“VitedaAcari”. Ha scritto Paola Mastrocola in “Di sana e robusta Costituzione”
pubblicato sul settimanale “d” del 7 di gennaio 2023: Gli animali vivono con noi. Anche
gli animali che non vediamo perché troppo piccoli o perché abitano lontano, leoni,
gazzelle, elefanti, coccodrilli, di cui abbiamo un'idea solo libresca,
fotografica, filmica: tutti vivono insieme a noi nello stesso mondo. E vivono
nella nostra mente. Sono gli animali immaginari dei fumetti e delle favole, che
hanno nutrito la nostra infanzia e spero nutrano ancora la nostra mente adulta:
il lupo, l'orso Baloo, il Gatto con gli stivali, la volpe del Piccolo Principe,
l'ippogrifo... (…). Amiamo molto gli animali. Amiamo soprattutto dire che
amiamo gli animali. Ma non so se sia vero. Forse il nostro è un amore astratto,
che non costa nulla. Li amiamo in forma di peluche e nelle pagine dei libri, o
amiamo quelli che abitano con noi, che compriamo al negozio o prendiamo al canile.
Gli animali da compagnia. Ecco, è quel "da" che mi insospettisce:
animali da passeggio, da allevamento, da laboratorio, da pelliccia. Noi usiamo
gli animali. Li adoperiamo come mezzo per i nostri fini, che siano affettivi,
scientifici o commerciali. Ma non so se li amiamo in sé, come esseri dotati di
una loro vita indipendente e misteriosa. Veniamo da una lunga storia di
sopraffazione e asservimento, a partire da quando li sacrificavamo sugli altari
degli Dei fino ad arrivare ai nostri mattatoi e allevamenti industriali. Ora
finalmente gli animali sono entrati nella nostra Costituzione. Nel 2022 appena
passato è stato aggiunto un comma all'articolo 9, in cui si li si riconosce
come "esseri senzienti" ai quali va garantita "la vita, la
salute e un'esistenza compatibile con le proprie caratteristiche
etologiche". Spero che questa aggiunta ci aiuterà a cambiare il nostro
atteggiamento mentale. La bioetica, (…), è l'etica che riguarda tutto ciò che è
bios, l'intero mondo vivente, a cui dovremmo applicare, allargandolo,
l'imperativo kantiano: "Tratta nella misura del possibile ogni essere
vivente sempre anche come fine e mai solo come mezzo". Nella misura del
possibile... Cosa ci è possibile fare? Io penso che, per cominciare, potremmo
guardare molto gli animali intorno a noi. Guardarli e basta, perdendoci a osservare
la loro vita, anche senza coglierne fino in fondo il segreto. La parola rispetto,
non a caso, ha in sé il verbo spectare, guardare. Gli animali ci incantano.
