione, sulla Judenrampe, nel corso della
"selezione" iniziale compiuta da Mengele, la mamma e le sorelline
Marika e Marta furono inviate immediatamente alle camere a gas; lui, il
fratello Morris e la sorella Rachel vennero inseriti nel campo. Dopo un breve
periodo di quarantena, Shlomo e il fratello furono scelti per far parte del
tristemente famoso "Sonderkommando". «Siamo stati scelti in una
ottantina, tra cui mio fratello e due miei cugini». Immediatamente Shlomo
comprese che non ci sarebbe stata più via d'uscita. Era finita. Mai, in nessun
momento, né lui, né nessun altro del Sonderkommando pensarono di poter uscire
da quell'inferno. E incominciò a prender confidenza con la morte, senza però
rinunciare alla sua naturale umanità e al suo senso del dovere: non si limitò,
quindi, a tagliare i capelli alle donne uccise, ma, per dividere con i compagni
di sventura l'insopportabile fatica di eseguire le diverse mansioni da
svolgere, aiutò i compagni ad accompagnare i deportati fino alla porta della
camera a gas, cercando di proteggerli dalle botte che i nazisti davano
facilmente perché tutto procedesse velocemente, a sollevare i tappi di cemento
sulle aperture sopra il solaio delle camere a gas, dove i tedeschi immettevano
i cristalli di Zyklon B (imbevuti di acido cianidrico); a estrarre i cadaveri
delle persone asfissiate, il compito più terribile; a comporre e bagnare i
cadaveri prima della cremazione e poi infilarli nei forni; a sminuzzare e
setacciare le parti delle ossa ancora intatte dopo la cremazione. Shlomo riuscì
a salvarsi grazie alla fortuna, ma anche, e ancora, alla sua capacità di
intuire quel che sarebbe successo. Il giorno prima della rivolta, avvenuta il 7
ottobre del 1944, convinse il suo Kapo, Lemke, a far trasferire il fratello e
due cugini dal Krematorium IV, dove lavoravano, al II, dove si trovava lui,
pensando che li si rischiasse di meno, oltre al fatto che, in ogni caso, avrebbe
voluto morire insieme a loro. Mai scelta fu più azzardata e fortunata: furono
tra i pochi a rimanere in vita, meno di 100 su 900. E anche il 17 gennaio del
1945, quando iniziò la marcia di evacuazione del complesso di Auschwitz, fu
ancora Shlomo a decidere quando e come cercare di "camuffarsi" da
"normale" prigioniero del campo, abbattendo la porta del blocco in
cui i nazisti avevano rinchiuso gli ex membri del Sonderkommando ancora in
vita, indispensabili per lo smantellamento delle strutture omicide. Shlomo era
stato tutto questo, ma, dopo la liberazione, avvenuta a Ebensee, il sottocampo
di Mauthausen dov'era finito e in cui aveva perso un polmone, mangiato dalla
Tbc, alla sua esperienza aveva riservato un silenzio quasi "sacro".
Nemmeno gli altri deportati sopravvissuti, a Roma, città dove Shlomo viveva da
anni, conoscevano la sua storia; oltre tutto questi credevano che non fosse
rimasto in vita nemmeno un membro del Sonderkommando, di cui parlavano
raramente, e solo con timore reverenziale. Ma proprio in quegli anni la società
italiana si stava svegliando, incominciava a sentire il bisogno di informarsi,
di conoscere, di capire come fosse stata possibile la deportazione, e poi la
fine atroce di una parte importante di sé, nel modo più preciso possibile,
senza reticenze. Il mondo della scuola per primo rappresentò la forza
propulsiva di questo sforzo. Ora, pensando al fatto che gli insegnanti
avrebbero trovato grandi difficoltà a ricostruire quel che era successo senza
le informazioni che solo i componenti del Sonderkommando avrebbero potuto dare
(e ciò avrebbe rappresentato un indebito vantaggio per chi banalizzava, o
addirittura negava quanto accaduto), chiesi a Shlomo di fare uno sforzo enorme,
tornare più volte a Birkenau con due compiti: innanzitutto rilasciare la sua
preziosa testimonianza - all'interno di un progetto attivato con la collega del
CDEC di Milano, Liliana Picciotto - e tenere corsi di aggiornamento per gli
insegnanti di storia. Con grande fatica, ma con un altissimo senso del dovere,
