"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 29 novembre 2022

ItalianGothic. 17 Recalcati: «L'analfabetismo intellettuale che lo spinge a confondere umiliazione-umiltà con educazione appartiene ad una cultura della pedagogia autoritaria».  

Ha scritto Daniela Ranieri in “Altro che Montessori, è il metodo Valditara: umiliazione e sudore” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, lunedì 28 di novembre 2022: (…). L’asserito misunderstanding è noto: “Evviva l’umiliazione”, aveva detto a un convegno, “un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di fronte ai propri compagni. Da lì nasce il riscatto”, dal che tutta la popolazione alfabetizzata italiana aveva capito che per Valditara i docenti devono umiliare gli studenti indisciplinati davanti ai compagni. In serata il ministro ha ritrattato: lui voleva dire che gli studenti discoli devono “umiliarsi”, cioè “essere umili,” stabilendo con ciò la totale interscambiabilità di “umiltà” e “umiliazione”. Non contento, ha scritto a Repubblica per lamentarsi che “qualche commentatore forse non pienamente in buona fede” ha “voluto generalizzare”, e Dio sa cosa c’entri la generalizzazione con la transitività dei verbi. Nella lettera finge di darsi torto per darsi ragione (vecchio trucco degli oratori principianti): “Riconosco che il passaggio stesso può risultare non univoco nella sua interpretabilità”, hai detto niente, in fondo è solo il ministro dell’Istruzione, mica è tenuto a conoscere l’interpretabilità delle parole; poi ci spiega la differenza semantica tra umiliare qualcuno e umiliarsi davanti a qualcuno: “È decisivo l’uso riflessivo del verbo”, vedi tante volte. Non padroneggiando appieno “la sola scienza al mondo suprema, la scienza delle parole”, per citare un autore che dovrebbe essergli caro (D’Annunzio), il ministro dell’altrui Istruzione ha voluto dire la sua sul Reddito di cittadinanza: “È moralmente inaccettabile darlo a chi non ha terminato l’obbligo scolastico”. Riscatto, umiliazione, moralmente inaccettabile: Valditara ha questo eloquio intimidatorio, ampolloso, da verbale di questura del 1930. Ma è giusto: chi non ha la terza media, e magari lavora per pochi spicci da quando era minorenne, va punito vieppiù e affamato per giunta. Come se non fosse la povertà il primo motivo di abbandono della scuola. All’uopo, il suo governo toglie il Rdc ai genitori dei ragazzini indigenti, così imparano. E, per limitare la dispersione scolastica, con la manovra il suo ministero si appresta a chiudere centinaia di scuole. Dopo aver redatto di suo pugno una circolare per dire alle e agli studenti che il comunismo è “un incubo” (il suo), l’instancabile Valditara ha detto che la scuola deve “avviare al lavoro fin dalle elementari”. È il metodo Valditara, dopo quello Montessori: creare forza-lavoro; premiare i fenomeni, i cresimati dal merito, i figli dei ricchi; punire i reietti, gli emarginati, gli scarsi (tipo Einstein, che andava male a scuola). Lo Stato deve bullizzare i bulli, costringendoli alle pene alternative al carcere che i tribunali comminano ai condannati. “Coi lavori socialmente utili il ragazzo accetta la sfida di ridurre le pretese del proprio ego”, ha detto il leghista (ex An), e chissà come si riducono le pretese dell’ego dei ministri, già autori di opere monumentali quali L’impero romano distrutto dagli immigrati. Sfornando studenti umiliati e impauriti, oppure spavaldi e prevaricatori – tutto fuorché cittadini liberi, pensanti – costruendo una società disciplinare fondata sulla competizione e sulla performance, neoliberista e classista con una base di destra autoritaria che nega qualunque progresso della pedagogia. “Quando io ero bambino” ha detto Valditara con rimpianto, “il maestro era il maestro con la emme maiuscola”. Quando lui era bambino, a metà degli anni ’60, si usavano ancora le bacchettate sulle mani e le pene corporali: che voglia ripristinarle? Ne abbiamo tutti fatto esperienza: gli insegnanti che mortificavano gli allievi erano dei palloni gonfiati repressi, falliti e frustrati; i danni che hanno fatto negli animi di generazioni di ragazzini innocenti sono incalcolabili. O forse basta guardare agli adulti che ci governano. Di seguito, “Il bullismo dell’autorità fra i banchi” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di scuola lacaniana – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri: Le recenti esternazioni del neoministro all'Istruzione Valditara, che esaltano l'umiliazione come pratica pedagogica, sono talmente gravi da lasciare basiti. La successiva rettifica - non voleva attribuire valore all’umiliazione" ma all'umiltà" - peggiora se possibile la situazione conferendo valore di lapsus alla prima espressione. Ricordo che, in psicoanalisi, il lapsus non è mai un semplice errore linguistico, ma ciò che riflette la