"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 10 gennaio 2023

 Uominiedio. 38 Enzo Bianchi: «Una papolatria che impedisce al papa di essere semplicemente l'umile successore di Pietro».  

Ha scritto ieri, 9 di gennaio 2023, Enzo Bianchi – fondatore e già priore della Comunità Monastica di Bose - in “Chiesa divisa e idolatria del Papa” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (…). Papa Benedetto è stato certamente una voce che voleva custodire il tesoro del passato del cristianesimo, così come Francesco sembra rispondere al desiderio di una chiesa più inclusiva, meno intransigente e più misericordiosa, più attenta ai segni dei tempi e dei luoghi. (…). Oggi pesa ancora nella Chiesa il permanere insistente di una papolatria che impedisce al papa di essere semplicemente l'umile successore di Pietro. Il Papa deve essere un vescovo che governa, o meglio che presiede alla comunione delle chiese e della Chiesa. È il suo vero e unico compito: lavorare per la comunione, presiedere alla comunione, riportare alla comunione. Invece si continua a volere un custode della verità dogmatica, una figura che sia un leader, un pontefice romano augusto più che un servo della comunione. Per questo, fin dall'inizio del cristianesimo, le Chiese sono divise tra loro. E a questo proposito occorre essere chiari: non vi sarà vera sinodalità senza una riforma anche del papato, (…). Quanto all'accettare con obbedienza critica ma anche con intelligenza e libertà il magistero del papa in cattedra e quello del papa emerito, occorrerà evitare di "far parlare i morti", tentazione che sempre ricompare in quelli che pretendono di riferire le parole di chi non è più in vita, volendo interpretarlo e riattualizzarlo. No, di chi non c'è più è determinante solo ciò che fatto, detto e scritto pubblicamente. Già nella Bibbia far parlare i morti è considerato un peccato grande: perché è facile che anche parole giuste appaiano nella luce della recriminazione e della rilettura interessata. Anche in questo discernimento i cattolici devono maturare e accettare una Chiesa, senza ricorrere ad una ottica catara che vuole una Chiesa fatta solo di santi, senza rughe né sporcizia. Nella Chiesa i papi vanno accolti come pastori, non venerati, e tanto meno fatti santi subito. Anche loro sono uomini limitati e peccatori e svolgono un servizio necessario ma segnato da limiti e dal limite ultimo della morte. Di seguito, «La stampa italiana genuflessa per Ratzinger “santo subito”» di Tomaso Montanari – critico dell’Arte, Rettore della “Università per Stranieri” di Siena – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri: (…). Mio padre, profondamente cristiano e cattolico, mi ha sempre detto che, al posto di quella di Longino, nella crociera di San Pietro si sarebbe dovuta scolpire la statua di Abraam giudeo. Questi, in una delle novelle del Decameron, è un ebreo parigino che comunica ai suoi amici cristiani che si sarebbe convertito alla fede in Cristo, ma solo dopo aver visitato appunto la Curia papale. Grande lo sconcerto degli amici: ben sapendo, dal papa in giù, “generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale ma ancora nella sodomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna. Oltre a questo, universalmente golosi, bevitori, ubriachi…; e …tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose… a denari e vendevano e comperavano”. Ma Abraam proprio per questo si converte: “Mi par discerner lo Spirito santo esser d’essa, sí come di vera e di santa piú che alcuna altra, fondamento e sostegno”. In altre parole, se la Chiesa si reggeva nonostante tutta quella ipocrisia e corruzione, doveva proprio essere assistita dall’Alto! L’amara ironia di Boccaccio riassume bene il disincanto che i cattolici più legati al Vangelo hanno sempre provato nei confronti di un formidabile sistema di potere tenuto in piedi in nome di Colui che ha contestato nel modo più radicale i meccanismi infernali di ogni umano potere. E forse oggi spetterebbe proprio a noi cattolici una critica sostanziale della figura di Joseph Ratzinger: fermi ovviamente restando il profondo rispetto per la persona, e l’ininterrotta preghiera per l’anima sua. Dal campo laico, sull’asserita grandezza del filosofo e del teologo (presentato dai giornali come una specie di somma di Agostino e dell’Aquinate…) aveva già detto parole coraggiose Umberto Eco nel 2011 (“Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale. Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole”). Sulla serietà dello studioso ha scritto in questi giorni Silvia Ronchey, ricordando l’uso non solo strumentale, ma filologicamente e storicamente errato, delle parole di Manuele Paleologo su Maometto nel famigerato discorso di Ratisbona. In generale, colpisce la beatificazione culturale da parte degli atei devoti di colui che ha diretto l’organo deputato alla repressione della libertà di pensiero nella Chiesa, quel Sant’Uffizio (diverso ora nel nome, non già nella missione) che, vituperato quando si rammenti la vicenda di Galileo, diventa invece una specie di libera accademia quando si tratti di celebrare Ratzinger. Anche ai cristiani ciò dovrebbe stare davvero a cuore: e del resto basta ascoltare la voce di Leonard Boff, o ricordare quella di Hans Kung, per sapere quanto inutile dolore abbia inferto la repressione del “pastore tedesco” (indimenticabile titolo del Manifesto il giorno dell’elezione di Benedetto XVI). Ma è forse sull’abdicazione che bisognerebbe riflettere. Che la Provvidenza abbia cavato bene dal male aprendo la stagione di Francesco è un fatto: ma sappiamo bene come i piani del quondam papa fossero opposti. Soprattutto, colpiva quel ribaltamento dello spirito del Magnificat: Benedetto si dimise dicendo di non avere più forza umana. Quando – da David a Giuditta, a Maria… – è proprio la mancanza di forza, unita all’abbandono a Dio, a ribaltare la logica del mondo: “Quando sono debole, è allora che sono forte”, dirà Paolo. In quelle parole pareva invece radicato il sentire della Curia come potere tutto terreno: quasi neo-pelagiano nel fare, in fin dei conti, a meno di Dio (scriverà poi papa Francesco “ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa”). Impressione rafforzata dalla decisione di riservarsi con un ultimo decreto di pessimo gusto titoli e privilegi, rimanendo in Vaticano e facendosi obiettivamente usare dalla fronda reazionaria che è poi platealmente riemersa in queste ultime ore. Preghiera e rispetto, dunque. Ma anche discernimento: altro che “santo subito”...

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