Ha scritto oggi, lunedì 23 di gennaio 2023, Tomaso
Montanari in “Ritrovare nel santo La
Pira l’opposizione alla guerra” pubblicato su “il Fatto Quotidiano”: (…).
A rileggere oggi le parole incandescenti di La Pira si prova contemporaneamente
una stretta al cuore (per quanto siamo regrediti), e un senso di liberazione
(per la capacità di restituire, malgrado tutto, fiducia nel futuro). Egli
vedeva distintamente che l'umanità si trovava ormai su quello che chiamava un
"crinale apocalittico", ma proprio per questo pensava che fosse
ineludibile il cammino su quel "sentiero di Isaia" alla fine del
quale i popoli "faranno delle loro spade aratri e delle loro lance falci;
un popolo non brandirà più la spada contro un altro popolo; e non impareranno
più l'arte della guerra". L'impossibilità di vincere la guerra, argomentava
La Pira, doveva cancellare la guerra stessa: "L'età atomica, nella quale
la storia è entrata il 6 agosto 1945 con lo scoppio della prima atomica di Hiroshima
(appena 0.015 mega-toni!) e nella quale è incredibilmente avanzata in questi
tre decenni (siamo già ad un milione di megatoni disponibili; nella sola Europa
vi sono oltre 10 mila testate nucleari, una vera polveriera capace di far esplodere
in pochi minuti l'intiero continente) fa sempre più emergere, mettendola in
grandissimo rilievo, la profezia di Isaia: al negoziato, al disarmo ed alla
pace non c'è alternativa!" (1972). Negli anni precedenti, La Pira si era
speso senza risparmio contro la guerra del Vietnam, non esitando a condannare
l'Occidente: "Diciamolo francamente, con fermezza e senza esitazione - aveva
scritto nel 1966-, questo diluvio di bombe, di fuoco, di distruzione e di morte
che da circa due anni si rovescia paurosamente ogni giorno ed ogni notte, senza
interruzioni, su un piccolo, mite, anche se fiero, popolo di contadini, non
deve protrarsi più oltre! Ora basta! Esso degrada l'intiero Occidente che lo
compie, o pigramente lo sopporta: provoca l'orrore dei popoli di ogni continente.
'Un grido in Rama si udì, pianto e grave lamento: è Rachele che piange i suoi
figli (si potrebbe tradurre: le madri di Hanoi e le madri americane che
piangono i loro figli), né vuole essere consolata, perché non sono più", Era
la spaccatura del mondo in due blocchi ciò che La Pira non accettava: "Il
destino storico degli Stati Uniti non è quello militare della guerra e della
distruzione: è quello scientifico e tecnico della pace e della edificazione! È
il destino - congeniale alla storia del popolo americano ed a questa nuova età
della storia del mondo - delle 'frontiere nuove' indicato da Kennedy; quello
della 'grande società' non solo americana, ma mondiale, indicato in felice
prospettiva da Johnson stesso nel discorso di investitura del 20 gennaio 1965:
è il destino della edificazione dei ponti con l'Est e con tutti i popoli ed in
tutti i continenti". Non si fatica, dunque, a immaginare che oggi La Pira
si troverebbe perfettamente d'accordo con papa Francesco nella ferma condanna
dell'aggressione di Putin, e al tempo stesso nella condanna della volontà di
potenza occidentale: le due forze che impediscono di giungere a una pace in
Ucraina, e rendono attuale lo spettro di una catastrofe nucleare. Non avrebbe avuto
paura, La Pira, di farsi dare del putiniano, o del nemico dell'Occidente: come
non ebbe paura, nel 1961, di finire indagato (per il doppio reato di violazione
della censura e apologia del reato di obiezione di coscienza) per aver
organizzato una proiezione pubblica di Non uccidere di Claude Autant- Lara. Del
resto, il discorso di La Pira era evangelicamente fondato sul "sì, sì, no,
no”; (…). …nel 1950 (…) al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi per dirgli:
“So bene che la critica è più facile dell'azione: ma così non può andare:
davanti al quadro mondiale che ci sta davanti, al cospetto delle "velocità
atomiche" delle situazioni che il mondo presenta in tutti i settori (economico,
finanziario, politico, culturale), non è possibile tirare a-vanti coi metodi che
noi attualmente usiamo". È a un'Italia che continua ad alimentare una
guerra mostruosa con un ininterrotto flusso di armi, che oggi la voce di questo