Proprio nel senso di incanto, qualcosa che si scosta dalla normalità delle
nostre vite: un ragno che s'inerpica sul suo filo invisibile, un cane che
aspetta fuori dal negozio il padrone, le cimici che ci entrano in casa per
trovare un po' di caldo, lo scoiattolo che corre a fare incetta di nocciole. E
le anatre, la mia passione. Le guardo navigare sul Po come barchette tirate dal
vento: il massimo di fatica per dar l'idea del massimo di leggerezza, le loro
zampette che mulinellano sott'acqua e che noi non vediamo. Forse gli animali ci
incantano proprio perché non hanno la parola. Parlano una loro lingua, che però
noi non capiamo. Sono portatori di un segreto misterioso. Abbiamo imparato a conoscere
i loro gesti e i loro versi; sappiamo che provano paura e rabbia, che hanno
fame, che accudiscono i cuccioli, che forse s'innamorano... Ma restano un
universo incognito. Non sappiamo se pensano, se hanno nostalgia, rimpianti, se
temono la morte come noi. Hanno di sicuro la memoria, l'immaginazione e anche
la capacità di programmare azioni. E sentimenti. Arrivano addirittura a
suicidarsi: Aristotele racconta, nella sua Historia animalium, che il re degli
Sciiti fece accoppiare una sua splendida cavalla purosangue col migliore dei
suoi cuccioli, coprendola con un velo; ma il velo a un certo punto cadde e il
giovane cavallo, riconoscendo la sua mamma, fuggì e andò a gettarsi in un
burrone. Gli animali hanno un'anima. Come le piante. Così ci dice un grande
fisico e filosofo tedesco dell'ottocento, Gustav Theodor Fechner, (…). Partiamo
dalla meraviglia. Gli animali, come tutti gli esseri viventi di cui percepiamo
accanto a noi il mistero, rinnovano la nostra meraviglia del mondo. Abbiamone
cura, e rispetto. Di seguito, “I
piccoli niente” di Bernardo Zannoni, racconto scritto in esclusiva per il
settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 7 di gennaio 2023: Abitiamo
un luogo davvero molto vasto. Non potrei definirlo in altro modo, e non che io perda
troppo tempo a definire le cose. Ovunque si guardi pare si estenda
all'infinito, e spesso cambia forma, così da farti credere perso. Casa per noi
è dove poggiamo le zampe, oppure il dorso di chi conosci. Conosco Fredericksen,
Jean, e poi c'è anche Tamburo. Siamo rimasti in pochi, solo noi, in una coltre
di Giallo. Anche il Giallo oramai è sinonimo di casa. «Mamma torna e ci riporta
nel Rosso», dice sempre Fredericksen. «Vedrai». Fredericksen è mia sorella. È
nata prima di me e non le sto simpatico, l'unico di settanta fratelli. «Capito,
microbo?», la supporta spesso Jean. «Smettila di dire fesserie». Jean è il
fidanzato di Fredericksen: è tozzo e muscoloso, con le zampe a sventola, il
dorso tutto abbronzato. Anche lui è nostro fratello; loro si stanno simpatici. «Jean!»,
frigna di solito Fredericksen. «Faglielo dire!». E vuole che lo dica, che mamma
ci viene a prendere, che ci riporta nel Rosso. Se non lo faccio Jean mi spinge.
Alcune volte mi ribalta, poi rimane a guardarmi dondolare, finché non mi
rimette in piedi. Jean è forte perché fa esercizio. Allena ogni zampa in
qualsiasi momento, affronta nemici immaginari, fa tutto in corsa, mima versacci
guerreschi. Fredericksen pensa anche per lui, e che questo non succeda con me,
la offende molto. «Mamma torna, vero?». Mi ostino a non dire quello che mia
sorella vuole. Io ho visto, lei no. Prima abitavamo nel Rosso, siamo nati tutti
lì. Era alquanto affollato. Mamma ci invitava a non essere frenetici, a non
fare i maleducati, perché tanto si mangiava sempre e comunque, appena usciti
fuori dall'uovo. Bastava poggiare la bocca, passo più, passo meno. Ricordo
mucchi di fratelli aggrappati alle stesse fibre vermiglie, il via vai per un
granello, un pezzo di forfora, toccarsi per guadagnare spazio. Mamma era una
femmina impegnata, eppure riusciva a gestirci tutti, a dire a Fredericksen di
non lagnarsi, a darmi la sacro-santa ragione. Io e Fredericksen siamo nati vicini,
e dunque mangiavamo vicini. Continuava a strillare che le rubavo il pulviscolo.
«Allontanatevi un po', voi due», ci aveva suggerito mamma, ma a noi non piace
spostarci. Non siamo una specie di grandi camminatori: piuttosto che muovermi,
avevo preferito ignorare mia sorella, sperare in silenzio che si strozzasse.