convinzione più profonda del soggetto che lo pronuncia. Dunque questo "lapsus" impressiona non solo per la rozzezza delle argomentazioni che lo sostengono e che cozzano contro il ruolo di altissima responsabilità che egli ricopre, ma per il messaggio educativo che esso veicola. (…). Ho (…) speso parole pubbliche per difendere l'idea del merito non solo perché del tutto coerente con i principi della Costituzione, ma perché necessaria per rifondare una cultura autenticamente democratica della Scuola italiana. Tuttavia, le parole di questo ministro sembrano provenire dal medioevo. Sia che si tratti di umiliazione che di umiltà. Ma non perché non sia fondamentale in ogni processo educativo l'esperienza del limite e del riconoscimento delle proprie responsabilità, ma perché non c'è alcun valore educativo né nell'umiliazione, né nell'imposizione dell'umiltà. Anzi, se c'è un compito etico della Scuola è proprio quella di liberare le vite dei nostri figli dall'esperienza ingiusta dell'umiliazione. Il bullismo di ogni specie ha infatti proprio nell'umiliare l'avversario il suo principio fondamentale. La gogna pubblica non favorisce mai l'assunzione delle proprie responsabilità, ma solo il risentimento rabbioso e l'aggressività se non l'identificazione con una versione solo sadica del potere che tenderà a riprodurre su altri la violenza subita. In che mani siamo? Come può un Ministro dell'istruzione generare questi equivoci, fraintendere egli stesso il valore dell'esperienza del limite con l'esaltazione convinta della necessità dell'umiliazione come fattore di formazione della personalità? L'incontro con il limite non serve ad umiliare la vita, ma a mostrare che è solo grazie a questo incontro che diviene possibile l'esperienza generativa del desiderio. Se non si tengono in rapporto la dimensione normativa della Legge con quella vitale della trasmissione del desiderio ogni progetto educativo risulta fallimentare. Non solo. Nel suo discorso il Ministro ha evocato la necessità della stigmatizzazione pubblica per favorire al reo l'assunzione delle proprie responsabilità. Ma egli non sa che ogni stigmatizzazione genera un'identificazione all'escluso che non attiva affatto la spinta al riscatto sociale e culturale ma facilita drammaticamente il rischio definitivo dello sbandamento e della dissipazione? Possibile che si dimentichi che la vocazione fondamentale del lavoro di ogni insegnante procede proprio avversando ogni stigma per dare a ciascuno la possibilità della propria particolare realizzazione? Ma non è questo il vero contenuto del famigerato merito che i padri costituenti avevano giustamente riconosciuto nella sua funzione fondamentale? Dare alla vita dei nostri figli la possibilità di acquisire un valore che prescinde dal sangue o dal colore della pelle, dalla ricchezza o dalla povertà? E dovrebbe essere questo il ministro che difende il valore formativo del merito? L'analfabetismo intellettuale che lo spinge a confondere umiliazione-umiltà con educazione appartiene ad una cultura della pedagogia autoritaria che dopo il '68 pensavamo di avere superato definitivamente. Con un problema aggiuntivo che è necessario sollevare: il "lapsus" del ministro trova purtroppo ancora nella nostra Scuola ferventi adepti. La severità ottusa è l'altra faccia della latitanza educativa e del disimpegno frivolo o apatico di cui il ministro a ragione si lamenta. Sono i due grandi sintomi speculari di cui soffre la nostra Scuola oggi. Da una parte essa vorrebbe preservare la sua antica e nobile reputazione difendendo una autorità in declino con la difesa della disciplina e di un rigore solo formale, dall'altra essa appare rassegnata al venir meno di ogni sua autorevolezza colludendo con la pigrizia di ragazzi che non vogliono più faticare acconsentendo di fatto alla sua trasformazione in un asilo sociale. Come trattare questo doppio sintomo che affligge la nostra Scuola? Forse era il caso di cominciare dalla scelta di un ministro diverso? Magari un intellettuale in grado di avere un pensiero profondo sulla scuola e sulla sua vocazione? È solo nel riabilitare il carisma profondo del maestro che possiamo restituire autorevolezza alla nostra Scuola. Ma noi siamo nelle mani di un ministro al quale sembra che sfuggano addirittura i fondamentali. Allora ci sarà il bullismo istituzionalizzato dell'autorità contro il bullismo selvaggio dei negligenti. Bisognerebbe avere invece il coraggio di volare in alto. A proposito di patriottismo: non abbiamo forse noi il privilegio di essere seduti sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto nella nostra straordinaria cultura che tutto il mondo ci invidia? Non rischiamo con il lapsus del ministro di umiliare questa tradizione, le nostre radici, la nostra stessa storia?

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