Cara T., quando ho visto la tua lettera ho pensato: è troppo lunga, non posso pubblicarla. Poi l'ho letta, e questa rubrica delle lettere è quasi tutta per te. Perché tu hai bisogno di raccontare e noi abbiamo bisogno di ascoltare. La storia che ci racconti non è troppo diversa da quella di tanti, e proprio per questo è importante condividerla. Non per "fare politica", ma per fare qualcosa di più: per restituire memoria alle singole persone (tuo nonno, tua madre, tuo zio alpino) che alla nostra storia hanno pagato un prezzo altissimo. Proprio La storia, il romanzo di Elsa Morante, mi è venuto in mente leggendoti. Il destino degli umili travolto dalle scelte criminali dei capi, eventi immani (la dittatura, la guerra) che piallano via come trucioli le vite delle persone. Ti ringrazio perché ci fai ricordare che queste vite sono importanti, una per una. E le persone non sono trucioli: ognuno di noi è un romanzo ambulante. Se passo da Genova ti prometto che vado a cercare a Staglieno il monumento agli alpini dispersi in Russia. Così saluto tuo zio. E ne approfitto per fare un salto anche a salutare Fabrizio. Con gli anni, il ricordo dei morti ingigantisce, come se stessimo per incontrarci tutti, dopo tanto tempo. Un'ultima cosa: tuo nonno aveva ragione, Mussolini era, prima di ogni altra cosa, un pagliaccio. Un mascherone tragicomico, pettoruto, mascelluto, parodia della cosiddetta virilità latina. Non lascia tranquilli sapere che un popolo quasi al completo si lasciò abbindolare. Ancora meno lascia tranquilli sapere quanti italiani vivono ancora nel mito di un pagliaccio.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 8 gennaio 2023
ItalianGothic. 22 «È proprio vero: la storia siamo noi».
(…): «Questo Isgrò, perché anche i gaglioffi
e gli uomini ottusi hanno diritto di passare alla storia o almeno
all'aneddotica, è nativo di Caltanissetta e io ebbi la buona o la malaventura
di conoscerlo lui studente di terza liceale, io studente di prima; ma fin
d'allora, per quelle simpatie e antipatie elettive della adolescenza, ci
eravamo sempre guardati muti e ostili. Lo rincontrai in una villeggiatura
montana, a San Valentino alla Muta, con tutto un corteggio goffo di familiari
pieni di stupida gloria, perché accompagnavano, come dicevano loro, il
presidente del tribunale speciale. E anche allora ci incontrammo, ci
riconoscemmo e non ci salutammo. Era l'anno in cui era morto Gramsci e in cui
erano stati assassinati i fratelli Rosselli. Eravamo in quella villeggiatura un
gruppo di liberali, fra gli altri c'era Meuccio Ruini e Guido De Ruggiero e
Pietro Pancrazi. Facemmo intendere alla padrona dell'albergo che con quell'ospite
indesiderabile tutti ci saremmo allontanati dal paese. Lo stesso Isgrò avvertì
di essere capitato in un mondo dove non c'era atmosfera di ammirazione per le
sue glorie, e ci liberò della sua incomoda presenza». Isgrò chi?