Nel Rosso si stava bene, poi era arrivato quel rumore. Era un suono arrabbiato,
denso e sottile. «Il risucchio!», ha gridato mamma «Scappate!». In lontananza
ho visto le fibre piegarsi, il cielo farsi scuro. L'aria s'era agitata di
colpo, cercava di portarti via con sé, sempre con maggiore forza. Ancora prima
di potermi muovere, Fredericksen mi era finita addosso, correndo con tutte le
zampe, finendo per caricarmi sul suo addome. «Lasciami, idiota», le avevo
detto. «Lasciami tu», urlava lei. «Mamma, aiuto». Incastrato sulla schiena di
mia sorella, avevo potuto voltarmi indietro. Vidi il cielo scurirsi ancora, poi
le fibre impennarsi, l'aria vorticare impetuosa. Vidi i miei fratelli volare
via, nel vuoto, assieme alla polvere, scomparire nella bocca di un buco nero.
Le loro voci, le nostre, furono annientate dal rumore: le succhiava a sé,
assieme a tutto il resto. Vidi mamma aggrappata alla punta di un pelo, cercare
di resistere fino all'ultimo. «Mamma», la chiamai, e per assurdo mi sentì.
«Stai con tua sorella», gridò. Mi volse uno sguardo impaurito, poi ebbe un
accenno di gioia, poi di tristezza. Sapeva che non ero uno sciocco, me lo disse
senza parole. Perse la presa, e ci lasciò da soli. Fredericksen corse finché
non sentimmo più suoni spaventosi. Era tornata la luce, e intorno a noi le
fibre si erano fatte di un colore chiaro. In giro non c'era nessuno. «Dove siamo?»,
aveva detto mia sorella. «Non lo so». «Voglio sapere dove siamo. Qui è tutto
giallo». Ci aveva raggiunti anche Jean. Era sbucato dalle fibre ancora in
corsa, tozzo e abbronzato, le zampe a sventola. Ancora non lo conoscevo, ma già
dallo sguardo non prometteva grandi soddisfazioni. «Dove sìamo?», disse. «Non
lo so», risposi io. Jean si incantò per un momento. Si riprese, mi diede una
spinta. «Dimmi immediatamente dove siamo, microbo». Non ci siamo più spostati.
Fra i miei fratelli è scoccato subito l'amore, e siccome da mangiare c'è
sempre, alla fine il Giallo è diventato un colore amico. La nostra vita non è
cambiata di una virgola: si mangia, si sonnecchia, ci si riempie di nuovo la
pancia. C'è polvere, forfora, pelle morta, ogni tanto un pezzo d'unghia, fibra
gialla. La dieta è la stessa e ce la facciamo andare bene, è roba sana. L'unica
variante, è che ho preso a muovermi più spesso. Da quando Fredericksen è
rimasta incinta, ho tutti i motivi per passeggiare. Li avevo anche prima. «Mamma
sarà così contenta», ripete. «Quando torna li portiamo tutti nel Rosso». Le è
cresciuto il sedere e non fa altro che lasciare uova in giro, a dargli i nomi
una per una. «Verranno tutti intelligenti», chioccia. «Tutti quanti», le fa eco
Jean. Ha un sorrisetto quadrato, aggrappato al suo dorso, mentre finisce di
fecondarla. «Intelligenti come me», continua lei. «Come te, tesoro». Quando
passeggio vado a cercare Tamburo. Lui non è nostro fratello, e vive nel Giallo
da prima di noi, tutto solo. A dire la verità, Tamburo è completamente suonato:
non fa altro che ridere, e se non ride, è perché sta prendendo respiro. Si
spinge molto più in là di me, e spesso trovarlo mi riesce proprio difficile, mi
fa sgambare parecchio. Ha il vizio di arrampicarsi fino in cima alle fibre,
così devo tenere il muso sempre in alto: non so cosa ci trovi esattamente
