"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 4 gennaio 2023

Dell’essere. 65 Enzo Bianchi: «Il cristianesimo è una religione che richiede l'uscita dalla religione, è la speranza che la morte non sia la fine di tutto».  

A lato. "Guardare un'opera d'arte" (2022), acquerello di Anna Fiore.

Ha scritto Umberto Galimberti in “Non confondiamo credenti e militanti” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di luglio dell’anno 2022:

(…). Semplicemente (…) come pensavano i Greci antichi che chiamavano l'uomo "mortale", credo nella morte che, interiorizzata come ultima e definitiva espressione della vita, proietta sull'esistenza il senso del limite che evita di sopravvalutare se stessi, proporsi obiettivi aldilà delle nostre capacità, coltivare il narcisismo che isola dagli altri perché li percepisce solo come un applausometro. Detto questo, il Vangelo (…) è stato rimesso in auge ultimamente solo da papa Francesco, creando un'ostilità significativa e strutturata al limite della scissione da parte dei conservatori fedeli alla teologia tradizionale, di cui si è fatto interprete papa Benedetto. Ora la teologia cattolica è costruita sul modello della filosofia platonico-aristotelica che non ha alcuna relazione con il messaggio evangelico. E questo nel tentativo di attenuare la distanza tra fede e ragione, ma soprattutto per trovare nella ragione argomenti in grado di giustificare la fede. Impresa impossibile, ma comunque tentata ininterrottamente per secoli, mentre andava progressivamente smarrendosi il messaggio evangelico che recita: "Dove due o più persone sono riunite nel mio nome, io sarò in mezzo a loro" (Matteo, 18., 20). Compiuta questa operazione, la teologia cattolica che, lo ripeto, si fonda sulla filosofia platonico -aristotelica, tratta la filosofia come sua serva (philosophia ancilla theologiae). Anche se a questa posizione tomista Kant, ne Il conflitto delle facoltà, replica che "L'ancella precede col lume la sua gentile signora e non la segue reggendola con lo strascico". Quanto a "militanza" temo che appartenga più a certi cattolici che ai filosofi. Mi riferisco a quei cattolici che pensano che la loro fede sia una verità assoluta. Un concetto questo autocontraddittorio, perché la fede "crede" proprio perché non "sa". Io non credo che sia la Terra a girare intorno al Sole perché lo so, ma siccome non so se Cristo è risorto, per questo lo credo. Questa differenza l'ha enunciata Tommaso d'Aquino là dove nel De Fide (articolo 1) dice che la fede non è promossa dalla ragione, ma da un elemento esterno: la volontà (ex estrinseco, ex voluntate). Per questo "imprigiona l'intelletto" e, come dice Paolo di Tarso nella Prima Lettera ai Corinti (2, 3) "lo riduce in stato di infermità e di grande timore e tremore". Il cardinal Martini (…) non nascondeva che la sua fede era accompagnata dal dubbio, a differenza di coloro che la ritengono verità assoluta, e così facendo chiudono il dialogo e aprono le porte all'intolleranza. Per dialogare infatti bisogna assumere l'atteggiamento di chi non esclude la possibilità che il suo interlocutore abbia un gradiente di verità superiore al proprio, o comunque abbia la possibilità di modificare il proprio punto di vista. Se questo non accade, allora, come ci ricorda il filosofo e psicopatologo Karl Jaspers, non si ha a che fare con un credente (Glaubende), ma con un militante della fede (Glaubenskampfer) con il quale il dialogo è impossibile. E là dove non si dialoga è subito guerra. Di seguito, “Il cristianesimo è un inno alla vita e non al dolore”, intervista a Enzo Bianchi – fondatore e già priore della Comunità Monastica di Bose - di Antonio Gnoli pubblicata sul settimanale "Robinson" del quotidiano “la Repubblica” del 24 di dicembre dell’anno 2022: (…). Ti è accaduto di peccare? «Certo, ma senza cadere mai in quelli che io giudico i peccati gravi».

