Ha scritto Daniela Ranieri in “Altro che Montessori, è il metodo Valditara: umiliazione e sudore”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, lunedì 28 di novembre 2022: (…). L’asserito
misunderstanding è noto: “Evviva l’umiliazione”, aveva detto a un convegno, “un
fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di
fronte ai propri compagni. Da lì nasce il riscatto”, dal che tutta la
popolazione alfabetizzata italiana aveva capito che per Valditara i docenti
devono umiliare gli studenti indisciplinati davanti ai compagni. In serata il
ministro ha ritrattato: lui voleva dire che gli studenti discoli devono
“umiliarsi”, cioè “essere umili,” stabilendo con ciò la totale
interscambiabilità di “umiltà” e “umiliazione”. Non contento, ha scritto a Repubblica per
lamentarsi che “qualche commentatore forse non pienamente in buona fede” ha
“voluto generalizzare”, e Dio sa cosa c’entri la generalizzazione con la
transitività dei verbi. Nella lettera finge di darsi torto per darsi ragione
(vecchio trucco degli oratori principianti): “Riconosco che il passaggio stesso
può risultare non univoco nella sua interpretabilità”, hai detto niente, in
fondo è solo il ministro dell’Istruzione, mica è tenuto a conoscere
l’interpretabilità delle parole; poi ci spiega la differenza semantica tra
umiliare qualcuno e umiliarsi davanti a qualcuno: “È decisivo l’uso riflessivo
del verbo”, vedi tante volte. Non padroneggiando appieno “la sola scienza al
mondo suprema, la scienza delle parole”, per citare un autore che dovrebbe
essergli caro (D’Annunzio), il ministro dell’altrui Istruzione ha voluto dire
la sua sul Reddito di cittadinanza: “È moralmente inaccettabile darlo a chi non ha terminato l’obbligo scolastico”. Riscatto, umiliazione, moralmente
inaccettabile: Valditara ha questo eloquio intimidatorio, ampolloso, da verbale
di questura del 1930. Ma è giusto: chi non ha la terza media, e magari lavora
per pochi spicci da quando era minorenne, va punito vieppiù e affamato per
giunta. Come se non fosse la povertà il primo motivo di abbandono della scuola.
All’uopo, il suo governo toglie il Rdc ai genitori dei ragazzini indigenti,
così imparano. E, per limitare la dispersione scolastica, con la manovra il suo
ministero si appresta a chiudere centinaia di scuole. Dopo aver redatto di suo
pugno una circolare per dire alle e agli studenti che il comunismo è “un
incubo” (il suo), l’instancabile Valditara ha detto che la scuola deve “avviare
al lavoro fin dalle elementari”. È il metodo Valditara, dopo quello Montessori:
creare forza-lavoro; premiare i fenomeni, i cresimati dal merito, i figli dei
ricchi; punire i reietti, gli emarginati, gli scarsi (tipo Einstein, che andava
male a scuola). Lo Stato deve bullizzare i bulli, costringendoli alle pene
alternative al carcere che i tribunali comminano ai condannati. “Coi lavori
socialmente utili il ragazzo accetta la sfida di ridurre le pretese del proprio
ego”, ha detto il leghista (ex An), e chissà come si riducono le pretese
dell’ego dei ministri, già autori di opere monumentali quali L’impero romano
distrutto dagli immigrati. Sfornando studenti umiliati e impauriti, oppure
spavaldi e prevaricatori – tutto fuorché cittadini liberi, pensanti –
costruendo una società disciplinare fondata sulla competizione e sulla
performance, neoliberista e classista con una base di destra autoritaria che
nega qualunque progresso della pedagogia. “Quando io ero bambino” ha detto
Valditara con rimpianto, “il maestro era il maestro con la emme maiuscola”.
Quando lui era bambino, a metà degli anni ’60, si usavano ancora le bacchettate
sulle mani e le pene corporali: che voglia ripristinarle? Ne abbiamo tutti
fatto esperienza: gli insegnanti che mortificavano gli allievi erano dei
palloni gonfiati repressi, falliti e frustrati; i danni che hanno fatto negli
animi di generazioni di ragazzini innocenti sono incalcolabili. O forse basta
guardare agli adulti che ci governano. Di seguito, “Il bullismo dell’autorità fra i banchi” di Massimo Recalcati –
psicoterapeuta di scuola lacaniana – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
di ieri: Le recenti esternazioni del neoministro all'Istruzione Valditara, che
esaltano l'umiliazione come pratica pedagogica, sono talmente gravi da lasciare
basiti. La successiva rettifica - non voleva attribuire valore
all’umiliazione" ma all'umiltà" - peggiora se possibile la situazione
conferendo valore di lapsus alla prima espressione. Ricordo che, in
psicoanalisi, il lapsus non è mai un semplice errore linguistico, ma ciò che
riflette la convinzione più profonda del soggetto che lo pronuncia. Dunque
questo "lapsus" impressiona non solo per la rozzezza delle
argomentazioni che lo sostengono e che cozzano contro il ruolo di altissima responsabilità
che egli ricopre, ma per il messaggio educativo che esso veicola. (…). Ho (…)
speso parole pubbliche per difendere l'idea del merito non solo perché del
tutto coerente con i principi della Costituzione, ma perché necessaria per
rifondare una cultura autenticamente democratica della Scuola italiana.
