"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 31 gennaio 2023

Piccolegrandistorie. 39 «…a Odessa insomma, dove "passava il respiro dell'Europa"».

Storiedall’EstdelMondo” 1. “L’Odessa felice di Puskin” di Daria Galateria, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 5 di agosto dell’anno 2022: A Odessa, Puškin (Mosca, 1799 - San Pietroburgo 1837 n.d.r.) rifiorì. Da più di tre anni era confinato in Moldavia a Chisinau; era una graziosa concessione dello zar, che in realtà lo avrebbe preferito in Siberia - considerava sediziose le sue poesie, e negli interrogatori ai dissidenti si chiedeva sempre: "Legge le poesie di Puškin?" ("E chi non legge le poesie di Puškin?" rispondevano, ragionevolmente). A Chisinau, lo scrittore si annoiava, nonostante il suo capo, il generale Insov, lo avesse in simpatia; per punizione dei suoi atti più scapestrati gli requisiva le scarpe per due giorni, ed era tutto; ma la noia stava diventando depressione, e il medico suggerì bagni di mare. A giugno del 1823, Puškin partì per Odessa. La città era in costruzione. Edificata per volontà del duca di Richelieu - il pronipote del Cardinale, emigrato della Rivoluzione francese e caro agli zar - Odessa aveva insegne e strade dai nomi francesi, vie peraltro non ancora lastricate, e invase dalla polvere e dal fango (le carrozze allora erano trainate da buoi). Vi si sentiva parlare italiano, greco, tedesco, moldavo - tutti commercianti accorsi; nelle librerie Puškin trovava quasi solo libri francesi, e il padrone del suo albergo, l'Hotel des Voyageurs, il barone Rénaud, era arrivato che era parrucchiere, ed era stato Richelieu a dargli il titolo. Anche lo chef, col suo cappello da cuoco, era francese, ed egregio, César Automne. Puškin faceva rapidi bagni, e un giorno che, passeggiando, osservava con troppa insistenza le batterie di una guarnigione, un ufficiale gli chiese allarmato il nome; e subito si entusiasmò: "Signori, ecco Puškin!", e ordinò una salva di cannone. Migliaia di piccole luci a olio disegnarono la strada e i contorni delle case il 15 luglio, per l'arrivo del nuovo viceré, conte Vorontsov. Ricchissimo, fastoso, raffinato, "mylord" Vorontsov prese Puškin nella Cancelleria: ma anche, presto, in antipatia - mentre la graziosa contessa sua moglie gli aprì i suoi principeschi conviti e la sua amicizia; certo gli trovavano un "cervello caotico", ma così divertente. La biblioteca del conte offrì a Puškin letture vaste e inattese (gli ispirarono l'Imitazione del Corano); e a Odessa insomma, dove "passava il respiro dell'Europa", Puškin doveva essere di buon umore, se la grande slavista Serena Vitale vi registra un solo duello, e pure dubbio. In compenso, Puškin compose, insieme a un nuovo capitolo dell'Onegin, alcuni dei suoi temibili epigrammi contro il viceré, che lo spedì commissario a un'invasione di cavallette in Crimea. Lui, Puškin, nome nobile da sei secoli! Chiese le dimissioni: fu deportato nella casa di famiglia.
 
Storiedall’EstdelMondo” 2. “Gogol’ all’osteria” di Daria Galateria, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 30 di settembre dell’anno 2022: Nikolaj Gogol' (Sorocincy Poltava, 1809 – Mosca 1852 n.d.r.) naturalmente sapeva cucinare i vareniki (ravioli a mezzaluna), gli gnocchi galuski e altri piatti piccolorussi (ucraini); ma eccelleva anche negli spaghetti, che preparava tali e quali (diceva lui) a quelli del "Lepre", la sua osteria preferita a Roma. Si metteva in piedi (Gogol' scriveva anche in piedi) davanti alla zuppiera, e scolati i maccheroni ben crudi, aggiungeva una gran quantità di burro, mescolava - maniche rimboccate - due volte, aggiungeva sale pepe e parmigiano, e rigirava a lungo. Poi di gran corsa bisognava fare i piatti e mangiare. All'osteria, Gogol' trattava il cameriere nel modo più capriccioso, rimandava indietro il riso troppo scotto, poi lo rinviava trovandolo crudo (il servitore glieli cambiava con il sorriso più accomodante, chiamandolo "signor Niccolò"), e quando trovava il piatto di suo gusto ci si buttava, con tutti i lunghi capelli; solo poi si rovesciava all'indietro, diventando allegro e loquace, anche col cameriere di prima (va detto che anche gli amici definivano "patriarcali" i suoi modi col cameriere Jakim). All'amica Balabina scriveva (in italiano) di tornare a Roma, a gustarne l'aria dolce (la lettera è del 1838) "come il riso alla milanese". Banchetti sontuosi Gogol' li organizzava, per sdebitarsi, nel suo onomastico, 9 maggio (…). Rientrando da Roma, ospite dello storico Dmitrij Pogodin, Gogol' parlamentava col cuoco della casa: ogni tanto gli urlava "Te ne devi andare!" e si rivolgeva a chef di talento - purché beninteso talento "semplice e ucraino"; vino di qualità, e usignoli: perché cantassero durante il pranzo, Gogol' ne appendeva alcuni in gabbia nei tigli del vasto giardino, ai due lati della tavolata: era un'orchestrina di trilli. Gogol' partiva in viaggio per dimenticare i suoi fiaschi, con una sacca quasi vuota. Dopo la Svezia, la Germania, e dopo Parigi (detestata), gli sembrava che in Italia "tutto si è fermato in un punto, e non va più avanti"; però aggiungeva: "di Roma ti innamori lentamente, e per sempre"; vi ritrovava i piatti cucinati "all'antica, come presso gli ucraini di vecchio stampo". In Europa Gogol' ha visto "cambiamenti", ma "l'Italia è fatta per viverci". Conosceva la plebe di Trastevere così bene da sbalordire il grande critico Sainte-Beuve: "Ancora non è stata scritta una storia dove si veda il popolo, la gente", gli diceva Gogol'; e familiarizzava con l'altro genio che si occupava del popolino, l'adorato Giuseppe Gioacchino Belli, che incontrava "alle mense" della vicina di casa russa, "Sor'Artezza Zzenavida Vorkonski", come cantava il poeta.

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