Quali? «I peccati contro i poveri, i peccati di ipocrisia di certi ecclesiastici e poi i tradimenti tra fratelli».

Mi fai pensare alla tua vicenda personale. «Non potrei onestamente prescinderne, anche se volessi».

Ti sei ritirato nella tua terra di origine, il Monferrato. «Non è stato facile, una prova ulteriore vissuta nella solitudine».

A un monaco la solitudine non dovrebbe pesare. «Ho sempre pensato che la solitudine è una condizione che richiede la presenza degli altri. Altrimenti si è soli. E vulnerabili».

Pensi a Bose? «Come potrei non farlo. È un lungo tratto di strada compiuto. Ora che si avvicina il Natale rammento cosa fu la faticosa conquista di una gioia desiderata».

Faticosa perché? «Ripenso ai primi Natali, me bambino. La povertà, io che a otto anni perdo la mamma. L'attesa del Natale era un misto di speranza e tristezza. Facevo il presepe con le figurine, la carta e la colla. La stessa povertà, o meglio essenzialità, la vissi nei primi anni a Bose. Natali con poche persone e il duro lavoro per far crescere la comunità. Solo negli ultimi anni quell'evento si è arricchito di presenza umana. Preparavo il pranzo – ho sempre amato cucinare - per un'ottantina di commensali. C'erano fratelli e sorelle e le tante persone sole con cui condividere la gioia dell'attesa».

La gioia di cui a volte parli non è solo spirito, non è solo preghiera. «Si prega in tanti modi e lo spirito senza il corpo cosa sarebbe? Cosa sarebbe senza gli altri. Non può esserci un Natale senza vera condivisione».

Il prossimo anno compirai 80 anni. Che tempo pensi di vivere? «È un'età per me faticosa».

Il sottotitolo del tuo nuovo libro è "Inno alla vita". L'hai vissuta con pienezza? «Pienezza significa appunto non lasciare fuori niente: le delusioni e la gioia, le amarezze e il rinascere. Quello che si è stati e ciò che diventiamo. L'inno alla vita, più che un punto finale somiglia a un esclamativo. Bene. Vediamo cosa c'è dopo».

Grande questione. Leggendoti ti ho percepito fiducioso. «Come potrei non esserlo. Lo dico da cristiano».

Come immagini questo "oltre"? «Da bambino ero perplesso o meglio angosciato ogni qualvolta mi parlavano dell'aldilà».

Cosa ti turbava? «Era come se quel tempo senza fine fosse occupato interamente dalla contemplazione beata del divino. Un'immagine che provocava in me una forte angoscia, tanto più acuta in quanto evidente era il mio rifiuto di distaccarmi dalla vita terrena. Te lo vedi un bambino dentro questo fotogramma? Col tempo ho ricomposto l'immagine».

Vi hai messo più colore o cosa? «Vi ho introdotto la convinzione che una vita vera non è fatta solo di rinunce e sacrifici, ma ispirata a un grande insegnamento: per capire chi siamo non bisogna disprezzare il mondo, ma amarlo e lasciarsene attrarre».

Non c'è il rischio di fraintendere questo amore così terreno? «Il rischio, l'errore, il peccato ci sono sempre. Ma quello che intendo ribadire è l'indissolubile legame tra spirito e corpo. Il corpo vive dello spirito e non c'è spirito senza il corpo. Come monaco per tutta la vita mi sono sforzato di sentire questo abbraccio con la natura. Con il bosco, la terra gli animali. E quando avverto una tale sensazione comprendo il senso della comunione che è più della semplice solidarietà. E tutto ciò mi induce a sospettare di aver scritto e pensato troppo».

Cosa te lo fa supporre? «In questi anni finali mi sembra di aver accentuato l'attenzione alle cose più semplici della natura. Mi sorprendo davanti agli alberi e a volte mi pare spontaneo parlare con essi, e resto incantato dalle erbe aromatiche, dai fiori, dall'animale selvatico che mi attraversa la strada. C'è una profondità di destino in tutto questo che mi commuove. Non pensavo di potere amare la terra così intensamente da giungere a formulare il comandamento "ama la terra come te stesso"».