Michele Isgrò fu, all’epoca dei fatti, il pubblico ministero che nel processo -
svoltosi dal 28 di maggio dell’anno 1928 al 4 di giugno dello stesso anno -
condannò Antonio Gramsci al carcere ed al confino. La memoria è dello
“Storico della letteratura italiana” Luigi Russo, concittadino e compagno di
scuola del futuro pubblico ministero, memoria riportata sul settimanale
“Robinson” del quotidiano “la Repubblica” – “Antonio Gramsci e il suo giudice” - del 17 di dicembre dell’anno
2022. Ha scritto la lettrice T. A. – nella lettera riportata sul settimanale
“il Venerdì di Repubblica” (“È proprio
vero: la storia siamo noi”) del 16 di dicembre dell’anno 2022 -:
Caro Michele, vorrei raccontarti cose
vecchie. Una piccola storia di fascismo quotidiano, la storia che ha distrutto
la famiglia di mia madre. Mio nonno era in gamba, intelligente, lavorava
all'Eridania, aveva una bella famiglia, una moglie sarta, tre figli piccoli,
una bella villetta, libri e enciclopedie, e per divertimento la sera lavorava
il ferro battuto e faceva giocattoli di legno per i suoi bambini. Quando
diventò obbligatorio iscriversi al partito fascista decise che lui la tessera
non l'avrebbe mai presa, per cui lo licenziarono dall'Eridania. L'unico lavoro
che trovò fu in una fabbrica di munizioni, lontano dal suo paese, a
Spilimbergo, dove andò con la sua famiglia. In questa fabbrica tutti si
ammalavano di silicosi per la polvere di metallo che era sempre nell'aria (per
quello assumevano chiunque), così dopo pochi anni si ammalò anche lui e a 39
anni finì in sanatorio. Mia nonna cercò di tirare avanti facendo la sarta,
pagata con un po' di farina di polenta o qualche uovo, poi vendette la sua
casa, e tutte le domeniche prendeva il treno per andare da suo marito in
sanatorio. Mia mamma che aveva 10 anni con il suo fratellino più piccolo andava
alle 6 in stazione, dove almeno c'era la stufa, e aspettava il treno che
arrivava alle 9. Dopo tre anni mio nonno che aveva 42 anni morì. Fu un grande
dolore e un periodo di fame e freddo. Il figlio più grande che ormai era un
ragazzo andava a caccia, e l'unica carne la vedevano se riusciva a prendere una
lepre, mentre il piccolo quando aveva tanta fame la sera tardi entrava dalla
finestra in casa dei vicini e mangiava una fetta di polenta che era sul tavolo
ad asciugare per l'indomani. Mia mamma faceva orli da una sarta che le dava la
merenda. Intanto era scoppiata la guerra e il fratello di mia mamma (mio zio,
mi è sempre sembrato strano che questo zio sia esistito davvero) finì negli
alpini della Julia in Russia e durante la ritirata del Don morì, a Natale,
quando compiva 20 anni. Fu considerato disperso, ma dei suoi compagni,
pietosamente, avevano raccontato a mia nonna che lo avevano lasciato in una
isba, ferito alla testa, con intorno le foto della sua famiglia, e che era
andato contro i carri armati con solo il moschetto. Questa ultima cosa penso
sia vera in quanto ho letto episodi analoghi in Centomila gavette di ghiaccio.
Mia mamma che aveva 19 anni fece l'unica cosa che forse le sembrava possibile:
si sposò con un soldato di Genova, nel 1943, lasciò il suo paese e con sua
mamma e il fratello piccolo venne a vivere a Genova. Mia nonna quando era morto
suo figlio era diventata diabetica (non certo per eccedenze alimentari) e io ho
fatto appena in tempo a conoscerla, ma so che era sempre positiva, che non
aveva perso il suo senso dell'humour e la sua umanità (aiutava tutti). I miei
genitori sono rimasti sempre insieme penso abbastanza bene, mia mamma era
contenta di essere in un bel posto, voleva andare sempre in riviera e mi diceva
«sei contenta che ti ho fatto nascere qui?». Io non capivo cosa ci fosse da
essere contenta ma le dicevo di sì. Mia madre è andata alcune volte in Russia
perché sotto sotto sperava di incontrare suo fratello, che non fosse morto, e
di riconoscerlo. Senz'altro aveva risentito di queste esperienze e di
conseguenza anch'io. Dei miei nonni mi ricordo le foto al cimitero e di mio zio
solo quando andavamo a portare un lumino davanti alla statua dell'alpino nel
cimitero di Genova, e io credevo che fosse proprio lui. Ho 72 anni, non ho mai
raccontato queste cose a nessuno, non so perché ho scelto te, forse ti
considero un fratello d'elezione, se hai letto grazie, se non hai letto è lo
stesso, avevo bisogno di raccontare. Ci penso da quando abbiamo i fascisti al
governo. Mi vengono in mente mio nonno, che chiamava Mussolini il paias (il
pagliaccio) e mia nonna e i suoi bambini che hanno patito tanto, e sono triste
e arrabbiata. Vorrei fare qualcosa, ma non so proprio cosa! T. A.
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