lassù, ma se lo chiamo scende. «Hey, ciao», dice. Si mette a ridere. Io e
Tamburo mangiamo, poi ci facciamo due passi assieme. Non mi spinge e condivide volentieri
il cibo. Gli racconto di mia sorella e mio fratello, di mia madre, del Rosso e
del Risucchio, e lui trova le mie storie molto divertenti. Forse nemmeno mi
ascolta. Mi piace l'idea di sembrare simpatico, è una bella sensazione. Ogni
tanto Tamburo s'incupisce: se sta mangiando smette, e se cammina si ferma di
colpo. Lo vedo venire inghiottito da violentissime visioni, coscienze così
pesanti da schiacciargli l'addome. «Tamburo?», lo chiamo. È assente, in un altro
mondo. «Siamo piccoli niente, lo sai?». Se ne esce spesso con queste frasi. Le
dice in un sussurro, trattenendo la voce dallo sconvolgersi in pianto. Mi mette
un po' a disagio. «Siamo niente». «Cosa?». Tamburo riprende a sorridere, poi a
ridere. «Niente, niente. Dai, camminiamo». Non mi racconta mai nulla di sé; da
una parte credo perché non sia in grado, dall'altra ho come l'impressione che
gli piaccia farsi i fatti suoi. Non so da quanto tempo si aggiri per il Giallo,
né che storia abbia. Tamburo non è della nostra specie. Ha il dorso più grande
e di un particolare colore arancione, le zampe più spesse e molleggiate, la
testa triangolare. Una volta gli ho chiesto se venisse da lontano, mi ha
risposto di sì. «Da dove?». «Da lontano». Tamburo conosce tante zone, e si
spinge anche molto distante. Quando stiamo per esagerare, io mi fermo. «Mi
fermo qui, Tamburo». «Va bene, allora ciao». Si allontana ridendo. Il nostro è
un rapporto abbastanza semplice, ma genuino come un pezzo di forfora. Mi
dispiace vederlo scomparire, ho sempre paura di non riuscire più a trovarlo. Mi
piacerebbe andare via con lui. Quando torno mia sorella sta ancora sistemando
uova. «Tu sei Andrea, e tu pure. Andrea e Andrea».' «Che bei nomi, tesoro». Ne
ha già chiamati così una ventina. Forse vuole ovviare al fatto che non si
sappia se nasceranno maschi o femmine, ma per me, è perché non ha fantasia. «Come
sarà contenta mamma», canticchia. «Quando torna li portiamo tutti nel Rosso».
Mia sorella la odio, eppure non riesco a non volerle un poco di bene.
Fredericksen non riesce a vedere le cose, non è capace di farsene una ragione,
è come fosse cieca. Come si può odiare qualcuno che nemmeno ha gli occhi per
vivere? Mi dispiace più per lei che per la mamma. Ogni volta mi chiedo cosa ci
faccio ancora qui, perché non partire, esplorare con Tamburo, trovare una
femmina che mi ami. È che ho promesso. Resto vicino a mia sorella ancora un
poco, la sopporto, perché mi è stato chiesto. È una prova durissima. «Smettila
di masticare, mi svegli le uova». Con il suo sedere enorme, Fredericksen mi
fissa da distante, poi mi raggiunge. Il suo sguardo vacuo, irritato, di chi non
capisce niente, si somma a quello di Jean, fermo sulla sua schiena. «Mi svegli
le uova», sibila. Io lascio il mio pezzetto di fibra. «Le uova non si
svegliano», rispondo. «E invece sì». «E invece no. Non sono nemmeno vive».
«Jean». Dondolo sul mio dorso. Nel mentre che provo a rialzarmi, decido:
aspetto la schiusa e mene vado. Un giorno Tamburo mi passa un pezzo di
qualcosa: è una specie di granella, di colore marrone, dall'odore zuccheroso.
La assaggio ed è buonissima. «Che cos'è?», dico estasiato. «È biscotto», ride.
