Ha
scritto Diego Bianchi in “L’ora dei pavidi”
pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di novembre 2022: «Sono incinta»,
«sono malata» «fa freddo», «abbiamo la scabbia», «ci sono i pidocchi», «non c'è
acqua calda», «mio marito ha il cancro», «viaggio sola», «mia figlia ha la
febbre», «pensavo di morire in mare e ora rischio di morire qui», «fateci
scendere». Qualcosa dimentico sicuramente, qualcosa si sarà probabilmente perso
nella traduzione e nella concitazione della notte di pioggia e mare alto di
sabato, al largo di Catania. Il coro di donne e bambini che mi ha travolto
appena salito a bordo della Geo Barents di Medici senza frontiere, a margine delle
caotiche e disumane ore in cui, con 572 naufraghi a bordo, si reclamava invano
da 10 giorni un porto per far sbarcare coloro che il ministro Piantedosi
avrebbe definito di lì a poco, in buona parte (la parte «sana», quella reputata
non malata a sufficienza per sbarcare) come «carico residuale», rischia di
essere già dimenticato. L’escalation del sadismo ipocrita e strumentale del
nuovo governo volitivamente alle prese con quattro Ong piene di migranti, ha
portato per lo più a far concentrare l'attenzione sulla novità dello sbarco
selettivo. Sono invece passate in secondo piano le sofferenze già inferte in
quelle ore anche ai più «fragili», quelli che «umanamente» (cito sempre
Piantedosi) sarebbero di lì a poco stati fatti sbarcare, dopo essere stati lasciati
in mezzo al mare per giorni perché senza porto per attraccare. Avere avuto il
privilegio di essere proprio lì, in mezzo al mare, a raccogliere le
testimonianze di chi non si capacitava che «i difensori dei diritti umani»
fossero capaci di tanta incomprensibile disumanità, è stato utile a ricordarmi
quanto tutto diventi semplice nel momento in cui lo si vede, annusa, tocca.
Milad, siriano di 43 anni, padre di 4 figlie lasciate in Siria, quando ha
capito che era rimasto a bordo perché non abbastanza malato è andato da una
ragazza dello staff di Msf a dirle in faccia che lei, proprio lei che gli stava
comunicando che per il momento ancora non sarebbe sbarcato, stava distruggendo
il sogno suo e delle sue bambine mostrate a tutti sul telefonino. «In Siria c'è
la mafia!», ripeteva, «per questo voglio andare in Italia», e lo diceva a noi
che non lo facevamo sbarcare in Sicilia, dove a quella parola valida per ogni
lingua abbiamo dato corpo e sangue più di chiunque altro. La ragazza lo
ascoltava, lo faceva sfogare, provava a dire a Milad che non era colpa sua, che
anzi lei era lì per sostenerlo, ma la cosa folle è che era lei in quel momento
l'unico suo interlocutore, nella follia del momento apparentemente infinito in
cui i pavidi abbondano, a ogni governo un po' più. Di seguito, “Capriole e battaglie navali: il
ministro-alga azzeccato al potere” di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 13 di novembre ultimo: Il prefetto di prima classe Matteo
Piantedosi, neo ministro dell’Interno, non è un carico residuale. Viene dallo
Stato profondo, quello che a occhio nudo non si vede, ma dondola nella corrente
come fanno le alghe, docili solo in apparenza, in realtà ben radicate ai
coralli che si affacciano sugli abissi del potere. È stato lo scudiero di tre
ministri dell’Interno, Annamaria Cancellieri ai tempi del governo Monti. Di
Luciana Lamorgese, durante l’esecutivo Draghi. Ma specialmente di Matteo
Salvini, anni 2018-19, che lo nominò suo capo di gabinetto con funzioni di
portierato visto che il ministro al Viminale non ci metteva piede, aveva sempre
altro da fare, 210 comizi in giro per l’Italia, a collezionare felpe della
polizia, degli indiani e dei cowboy, e spassarsela con il suo amico Luca
Morisi, che gli organizzava 1500 selfie al giorno con la Bestia, ma finì
sbranato da un paio di rumeni gigolò nel suo ultimo giorno di vita pubblica, il
triste Ferragosto del 2021. L’ultima mareggiata elettorale ha portato il sempre
silente Piantedosi sulle spiagge del governo. Il più a destra della nostra
storia. Indossando per la prima volta i panni politici stesi tra il Viminale e
l’Italia sottostante, presidio d’ordine sul disordine. Sebbene la fretta
dell’esordio – prendendo per la prima volta e sventuratamente la parola – gli
abbia fatto fare l’esatto contrario, fabbricando disordine dove non c’era. In
primo luogo con il decreto legge anti rave, scritto con così tanti piedi da
dimenticarsi la parola “rave” nell’intero inchiostro legislativo, finendo per
minacciare con 6 anni di galera ogni assembramento che raccolga più di
cinquanta disgraziati, fosse anche per una festa di laurea, purché i
