Ha scritto ieri, 9 di gennaio 2023, Enzo Bianchi –
fondatore e già priore della Comunità Monastica di Bose - in “Chiesa divisa e idolatria del Papa”
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (…). Papa Benedetto è stato certamente una
voce che voleva custodire il tesoro del passato del cristianesimo, così come
Francesco sembra rispondere al desiderio di una chiesa più inclusiva, meno
intransigente e più misericordiosa, più attenta ai segni dei tempi e dei
luoghi. (…). Oggi pesa ancora nella Chiesa il permanere insistente di una
papolatria che impedisce al papa di essere semplicemente l'umile successore di
Pietro. Il Papa deve essere un vescovo che governa, o meglio che presiede alla
comunione delle chiese e della Chiesa. È il suo vero e unico compito: lavorare
per la comunione, presiedere alla comunione, riportare alla comunione. Invece
si continua a volere un custode della verità dogmatica, una figura che sia un
leader, un pontefice romano augusto più che un servo della comunione. Per
questo, fin dall'inizio del cristianesimo, le Chiese sono divise tra loro. E a
questo proposito occorre essere chiari: non vi sarà vera sinodalità senza una
riforma anche del papato, (…). Quanto all'accettare con obbedienza critica ma
anche con intelligenza e libertà il magistero del papa in cattedra e quello del
papa emerito, occorrerà evitare di "far parlare i morti", tentazione
che sempre ricompare in quelli che pretendono di riferire le parole di chi non
è più in vita, volendo interpretarlo e riattualizzarlo. No, di chi non c'è più
è determinante solo ciò che fatto, detto e scritto pubblicamente. Già nella
Bibbia far parlare i morti è considerato un peccato grande: perché è facile che
anche parole giuste appaiano nella luce della recriminazione e della rilettura
interessata. Anche in questo discernimento i cattolici devono maturare e
accettare una Chiesa, senza ricorrere ad una ottica catara che vuole una Chiesa
fatta solo di santi, senza rughe né sporcizia. Nella Chiesa i papi vanno
accolti come pastori, non venerati, e tanto meno fatti santi subito. Anche loro
sono uomini limitati e peccatori e svolgono un servizio necessario ma segnato
da limiti e dal limite ultimo della morte. Di seguito, «La stampa italiana genuflessa per
Ratzinger “santo subito”» di Tomaso Montanari – critico dell’Arte, Rettore
della “Università per Stranieri” di Siena – pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
di ieri: (…). Mio padre, profondamente cristiano e cattolico, mi ha sempre detto
che, al posto di quella di Longino, nella crociera di San Pietro si sarebbe
dovuta scolpire la statua di Abraam giudeo. Questi, in una delle novelle del
Decameron, è un ebreo parigino che comunica ai suoi amici cristiani che si sarebbe
convertito alla fede in Cristo, ma solo dopo aver visitato appunto la Curia
papale. Grande lo sconcerto degli amici: ben sapendo, dal papa in giù,
“generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella
naturale ma ancora nella sodomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di
vergogna. Oltre a questo, universalmente golosi, bevitori, ubriachi…; e …tutti
avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi il
cristiano, e le divine cose… a denari e vendevano e comperavano”. Ma Abraam
proprio per questo si converte: “Mi par discerner lo Spirito santo esser
d’essa, sí come di vera e di santa piú che alcuna altra, fondamento e
sostegno”. In altre parole, se la Chiesa si reggeva nonostante tutta quella
ipocrisia e corruzione, doveva proprio essere assistita dall’Alto! L’amara
ironia di Boccaccio riassume bene il disincanto che i cattolici più legati al
Vangelo hanno sempre provato nei confronti di un formidabile sistema di potere
tenuto in piedi in nome di Colui che ha contestato nel modo più radicale i
meccanismi infernali di ogni umano potere. E forse oggi spetterebbe proprio a
noi cattolici una critica sostanziale della figura di Joseph Ratzinger: fermi
ovviamente restando il profondo rispetto per la persona, e l’ininterrotta
preghiera per l’anima sua. Dal campo laico, sull’asserita grandezza del
filosofo e del teologo (presentato dai giornali come una specie di somma di
Agostino e dell’Aquinate…) aveva già detto parole coraggiose Umberto Eco nel
2011 (“Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo,
anche se generalmente viene rappresentato come tale. Le sue polemiche, la sua
lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane
nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua
formazione filosofica è estremamente debole”). Sulla serietà dello studioso ha
scritto in questi giorni Silvia Ronchey, ricordando l’uso non solo strumentale,
ma filologicamente e storicamente errato, delle parole di Manuele Paleologo su
Maometto nel famigerato discorso di Ratisbona. In generale, colpisce la
beatificazione culturale da parte degli atei devoti di colui che ha diretto
l’organo deputato alla repressione della libertà di pensiero nella Chiesa, quel
Sant’Uffizio (diverso ora nel nome, non già nella missione) che, vituperato
quando si rammenti la vicenda di Galileo, diventa invece una specie di libera
accademia quando si tratti di celebrare Ratzinger. Anche ai cristiani ciò
dovrebbe stare davvero a cuore: e del resto basta ascoltare la voce di Leonard
Boff, o ricordare quella di Hans Kung, per sapere quanto inutile dolore abbia
inferto la repressione del “pastore tedesco” (indimenticabile titolo del
Manifesto il giorno dell’elezione di Benedetto XVI). Ma è forse
sull’abdicazione che bisognerebbe riflettere. Che la Provvidenza abbia cavato
bene dal male aprendo la stagione di Francesco è un fatto: ma sappiamo bene
come i piani del quondam papa fossero opposti. Soprattutto, colpiva quel
ribaltamento dello spirito del Magnificat: Benedetto si dimise dicendo di non
avere più forza umana. Quando – da David a Giuditta, a Maria… – è proprio la
mancanza di forza, unita all’abbandono a Dio, a ribaltare la logica del mondo:
“Quando sono debole, è allora che sono forte”, dirà Paolo. In quelle parole
pareva invece radicato il sentire della Curia come potere tutto terreno: quasi
neo-pelagiano nel fare, in fin dei conti, a meno di Dio (scriverà poi papa
Francesco “ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra
strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella
dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in
un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta
in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la
legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione
nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa”).
Impressione rafforzata dalla decisione di riservarsi con un ultimo decreto di
pessimo gusto titoli e privilegi, rimanendo in Vaticano e facendosi
obiettivamente usare dalla fronda reazionaria che è poi platealmente riemersa
in queste ultime ore. Preghiera e rispetto, dunque. Ma anche discernimento: altro
che “santo subito”...
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