«È buono buono, ma buono davvero». Ed aveva ragione. Era qualcosa che con il
pulviscolo non aveva niente a che vedere, né con la forfora, né con la pelle
morta. Era dolce, lo divoro in un attimo. «Cos'è un biscotto?», gli chiedo. Lui
se la ride e comincia a camminare. Mi porta ai piedi di un monolito, ruvido e
irregolare, così pesante da piegare le fibre gialle sotto di lui. La sua ombra
ci copriva già da distante, il suo odore ammaliava da ancora più lontano. «Da
dove viene?», balbetto. «Dall'alto», risponde Tamburo, poi ha un altro dei suoi
momenti tristi. «Tu lo sai che siamo nulla, vero?», dice. Io non lo ascolto,
sono perso nel contemplare la montagna. Era un gigantesco ammasso di quella sostanza
zuccherina, un'estasi grande quanto venti eternità. «Quando è arrivato?»,
chiedo. «Da un po'», Ci arrampichiamo, saliamo per un poco. «È pazzesco! È
bellissimo», dico io con il fiatone. Ammiro la granella declinarsi in forme
ruvide, spingersi al cielo con una morbida salita. Tamburo mi è davanti e
intuisce che sto faticando, si ferma e mi aspetta. Ha la risata un po'
rarefatta. «Stanco?», mi chiede. «Sì». Ci mettiamo a mangiare. Avevo l'addome
che scoppiava, le zampe mi reggevano a malapena; ero contento ed euforico,
assonnato ed eccitato allo stesso tempo. «Tamburo lo sai, lo sai che sei mio
amico?», bofonchio. Dico la verità; e dalla verità passo subito a tutto il
resto. «Io voglio andarmene, Tamburo. Ho capito che spostarmi mi piace. Voglio
venire via con te, il più lontano possibile». Tamburo era pensieroso. «Noi non
ci spostiamo mica», dice. «Ma lo faremo», rispondo. «Ci mettiamo in viaggio,
lasciamo il Giallo, guardiamo nuove cose». Tamburo guardava, sì, ma in alto.
Che non ridesse da così tanto tempo, mi faceva una certa impressione. «Ti va di
salire ancora più su?», domanda. Lo zucchero mi aveva intorpidito, sentivo le
zampe pesanti, prossime al collasso, eppure ero pieno di energie. «E perché?»,
chiedo. «C'è la stessa cosa anche qui, sotto di noi, intorno a noi». Picchietto
il biscotto con la zampa. «Ne facciamo scorta, poi partiamo. Appena le uova si
schiudono tagliamo la corda». Tamburo non mi ascoltava. Manteneva la sua
domanda con gli occhi, riproponendola ai mei. A questo punto glielo chiedo. «Perché
vuoi salire?». Il mio amico aspetta un attimo prima di rispondere. Lo scorgo
soppesare le parole, valutarne la gravità, sia per me che per lui, come non
volesse farle uscire troppo in fretta, come non volesse morirne. «Se ti dicessi
che il Giallo non è che un ghirigoro, fra infiniti ghirigori gialli e rossi?»,
mi dice. «Se ti dicessi che viviamo in un manto di pelo, di forma rotonda, ai
piedi di uno spazio d'aria infinito?». Quelle parole mi confondono, faccio una
smorfia. Tamburo ha un'espressione allucinata, continua a parlare senza
aspettarmi. «Se ti dicessi che questo spazio è la casa di mostri
inimmaginabili, di grandezze inimmaginabili, e noi ci nutriamo delle loro briciole?
Se ti dicessi che non siamo più importanti della polvere, che non siamo niente,
che tutto quello che pensi, che vuoi, che desideri, è niente?». La voce gli si
era strozzata, stava iniziando a piangere. «Tamburo», gli dico, ma lui mi parla
sopra. Lo vedo al limite, tremava tutto. «Io vengo da tanto lontano, che tu non
puoi averne un'idea», confessa. «E vengo da questo biscotto, sul quale sono
rimasto attaccato». Eccolo, ora piangeva. Tamburo piega le zampe a terra, si
stende, ne mette un paio sugli occhi. «Mi hanno portato via», biascica. «Mi
hanno strappato ai fratelli, a mia mamma, mi hanno fatto perdere per sempre.