Non è una forma di spinozismo? «Non è panteismo il mio né idolatria. Davvero, amo questa terra perché vengo dalla terra e ritornerò ad essa e sento un grande debito verso la natura».

E come se rivestissi la speranza di foglie e di rami, di vento e di aria. «Beh, la grande speranza è quella che ritrovo nella Bibbia quando dice che ci saranno un cielo e una terra nuovi e che in questo mondo nulla andrà perduto ma tutto sarà trasfigurato».

Qual è la forza capace di trasfigurare tutto questo? «La identifico nell'amore, un sentimento che non mi ha mai abbandonato e che ha dato senso alla mia vita, soprattutto nell'incontro con le vite degli altri. Ti confesso che non rimpiango nulla perché tutto quello che ho fatto l'ho vissuto fino in fondo».

Avverto come un'amarezza dalle tue parole, come se - e vi accennavamo prima - questo amore fosse stato messo a dura prova dal tradimento e dalla slealtà. «Credo che quello che ciascuno ha vissuto non possa essere dimenticato. Anche quando perdoniamo, la ferita resta dentro di noi. È terribile riconoscere che l'amore possa essere tradito, ma è destino dell'amore che, anche quando è tradito, possa continuare a esistere e non debba essere smentito. Dopotutto, è la grandezza dell'amore umano: ci offre l'opportunità di vincere sulla condizione negativa della morte. E vincere dunque anche sul tradimento. Non lo cancella ma lo vince anche quando non si riesce a contenere il dolore che ci provoca».

Questo tuo accenno al dolore vorrei spostarlo su un altro piano. Tutto il tuo discorso è un grande inno alla vita. Ma quando la vita sta finendo, tu dici, e lo dico con parole elementari e dirette, non è giusto affidarsi al dolore, alla sua illusoria grandezza. «Mi sento distante da un'interpretazione dolorista del cristianesimo. Penso che il dolore e le sofferenze siano insensate. E in fondo dove c'è una persona - un uomo o una donna - che soffre, lì si è chiamati a starle accanto, spesso senza parole, perché le parole possono essere inadeguate, ma sapendo che la resistenza al dolore, il combatterlo, è una battaglia di umanesimo e di cristianesimo. Se non fossimo capaci di affrontare questa battaglia, non saremmo neppure capaci di compassione. Ecco, per dirla in maniera più diretta, occorre attraversare il dolore dell'altro senza sublimarlo, ma contrastarlo per renderlo almeno sopportabile».

E questo vale anche per il fine vita? «Non può essere un'eccezione, per quanto alla fine possa sembrare di esserla».

Spiegati. «Perché l'uscita dalla vita deve essere un'esperienza così dolorosa? E da questo interrogativo che sorge un'ulteriore domanda: perché si continua a chiedere di morire presto?».

La risposta tu la dai in "Cosa c'è di là", quando scrivi che "il dolore è inumano e per questo non oso condannare chi si suicida o chiede di essere aiutato a porre fine alla sofferenza". «Sono profondamente convinto che occorra morire conservando la propria dignità».

Le tue posizioni hanno suscitato molti contrasti nella Chiesa. E recentemente, (…), hai sottolineato il rischio di un cattolicesimo senza cristianesimo. «Quell'articolo lo ricordo bene, una specie di corollario del libro che tu hai citato e che indica un'urgenza attorno a dei temi su cui è calato il silenzio. Nel mondo cattolico c'è molta etica e l'etica se la danno gli uomini. Il cristianesimo non può essere ridotto a un'esperienza etica. Amo una formula un po' paradossale: il cristianesimo è una religione che richiede l'uscita dalla religione, è la speranza che la morte non sia la fine di tutto».