partecipanti vengano sorpresi in un capannone, da lui personalmente, nella
nascente Nazione Meloni. In secondo luogo, con la sconclusionata battaglia
navale nel Canale di Sicilia, dove il ministro e i suoi due cavalieri d’apocalisse
il Tajani monarchico e di nuovo il Salvini bimbo, non giocavano con i bottoni,
e nemmeno con i tonni in transito, ma con uomini, donne e bambini in carne e
stracci, imbracciando il notevole puntiglio di difendere “i sacri confini della
Patria”, senza neanche immaginare quanto risultasse blasfemo spendere la
sofferenza altrui per incassare due spiccioli a testa da giocarsi al videogioco
dei sondaggi. Sapendo, per di più, che era la finzione di una minaccia a
muovere la propaganda, un solo migrante e mezzo ogni dieci arriva sulle navi
delle Ong, l’unica cosa vera era il supplemento di agonia da infliggere ai
malcapitati, per poi dire: “Non verremo mai meno ai doveri d’umanità”. Che è la
piccola perfidia addolcita di buonismo, con cui il funzionario intagliato nel
legno burocratico, dissimula il suo potere in un sorriso. A cui segue la
minaccia da legge razziale: “Consentiremo solo lo sbarco selettivo”. Così per
una manciata di giorni (e notti) prima di rimangiarsi tutto. Com’era ovvio. E
accendere niente di meno che una guerra diplomatica con la Francia, una volta
spedita la Ocean Viking a Tolone, assediata da altrettanti sovranisti
permalosi: “Basta accordi con l’Italia!”. E se non bastasse, generare il
massimo discredito agli occhi delle altre cancellerie d’Europa che
incidentalmente ci stanno foderando le coperte di miliardi di euro per
affrontare il peggiore inverno del nostro scontento. Sempre orgoglioso di
dichiararsi “servitore dello Stato” è il nostro Piantedosi, classe 1963,
napoletano, ma avellinese d’adozione, laurea in Giurisprudenza, una moglie, due
figlie. Indossa vestiti su misura e vocabolario da foglio di via, usando per
esempio “fattispecie penale” invece di reato, “interlocuzione quotidiana”,
invece di parlarsi, “attenzionare”, invece di allertare. Lo appassiona
l’Avellino Calcio e la buonanima di Fiorentino Sullo, democristiano d’altro
secolo, che fu cinque volte ministro, l’esordio nel disgraziato governo
Tambroni, anno 1960, versione etrusca dell’attuale, finito malissimo. Lui comincia
la carriera d’alto rango da prefetto di Lodi, città celebre per latte, foraggi
e fuoriserie. Passa a Bologna, dove è appena scoppiato il celebre
“Cinzia–gate”, protagonista Flavio Del Bono, il sindaco dal cuore fragile, che
offriva cene, alberghi e altre sentimentali utilità alla sua segretaria, come
accade nei racconti di Piero Chiara. Piantedosi ci arriva nei panni di
personaggio secondario, qualifica di sub commissario del commissario Annamaria
Cancellieri che se lo porterà al Viminale – “è uno bravo che mi risolve
problemi e non me ne aggiunge” – per poi nominarlo vice capo della polizia. Lì
resta, fino all’incontro fatale, spalla a spalla con Salvini ministro,
scrivendogli tutti i decreti sicurezza non solo per tormentare le navi delle
Ong – “i taxi del mare” – ma persino quelle della Guardia di Finanza, la
Diciotti e la Gregoretti, inventandosi il pericolo di terroristi islamici
imbarcati tra i clandestini. Pericolo nato direttamente sulle sponde dei Mojito
che il capo ingurgita al Papeete. E che Piantedosi asseconda. Salvo derubricare
la bugia – durante il processo a Catania per “sequestro di migranti” – nel
consueto ho solo obbedito a un ordine, anche se detto più confusamente: “Mi
sono preoccupato di concretizzare la volontà politica del ministro”. Ma una
volta che Conte silura il Salvini dei pieni poteri, Piantedosi si adegua, senza
fare una piega, al ministro successivo, la signora Lamorgese, che vuole i
decreti sicurezza scritti al contrario. E, oplà, ecco la capriola, bastando
sostituire la parola “fermezza”, con “accoglienza”. Per poi incassare la nomina
a prefetto di Roma, settembre 2020 – “mai e poi mai mi vedrete scendere in
politica”, diceva – proprio mentre la capitale alleva rifiuti e cinghiali,
festeggia in piazza la nazionale italiana campione d’Europa, ma specialmente il
Covid, nel maxi-assembramento del centro storico, assiste all’assalto dei
neofascisti di Forza Nuova e degli svalvolati No-Vax alla sede della Cgil, che
fu premeditato per tutti, tranne che per la prefettura. Corallo dopo corallo,
eccolo in cima. Oggi guerreggia nientemeno che con Macron. Ma farà pace al
primo ordine contrario: lui concretizza la volontà politica, nient’altro. E se
un giorno dovrà scegliere tra Meloni e Salvini, l’alga Piantedosi finirà sempre
per piegarsi da una parte sola. Quella della corrente, la sua.
Nessun commento:
Posta un commento