“Presidente
Meloni, le racconto tutti i miei lavori di fannullona”, lettera “aperta” di
una lettrice de’ “il Fatto Quotidiano” pubblicata nella edizione di ieri,
sabato 26 di novembre 2022: Per lei, signor Presidente Meloni, il povero
è un fatto di correità, sfiga e indolenza insieme. Ancor peggio se siciliano. (…).
La speranza che al Sud con i poveri diventa scambio di voti. Di cosa dobbiamo
morire? Tra la carità e la disperazione, signor presidente, preferisco la
carità. Io appartengo alla categoria dei colori smorti, il miserabile pitocco,
archetipo delle vostre idiosincrasie. Sono povera, sissignore. Non ho mai
macchiato la mia divisa della mostrina del fannullone, sorry. Vi piace immaginarci
così, generazioni di parassiti, in panciolle. Non conosco privilegi, il destino
mi ha inchiodato al Sud, non sono siciliana, mane vivo il peso, una certa
iattura. Non conosco privilegi. Una ragazzina intelligente. Diplomata liceale,
non frequento l'università. Mio padre, uomo colto e curioso, si è spezzato la
schiena in fabbrica, per una vita. Nessun privilegio. Mai. Comincio a lavorare
subito. L'università è per i ricchi, famiglie borghesi con un bilancio
abbordabile. Non è il mio caso. Una città cimitero, allora, con luci fasulle di
brillii illegittimi, economie poggiate su disarmonie, illegalità. Solite cose,
al Sud. Una impossibilità latente si impossessa di chi ci vive, un orizzonte
sterminato di privazione. Sterminato come il blu dei mari che si incontrano
sullo Stretto di Messina. Molto suggestivo. Disperante e suggestivo. Venditrice
di libri. Vendevo, ero brava, mai visto un soldo, impreparata, era facile finire
in mano a cialtroni di vario genere. Vendevo contratti per tomi enciclopedici.
Ero gentile, educata, le persone si fidavano di me. Mai visto un soldo. I
cialtroni, ricordo un paio di nomi, fecero il sacco e sparirono dalla circolazione,
fantomatiche agenzie di lavoro. Lavapiatti, centinaia di bicchieri, posate,
pentole, acqua fredda, gelata, piegata sul lavabo fino alle due del mattino,
con il fiato sul collo del capo-cameriere sessista che si eccitava insultando
le ragazzine come me. La prima sera di prova includeva l'opzione: non pagata.
Gli altri trenta euro (c’erano ancora le lire, tuttavia) il sabato e la
domenica. Banconista in un pub di marrani, uomini perlopiù, avventori di
spettacolini sui generis, tipo giovinette mezze nude imbrattate di panna.
Serate ben pagate. Cinquanta euro, il sabato e la domenica. Cameriera, durante
i ricevimenti, i matrimoni, bisognava avere gambe solide e una buona schiena.
Venditrice di tappeti. Drappi pesanti, manti di lana cachemire, da srotolare e
ripiegare, una specie di yak nella sostanza, sa quei bovini tibetani da soma. A
fine giornata ti sembrava di avere un gomitolo in gola. Bastava abituarsi, al
gomitolo in gola. Ero bravina. Soprattutto nelle fiere campionarie, c'era una
sola breve pausa, o il pranzo, al volo, o la sigaretta. Un'estate provai l'ebbrezza
di condividere l'abusività, in un parcheggio, con altri poveri, poveri più che
mai, posteggiatori non regolari insomma. Cercavano di fregare la vita, come si
dice. Abbiamo imparato a farlo, quiggiù, o muori. Devi scegliere di cosa: pregiudizio
altrui, ignoranza, albagia nordista. Disperazione. Ho sempre lavorato. Lo
chiama lavoro lei, signor presidente? Fino a qualche anno fa, mi deve credere,
non ho mai visto mille euro tutte insieme. Non si commuove? O è il solito schifo
che sale piuttosto, non è così? Una specie di mal di povero, la nausea che
guida ogni disequazione e che riguarda noi, i colori smorti, i parassiti, i
pitocchi. Però scrivo. Ed è una gran fregatura. Vorrei firmarmi: la fannullona.
Preferisco il mio nome, però. V* T* Di seguito, “Quel legame di sangue fra miseria e corruzione” di Alberto Vannucci
pubblicato sul mensile “Millennium” del mese di novembre 2022: La povertà è la madre della ribellione e del
crimine", afferma Aristotele nella Politica. Un sano pragmatismo,
piuttosto che l'improbabile benevolenza, dovrebbe spingere i ceti abbienti a
moderare le proprie pretese, a salvaguardia dell'ordine sociale. Eppure, a ogni
latitudine, è proprio un'attività criminale il terreno privilegiato di caccia
al profitto dei colletti bianchi e delle classi dirigenti. Nessun altro crimine
come la corruzione può vantare un vincolo di sangue così stretto con la
povertà, in un intrico di cause ed effetti che si alimentano a vicenda. Una
ricerca del 2003 spiega che la crescita della corruzione di una deviazione
standard si associa a un incremento dell'11 per cento dell'indice di diseguaglianza
di Gini e a una riduzione del 5 per cento del reddito dei più poveri. La
"trappola della povertà" è una metafora appropriata di questo
processo: un circolo vizioso generato dalle condizioni precarie della
popolazione e dalla gracilità delle istituzioni politico-amministrative, in cui
il ricorso a pratiche illegali diventa un'illusoria valvola di sfogo, che da un
lato accentua le disparità, dall'altro soffia sul disincanto verso le
istituzioni pubbliche. Si genera così una mistura tossica di impoverimento di
fasce crescenti di popolazione e di delegittimazione della politica e dell'apparato
pubblico. È il brodo di coltura degli apprendisti stregoni populisti. Ma è anche
il terreno dove le politiche neoliberiste di privatizzazione e deregolamentazione
promosse negli ultimi decenni dalle istituzioni internazionali trovano piena
giustificazione: debellare la corruzione, che in quella prospettiva si associa
all'invadenza dello Stato e all'ottusità della burocrazia, per sollevare dalla
povertà i ceti più deboli. Questa narrativa, ormai dominante nel discorso
pubblico sulle riforme anticorruzione, sconta una fallacia di fondo. Dimentica,
infatti, la circolarità del legame tra corruzione e impoverimento, dove la
povertà è anch’essa generatrice di abusi di potere. E nello stesso tempo trascura
le ricadute, in termini di inasprimento delle più feroci disuguaglianze,
generate dalle stesse politiche neoliberiste, con una concentrazione di ricchezza
nelle mani di pochi senza precedenti. Si vuole combattere sul serio la
corruzione? Occorre afferrare l'altro corno del dilemma. Combattere con strutturali
politiche redistributive la povertà della popolazione, materiale ed educativa.
La riflessione filosofica dell'occidente si fonde così con la saggezza orientale,
da Aristotele a Confucio: "In un Paese ben governato ci si deve vergognare
della povertà. In uno malgovernato ci si deve vergognare della ricchezza".
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