profeta torna a ripetere: basta, con questo diluvio di fuoco e di morte! Di
seguito, “Abbiamo normalizzato pure la
guerra e le armi” di Donatella Di Cesare pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 21 di gennaio ultimo: (…). Siamo ormai arrivati a questo: la
guerra si è normalizzata. Non avremmo mai voluto dirlo, né tantomeno scriverlo. E ancora fino a qualche mese fa, resistevano lo stupore per un conflitto sul
suolo europeo, l’indignazione per l’invio di armi, la protesta per l’assenza di
negoziati di pace. Adesso l’eccezione della guerra, quella che i bellicisti
giuravano sarebbe durata qualche settimana, è diventata la norma, mentre noi
abbiano finito per assuefarci. Come se fosse un’ovvietà familiarizzarsi con la
guerra, accettare che rientri nel nostro orizzonte. Dimentichiamo volentieri i
rischi a cui ci esponiamo (come quelli nucleari alla centrale di Zaporizhzhia),
tralasciamo ipocritamente i danni che spedendo armi infliggiamo ad altri,
sbandierati invece per benefici. Certo, la propaganda è stata martellante,
aggressiva, sfrontata. E continua a esserlo. Gli stessi cliché, le stesse
assurde forzature, le stesse mielose menzogne. Ancora adesso c’è chi ripete il
ritornello di Vlad il mattacchione che ha combinato questo disastro. Noi che
siamo dalla parte del Bene prima o poi ne verremo fuori. Mandiamo più armi per
“preparare la pace”. In realtà il fondamentalismo atlantista è diventato una
vera e propria religione, con i suoi credo, i suoi dogmi e l’inevitabile
crociata. Non sono ancora chiari gli effetti di quest’inedita dottrina, che
sembra far saltare l’opposizione destra-sinistra (in diversi Paesi europei).
Quello che conta è lo scontro democrazie-oligarchie. Grazie a questo schema
l’estrema destra di Meloni ha potuto insediarsi al governo senza troppi
ostacoli. La meraviglia, che persiste all’estero, sottovaluta questo tema. È
bastata la nuova professione di fede atlantista per sdoganare i vecchi
fascisti. Non parliamo poi di quello che è avvenuto nel centrosinistra, lì dove
c’era da aspettarsi dall’inizio una fermezza contro questa guerra. Nel Pd, che
ha pagato caro il cieco militarismo della prima ora, destano sconcerto parole
come quelle di Elly Schlein, piene di ambiguità, eppure almeno in questo
chiare: sì all’invio di armi. In una fase costituente, o ricostituente, come
quella attraversata dal Pd, la guerra avrebbe dovuto essere la prima questione
all’ordine del giorno, vagliata, analizzata, discussa nei suoi diversi aspetti.
Invece tutto viene liquidato in uno slogan imbarazzante. Da
Meloni a Schlein il fondamentalismo atlantista si è affermato facendo
proseliti e insinuandosi un po’ ovunque, come se fosse ovvio accettare un
conflitto europeo, come se fosse normale una terza guerra mondiale. Che dire
poi di quel che si preannuncia a breve: Zelensky a Sanremo? Un capo di Stato in
guerra che interviene a un festival di canzoni per chiedere che si mandino
carri armati, scudi missilistici, ecc. Usare la musica popolare a sostegno
della propaganda bellicista è un’abiezione. C’è da augurarsi che
quell’opposizione che ancora esiste – dal M5S a SI – chieda conto di una tale
scelta. Quest’iniziativa dà tuttavia la misura di quel che succede. In realtà,
qui il popolo è e resta contro questa guerra. Il problema, lo sappiamo, è la
rappresentanza, la possibilità di esprimere e coagulare quel dissenso che
esiste. Non fa dimenticare la guerra Papa Francesco, che la menziona ogni
volta, la domenica, il mercoledì, quando può. Le sue parole sono un baluardo
contro l’oblio e la normalizzazione. Ma anche il mondo cattolico, che pure sin
dall’inizio ha reagito, non riesce davvero a far sentire la propria voce e il
proprio peso, quasi a sua volta travolto e frammentato da eventi così tragici e
dirompenti. Più passa il tempo e più la pace perde. Si restringono le
possibilità di negoziati, si approfondisce il solco, aumentano l’odio e la sete
di vendetta, propende a tacere chi pensa che non è con le armi che si risolvono
i conflitti tra i popoli. Ma non diciamo ancora che ha vinto la guerra.
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