Non ti sembra che sia anche responsabilità della Chiesa farsi carico dei problemi sociali? «Mi sembra ovvio ribadirlo. Guai se il cristianesimo non fosse profetico verso l'ingiustizia e l'oppressione. Ma il suo messaggio non può ridursi a questo. In quanto cristiani abbiamo la capacità e il dovere di chiedere libertà, uguaglianza, fraternità. Sono i valori già espressi dall'illuminismo. Ma la speranza che la morte non sia l'ultimo approdo, l'ultima parola, è l'essenza stessa del cristianesimo. E allora la domanda: Chiesa chi tu sei? Non basta il decalogo di come bisogna vivere eticamente e moralmente, a questa altezza si resta a livello della legge. Si resta a livello dell'uomo in grado di accogliere questa visione anche senza Dio».

Mi ha sorpreso una frase del tuo libro: "Non oso neppure far entrare nei miei pensieri Dio, questa parola che più divento vecchio più sento insufficiente, addirittura ambigua". «Fino a quando il cristianesimo non divenne una religione di stato, grosso modo durante il terzo secolo, i padri della chiesa sostenevano che Dio fosse una parola insufficiente. Noi di Dio non sappiamo nulla».

La Bibbia mostra il contrario. «La Bibbia ci dà un'immagine remota di Dio. Il racconto diretto di Dio è fatto da un uomo che è Gesù di Nazareth. E quel racconto ci mostra che non si può dire Dio senza l'uomo e l'uomo senza Dio. Quando ho scritto che Dio è una parola ambigua intendevo dire che è usata da tutte le religioni e può cambiare da cultura a cultura. Il Dio che immagino io potrebbe essere molto diverso da quello che immagini tu».

Qualche mese fa è uscita nella collana dei Millenni di Einaudi la Bibbia da te curata con nuove traduzioni e nuovi commenti. Su quel libro inesauribile cosa è stato edificato? «È uno dei pilastri della cultura occidentale. Una specie di grande codice da cui attingere. Ma non è un semplice libro, perché in esso convivono numerosi testi composti nell'arco di un migliaio di anni da autori, anche geograficamente, lontanissimi: dall'Iraq a Roma. Considero la Bibbia la grande biblioteca dell'umanità, all'interno della quale c'è l'insegnamento riassunto dai Vangeli per cui, al di là della morte, c'è la speranza riguardo al nostro destino. Avevo 11 anni quando mi fu regalata una Bibbia. La leggo quasi tutti i giorni e vi trovo solide ragioni per sperare in un dialogo continuo con gli altri. Leggerla mi fa sentire come un viandante che ancora cammina sulla terra nella prossimità degli ottant'anni».

2 commenti:

  1. "Ormai vecchio, guardando al mio passato, mi accorgo che il cammino dell'imparare a morire è stato il cammino dell'imparare a vivere, nella convinzione che ciò che si è vissuto nell'amore resterà per sempre. Solo l'amore innesta l'eternità nella nostra vita mortale ". (Enzo Bianchi). " Si può sentire la vita assurda, come scriveva Camus, insignificante, come affermava Cioran, o tragica, come la leggeva Nietzsche, ma nessuno può dire che l'amore non abbia senso: è l'amore che crea il senso, che permette di sostenere l'enigma della morte e che rende il vivere una vita! ". (Enzo Bianchi). Un immenso grazie per questo Impareggiabile post che sicuramente rileggerò ancora, specialmente in alcuni particolari momenti, quando avrò bisogno di conferme, cosa che sicuramente accadrà ancora, in questa fase conclusiva della mia vita attuale... Buona continuazione.

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  2. Amica carissima, il più delle volte ci si rispecchia nelle poche umili cose che si riesce a creare e condividere con gli altri. Diviene quasi una forma di personale compiacimento che sprona ad andare avanti nell'intrapreso cammino. A maggior ragione, leggendo il tuo commento, mi conforta e mi gratifica che quel poco da me creato e condiviso possa averti arrecato quietitudine allo animo tuo. Fraternamente.

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