Tuttavia, le parole di questo ministro sembrano provenire dal medioevo. Sia che
si tratti di umiliazione che di umiltà. Ma non perché non sia fondamentale in
ogni processo educativo l'esperienza del limite e del riconoscimento delle
proprie responsabilità, ma perché non c'è alcun valore educativo né
nell'umiliazione, né nell'imposizione dell'umiltà. Anzi, se c'è un compito
etico della Scuola è proprio quella di liberare le vite dei nostri figli
dall'esperienza ingiusta dell'umiliazione. Il bullismo di ogni specie ha
infatti proprio nell'umiliare l'avversario il suo principio fondamentale. La
gogna pubblica non favorisce mai l'assunzione delle proprie responsabilità, ma
solo il risentimento rabbioso e l'aggressività se non l'identificazione con una
versione solo sadica del potere che tenderà a riprodurre su altri la violenza
subita. In che mani siamo? Come può un Ministro dell'istruzione generare questi
equivoci, fraintendere egli stesso il valore dell'esperienza del limite con
l'esaltazione convinta della necessità dell'umiliazione come fattore di
formazione della personalità? L'incontro con il limite non serve ad umiliare la
vita, ma a mostrare che è solo grazie a questo incontro che diviene possibile
l'esperienza generativa del desiderio. Se non si tengono in rapporto la
dimensione normativa della Legge con quella vitale della trasmissione del
desiderio ogni progetto educativo risulta fallimentare. Non solo. Nel suo
discorso il Ministro ha evocato la necessità della stigmatizzazione pubblica
per favorire al reo l'assunzione delle proprie responsabilità. Ma egli non sa
che ogni stigmatizzazione genera un'identificazione all'escluso che non attiva
affatto la spinta al riscatto sociale e culturale ma facilita drammaticamente
il rischio definitivo dello sbandamento e della dissipazione? Possibile che si
dimentichi che la vocazione fondamentale del lavoro di ogni insegnante procede
proprio avversando ogni stigma per dare a ciascuno la possibilità della propria
particolare realizzazione? Ma non è questo il vero contenuto del famigerato
merito che i padri costituenti avevano giustamente riconosciuto nella sua
funzione fondamentale? Dare alla vita dei nostri figli la possibilità di
acquisire un valore che prescinde dal sangue o dal colore della pelle, dalla
ricchezza o dalla povertà? E dovrebbe essere questo il ministro che difende il
valore formativo del merito? L'analfabetismo
intellettuale che lo spinge a confondere umiliazione-umiltà con educazione
appartiene ad una cultura della pedagogia autoritaria che dopo il '68
pensavamo di avere superato definitivamente. Con un problema aggiuntivo che è
necessario sollevare: il "lapsus" del ministro trova purtroppo ancora
nella nostra Scuola ferventi adepti. La severità ottusa è l'altra faccia della
latitanza educativa e del disimpegno frivolo o apatico di cui il ministro a
ragione si lamenta. Sono i due grandi sintomi speculari di cui soffre la nostra
Scuola oggi. Da una parte essa vorrebbe preservare la sua antica e nobile
reputazione difendendo una autorità in declino con la difesa della disciplina e
di un rigore solo formale, dall'altra essa appare rassegnata al venir meno di
ogni sua autorevolezza colludendo con la pigrizia di ragazzi che non vogliono
più faticare acconsentendo di fatto alla sua trasformazione in un asilo
sociale. Come trattare questo doppio sintomo che affligge la nostra Scuola?
Forse era il caso di cominciare dalla scelta di un ministro diverso? Magari un
intellettuale in grado di avere un pensiero profondo sulla scuola e sulla sua
vocazione? È solo nel riabilitare il carisma profondo del maestro che possiamo
restituire autorevolezza alla nostra Scuola. Ma noi siamo nelle mani di un
ministro al quale sembra che sfuggano addirittura i fondamentali. Allora ci
sarà il bullismo istituzionalizzato dell'autorità contro il bullismo selvaggio
dei negligenti. Bisognerebbe avere invece il coraggio di volare in alto. A
proposito di patriottismo: non abbiamo forse noi il privilegio di essere seduti
sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto nella nostra straordinaria
cultura che tutto il mondo ci invidia? Non rischiamo con il lapsus del ministro
di umiliare questa tradizione, le nostre radici, la nostra stessa storia?
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