da allora egli contribuì a formare ogni anno centinaia di insegnanti,
innanzitutto italiani, ma anche francesi, svizzeri, tedeschi, spagnoli e
israeliani. Questo lavoro non si limitò però solo al mondo della scuola, ma
toccò altre categorie di persone, come quella delle guide dei luoghi della
Memoria, a partire da quelle del Museo di Auschwitz; delle scuole di
giornalismo, in particolare francesi, delle organizzazioni ebraiche, delle
associazioni cattoliche, delle scuole di partito (in Francia); abbiamo raggiunto
persino alcune commissioni episcopali. Splendido il rapporto che si instaurò
con il cardinale Lustiger - tra l'altro ebreo di nascita -, il quale, sorretto
da Shlomo, recitò il Kaddish nel luogo dove i nazisti avevano attivato la prima
camera a gas di Birkenau e dove mamma e sorella erano state uccise. Diversi
alti esponenti politici appresero dalla sua voce, sul luogo, le modalità della
tragedia della «soluzione finale della questione ebraica». In ogni occasione
Shlomo ha testimoniato mantenendo fede al principio della sola aderenza ai
fatti sperimentati di persona, sempre mantenendo una sobrietà assoluta
nell'esposizione. Mai una concessione alla facile emozione o alla
spettacolarizzazione, spesso richiesta dal mondo dei media. Eppure è stato consulente
di diversi prodotti televisivi e cinematografici, si pensi solo a La vita è
bella, sul cui set ha raccontato a Roberto Benigni il procedimento della messa
a morte all'interno dei crematori. Estremamente umano e professionale il
rapporto con il regista Ruggero Gabbai, con il quale abbiamo realizzato diverse
opere. Nel 2000 la sua preziosa collaborazione è stata indispensabile per
elaborare la ricostruzione dei crematori nell'opera multimediale Destinazione
Auschwitz. Grazie a lui, si è arrivati alla visualizzazione del crematorio II
di Birkenau, premiata dall'Unione europea con l'"Innovation Price
2000". Per Shlomo questo progetto ha rappresentato una sofferenza mai
provata nel dopoguerra: è rimasto 17 giorni sui resti delle strutture di sterminio
analizzando e spiegando il valore di ogni pietra rimasta, confrontando i suoi
ricordi con la documentazione da poco ritrovata della Topfund Sòhne, la ditta
che aveva costruito i crematori di Birkenau. «Dopo questo viaggio, ci vorranno
parecchie settimane, per non dire mesi, prima di tornare alla normalità, se
esiste una normalità...». Dagli inizi del nuovo secolo si intensificarono i
"viaggi della memoria", principalmente delle scuole italiane, ma
anche di organizza-zioni di diverso tipo, come, nel 2004, il primo incontro ad
Auschwitz tra rappresentanti del mondo cattolico, ebraico e musulmano (docenti
universitari palestinesi, capi religiosi islamici di Francia e Belgio, arabi
d'Israele), organizzato dal prete melchita Shoufani - arabo, fede cattolica,
domicilio in Israele -. Guidate dalla testimonianza di Shlomo, per tre giorni e
tre notti la delegazione palestinese e quella ebraica accettarono di
confrontarsi e di conoscersi attraverso lo specchio della Shoah, della
sofferenza. Negli ultimi anni, ogni viaggio, ogni conferenza, ogni incontro
vide poi la presenza della sua amata moglie, Marika Kaufmann, la donna che lo
tenne per mano per tutta la vita. Furono molto vicini a Shlomo anche i tre
figli, Mario, Alessandro e Alberto, e i nipoti, la sua "ancora di salvezza".
Nel 2007 la Francia vide l'uscita del suo libro Sonderkommando Auschwitz, che,
tradotto in 25 lingue, sul tema sarebbe diventato un punto di riferimento per
tutti, studiosi e non. Fino alla fine non smise di testimoniare: le ultime
immagini sono quelle di lui, a Birkenau, sulla carrozzella con, a fianco, la
bomboletta di ossigeno. Senza un lamento, quasi fosse, ancora una volta, tutto
normale. Shlomo Venezia, un "Mensch" che ha lasciato un segno
indelebile in tutte le persone che sono venute a contatto con lui.
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