Sono caduto qui, ma cosa è realmente qui, per noi? Niente. Siamo
insignificanti». Mi sono avvicinato a lui, ho vinto l'imbarazzo, ora gli
appoggio una zampa sul dorso. «Ma no, Tamburo, no», dico. «Partiamo insieme»,
ma non ne sono più tanto convinto. «Salgo sulle fibre per cercarli», si
disperava. «Ritorno qui in cima per provare a scorgere da dove ho smesso di
esistere. Ha senso urlare? Mi possono sentire? C'è una vaga speranza?», Sono
confuso e spaventato, incerto se darmela a gambe, oppure colpirlo, e poi darmela
a gambe. Lo preferivo quando rideva, quando apriva la bocca solo per quello.
Come mi avesse letto nel pensiero, Tamburo inizia un lieve gorgoglio. «Pensare
mi uccide, amico», dice. Si alza d'improvviso e io mi scanso immediatamente.
Tamburo ride di nuovo, ma non nasconde l'amaro in volto. «Vuoi farmi un favore?
Sali fino in cima, renditene conto. Così capirai che viaggiare non serve». Mi
supera, si mette a scendere. Lo zucchero mi aveva reso ancora più agitato, e
stavo tremando tutto. Tamburo d'improvviso si ferma e si volta. «Tu non puoi
andare da nessuna parte», grida. Riprende a scendere. Quando torno mia sorella
sta sistemando le uova. Ne chiama un'altra Andrea proprio sotto il mio naso,
così da ricordarmi che di Andrea ha formato un esercito. Jean ha smesso di
fecondarla e le sta accanto, fa esercizio sottovoce. Mi fissa non appena mi
sente arrivare, «Vedi di masticare piano, microbo», ordina. «Anzi, non mangiare
affatto». «Va bene», rispondo. Non ho testa per le sue provocazioni: lo
zucchero mi abbandona e mi lascia desolato, sgomento, pieno di tristezza. Mi
posiziono lontano dalle uova. Penso davvero che il mio non è un significato,
che nessuno di noi lo ha. Penso a cosa possa farmi andare avanti, al senso che
la mia vita può assumere, se è tangibile, o perlomeno appena percettibile.
Povero Tamburo, si è bevuto il cervello. Cosa può fare un acaro, a cosa può
aspirare, se non essere un piccolo niente? Quale è il suo qui, se non il posto
dove poggia le zampe? Ci penso su parecchio, mi chiedo se questo possa
giustificare la mia presenza a questo mondo. Vale davvero la pena essere, ma
essere invisibili? Davvero un desiderio ha una scala di misura? «Cosa trami?». Mi
giro di soprassalto. Fredericksen mi è alle spalle, con il sedere enorme, che
mi studia. «Niente», le dico. Lo faccio con dolcezza: perché anche mia sorella,
alla fine, è un piccolo niente. E così pure Jean. E gli Andrea. «Sei sospetto»,
continua lei. Mi scruta con il suo muso idiota, inconsapevole ed insensibile.
Alla fine le voglio bene, decido che le posso fare un regalo. «Penso a quando
tornerà la mamma», sorrido. «A quando torna e ci riporta nel Rosso».
Fredericksen si scuote, si rilassa. Le scorgo un barlume di affetto tra gli
occhi, tutti e tre. «Allora hai capito», dice. «Sì». «Che ho ragione». «Sì». «E
che mi hai rubato il pulviscolo, appena usciti dall'uovo». «Sì». Fredericksen
si ferma, decide d'improvviso di non infierire. Arriva Jean in corsa, chiede
cosa stia succedendo. «Niente», dice lei. «Tutto bene». E senza spintoni, senza
ribaltarmi sul dorso, mi danno la schiena entrambi, e mi lasciano in pace.
Bastava davvero poco per ammansirla, meno di un granello di polvere. Sulle mie
zampe, ben stabile, me lo ripeto: aspetto la schiusa e me ne vado.
Nessun commento:
Posta un commento